Il mago Turmed stava affacciato alla finestra che separava il Mondo di qua da quello di là, quando l’alambicco cominciò a gorgogliare. Schioccò le dita e un’ampolla si precipitò a raccogliere il liquido denso e verdastro che stillava dalla serpentina. Sollevò il contenitore verso la luce per valutare colore e consistenza della pozione. Accese la pipa, assaporò una robusta boccata di fumo e tornò a osservare.
Vista da lì, New York pareva il modellino di una città dentro a una palla di vetro con la neve.
Le strade, ricche di addobbi multicolori, brulicavano di gente frettolosa e carica di pacchetti; ognuno cercava di gestire l’ansia a proprio modo.
Il mago lisciò la barba. Gli esseri umani trascorrevano la maggior parte del tempo davanti a delle scatole luminose smanettando come forsennati sulle tastiere. Sembrava che le loro stesse esistenze dipendessero da quegli aggeggi e tutto ciò li rendeva molto vulnerabili. Da quando se n’è era reso conto, la sete di potere gli aveva rubato il sonno e il senno.
La Times Square Ball era pronta a calare sul nuovo millennio per la grande festa, ma il seme dell’incertezza che Turmed era riuscito a impiantare nel cuore della gente era germogliato in fretta divenendo prima paura, poi terrore.
Jimmy Moore guardò lo schermo e impallidì. Si tolse gli occhiali, alitò sulle lenti e slacciò la cravatta. Armeggiò con il cavetto del computer, premette con foga i tasti tornando a guardare il monitor a più riprese, ma il risultato non variò. Mise le mani tra i capelli, scalciò con violenza il cestino della carta e una montagna di ricevute svolazzò a mezz’aria prima di avviare una discesa lenta e inesorabile verso il pavimento. Uno schizzo della sua angoscia finì per colpire la grande durmateria che si trovava al centro del giardino nel castello di Turmed.
Nivaltur si svegliò di soprassalto accecato dal bagliore e sollevò lo sguardo verso i rami. Una goccia gelida lo centrò in piena fronte e così notò la brutta crepa che si estendeva dalle radici fino alla cima. Tese le orecchie: un flebile lamento sembrava provenire proprio dalla fenditura nel tronco.
Si alzò di scatto barcollando un po’ prima di ritrovare l’equilibrio. La testa gli faceva un gran male. Spolverò la casacca con dei colpetti leggeri e si affrettò a tornare in cucina. Era tardissimo.
«Che scusa hai questa volta?» gli disse Candifilla senza smettere di rimestare la pentola.
«Non ci crederai, ma ho sentito la durmateria lamentarsi.»
Uno sbuffo di vapore nero come fuliggine si posò sulla testa dell’aiuto cuoca facendo svolazzare il ciuffo di peli vermigli che fuoriuscivano dalla sua cuffietta.
«Stai scherzando!»
«Dici? Guarda qui come mi ha ridotto!» Nivaltur sollevò il cappello. Un orrendo bitorzolo blu gli era cresciuto in mezzo alla fronte.
Candifilla girò il volto dall’altra parte e si tappò il naso. Spense il fuoco, si avvicinò alla porta in punta dei piedi, occhieggiò prima a destra, poi a sinistra e la chiuse badando bene di non fare alcun rumore.
«Nivaltur, se la durmateria si lamenta e lacrima non è buon segno.»
Intanto Turmed, a furia di camminare avanti e indietro, aveva scavato un solco così profondo nel pavimento che dal buco si intravedeva l’altra parte del globo. Continuava a fare su e giù davanti alla finestra, mentre la pipa vomitava nuvole scure come i suoi propositi.
Il borbottio dello stomaco gli ricordò di non aver ancora mangiato. Indispettito, schioccò le dita affinché il cuoco si presentasse all’istante al suo cospetto.
Turmed osservò contrariato le mani vuote. Dissimulò il disappunto con una vocetta melliflua:
«Dimmi Nivaltur, dov’è la mia zuppa di vermelia?»
«Signore, - ehm- la vermelia, con questo freddo, è piuttosto dura da cuocere…»
In quel momento, il mago si accorse di aver dimenticato di abbassare il pesante tendone di velluto nero sotto il quale teneva nascosta la finestra da sguardi indiscreti.
«E va bene, va bene, va bene! Aspetterò…» rispose in tutta fretta, ma Nivaltur non lo ascoltava. Fissava le immagini di là dal vetro a bocca aperta.
«Che ci fai ancora qui? Torna subito in cucina!»
Il cuoco sarebbe voluto scappare, ma non riusciva a muovere un passo.
Turmed si avvicinò a un palmo dal suo naso e, guardandolo dritto negli occhi, gli disse:
«Sei davvero sicuro di voler sapere?»
Nivaltur deglutì scuotendo il capo.
«E invece, te lo dirò.» Estrasse la bacchetta dal mantello e con un tocco lo sollevò da terra incollandogli il naso alla finestra.
Quella notte Nivaltur restò sveglio. Il vento spingeva sui vetri, il legno dell’armadio scricchiolava. Il bubbone sulla fronte pulsava seguendo il ritmo accelerato del suo cuore.
Un lieve bussare lo fece trasalire. Pizzicò tre volte il naso per scaramanzia e, tappandosi la bocca per evitare persino di respirare, si avvicinò in punta dei piedi al buco della serratura: Candifilla stringeva tra le mani una piccola scatola blu.
Attese ancora un istante prima di decidersi ad aprire.
«Nivaltur, fammi vedere subito la fronte» disse entrando senza neppure chiedere permesso «un po’ di unguento di patula e starai subito meglio, vedrai.»
«Sì, però… fai in fretta!»
«Perché?»
“Lo giuro, Signore, non dirò nulla a nessuno”. La promessa fatta al mago continuava a tormentarlo e non riusciva a guardarla negli occhi.
«Ora devi raccontarmi tutto o non andrò via di qui.»
“È finita”, pensò, “ha vinto lei”. La conosceva troppo bene, era del tutto inutile combattere una battaglia persa.
Quando Nivaltur terminò il racconto, Candifilla si sdraiò esausta sul pavimento. L’ultima volta che la durmateria aveva pianto Turmed si era impadronito del loro mondo rendendoli schiavi.
«Nivaltur, dobbiamo trovare il modo di fermarlo.»
«Oh no, no, no! Non dire sciocchezze! Dimentica subito ciò che ti ho detto.»
Candifilla lo guardò storto e, scandendo bene le parole, disse: «Turmed. Deve. Essere. Fermato.»
Scese di corsa le scale, entrò in cucina e salì sopra una sedia. Aprì la madia e cominciò a rovistare. Nivaltur aveva il fiato grosso e la fissava stralunato mentre lei tirava fuori barattoli, sacchi e sacchetti di ogni colore.
«Questo non è… e neanche quello. Eppure sono sicura di averlo nascosto qui. E tu non stare lì impalato. Vieni ad aiutarmi!»
«Ma se non so neppure cosa stai cercando.»
Candifilla, senza degnarlo di una risposta, continuava a ispezionare ogni angolo del vecchio mobile. «Ah, ah, alla fine ti ho trovato!» esclamò soddisfatta. Stringeva tra il pollice e l’indice un oggetto tanto minuscolo da sembrare invisibile. Scese piano dalla sedia, lo depose sul tavolo e, preso un gran respiro, ci soffiò sopra. Si udì un rumore simile a un frullo d’ali: un vecchio libro di ricette si materializzò davanti ai loro occhi.
«Nivaltur, assicurati che la porta sia ben chiusa.»
Candifilla annusò la copertina logora e accarezzò le pagine una ad una. Tirò su col naso e deterse le lacrime col dorso della mano.
«È tutto ciò che mi resta della mia famiglia. Non potevo lasciare che Turmed me lo portasse via.» Nivaltur le puntò il dito dritto davanti agli occhi. «Hai una vaga idea di cosa potrebbe farci se lo scoprisse? Potremmo finire appesi a un ramo della durmateria o essere dati in pasto al primo sgrugno affamato che passa. Potrebbe strapparci a uno a uno i peli dalla testa o bollirci nella sua dannata zuppa...»
«Shhhh! Non alzare la voce.» Lo interruppe senza sollevare lo sguardo dalla pagina.
«Almeno mi vuoi dire che c…» Ma Candifilla non gli dette il tempo di fare la domanda: con un balzo gli buttò le braccia al collo e lo abbracciò.
«Non ci credo, non ci credo, non ci credo!!!» Continuava a ripetere mentre andava su e giù per la stanza con il libro in mano.
«Leggi qui: “Torta Atrot!” »
«E che roba è?» rispose Nivaltur rosso come un tizzone.
«È un dolce fatto con la radice di estrusia.»
«Cos’è, hai perso il senno? Vuoi avvelenare Turmed?» Nivaltur scosse il capo avviandosi verso i fornelli. Se il mago avesse schioccato le dita non poteva farsi beccare di nuovo a mani vuote. Candifilla lo afferrò per la casacca.
«Ma quale veleno! Mi hai preso per una sciocca? So bene che non funzionerebbe… L’estrusia ha la proprietà di far fare a chi la mangia il contrario di ciò che vuole. Capisci?» disse sottovoce.
Nivaltur alzò gli occhi al soffitto sospirando. «Ammesso che tu abbia ragione, dove possiamo trovarla questa estronzia?»
«Estrusia ho detto. Calmati, adesso leggo. Ecco qui: “la radice cresce sulle pendici del monte Spellalapilli.”»
«Frena subito l’entusiasmo, Candifilla. Sai che ci è proibito uscire dal castello.»
«Eppure dobbiamo riuscirci in un modo o nell’altro.»
Uno schiocco di dita echeggiò nella stanza.
Turmed stava davanti alla finestra. La magnifica sala da ballo era stata lucidata a specchio. Un vorticare di danze sfrenate, un’orgia di cibi succulenti e di luci colorate avrebbero dato il via ai festeggiamenti con un solo schiocco delle dita. L’eco dei suoi ordini risuonava in ogni ala del castello.
Un colpetto di tosse lo distolse dai pensieri.
«Signore…» Nivaltur attendeva in ginocchio.
«A che punto sono i preparativi del banchetto?»
«È quasi tutto pronto mio Signore, manca soltanto il dolce. Solo che…»
«Che?»
«Solo che manca un ingrediente e, Signore, devo uscire dal castello per cercarlo.» Disse tutto d’un fiato.
«Piccolo incrostapentole impudente.» Turmed lo squadrò come avesse una bestia immonda davanti ai piedi. «Tu non ti muoverai da qui!» Prese una boccata di fumo, gliela soffiò dritta nel viso e, puntandogli addosso la bacchetta, lo inchiodò al soffitto.
Candifilla mordicchiava le unghie lanciando continue occhiate verso la porta. “Quel buono a nulla stavolta mi sentirà” pensava tra sé e sé. Un ennesimo schiocco rimbombò nella cucina.
Preoccupata, prese dalla dispensa un pizzico di polvere di alimidia e la mescolò alla zuppa prima di presentarsi a sua volta al cospetto del mago.
«Signore, la vostra zuppa di ve…» le parole le morirono sulle labbra. Il povero Nivaltur penzolava dal soffitto come un lampadario. Candifilla gli lanciò un’occhiata complice affrettandosi a mettere la minestra sul tavolo. Il mago si avventò sulla ciotola spazzolando il contenuto con voracità. Candifilla lo sorvegliava sorniona. Dopo aver ingurgitato l’ultimo cucchiaio, gli occhi cominciarono a ruotargli dentro le orbite. Turmed crollò in un sonno profondo.
Nivaltur sbiancò in volto. Candifilla gli intimò di stare zitto e, senza voltarsi indietro, si precipitò fuori dal castello.
La paura della fine del mondo imminente aveva scatenato un violento uragano. Nuvole gonfie oscuravano il cielo e una morsa di gelo artigliava i boschi e i prati.
Candifilla legò stretta la cuffietta. Il vento turbinava e la costringeva spesso a fermarsi ad asciugare le lacrime con la manica del vestito.
La vetta del monte Spellalapilli era ancora lontanissima, i piedi già scorticati e doloranti. A ogni passo le gambe sembravano sul punto di cedere. Era già scivolata tre volte. Cristalli di ghiaccio taglienti come lame piovevano dal cielo senza sosta, ma mollare tutto non era un’opzione.
Una volta giunta alle pendici della grande montagna, si mise a scavare di buona lena.
Dai, su piccolina vieni fuori… fatti vedere.
Nello stesso preciso momento, Jimmy Moore non riusciva a trovare una posizione per stare seduto. Cercava di evitare in ogni modo lo sguardo della moglie mentre lei continuava a sbraitare.
«"Mi spiace signora Moore, ma il suo credito è esaurito…" Hai la più pallida idea di come mi sono sentita?»
Jimmy non muoveva un muscolo temendo che, da un momento all’altro, la donna oltre al proprio livore gli rovesciasse addosso la minestra bollente.
«Si può sapere dove sono finiti i nostri soldi? Bada che se scopro che hai ricominciato a giocare…»
La finestra si aprì di colpo e una folata di vento glaciale entrò nella stanza facendo girare le pagine del quotidiano abbandonato sul tavolo.
“I computer impazziranno!”
“Le banche falliranno!”
“Le scorte di cibo saranno esaurite!”
Jimmy dette una rapida scorsa ai titoli con la coda dell’occhio e si illuminò.
«Ma, cara, non li leggi i giornali? È per colpa del millennium bug se il nostro conto è in rosso!» rispose infine.
La signora Moore si accasciò sulla sedia. «Posso avere del bourbon?» chiese con un filo di voce.
«Certo, cara.»
La panzana di Jimmy volò difilato nel Mondo di là facendo crescere all’istante una piccola estrusia. Candifilla la infilò lesta sotto la cuffia e si incamminò verso il castello incurante del dolore che la torturava a ogni passo.
Turmed, nel frattempo, si era svegliato e aveva le dita spellate a furia di schioccarle.
Candifilla si sistemò meglio che poté prima di presentarsi di nuovo dal mago con una ciotola di zuppa fumante.
«Signore, ecco la vostra zuppa di…»
Il mago la guardò stordito. «Adesso non ho più fame!» Disse senza darle modo di finire la frase. La polvere di alimidia aveva funzionato a dovere, ma Turmed continuava a fissarla pensieroso. Il cuore di Candifilla perse tre battiti quando si sentì tirare per la gonna.
«Sai danzare?» le chiese a bruciapelo.
Candifilla avvampò.
«Conosco solo il puntinello e la maionza, mio Signore.»
«Molto bene! Ballerai alla mia festa.»
«Mio Signore, ma chi starà ai fornelli? Lui è… lassù!» Alzò lo sguardo al soffitto attendendo la reazione.
Turmed soffiò rassegnato, tirò fuori la bacchetta e la puntò verso Nivaltur facendolo cadere con violenza sul pavimento.
«E adesso sparite!»
Una volta soli, Candifilla sollevò la cuffietta e consegnò la piccola radice. Nivaltur la strinse in un forte abbraccio prima di mettersi al lavoro.
Turmed si specchiò nel pavimento del salone. Per l’occasione indossava una tunica degna di un imperatore. Pose la preziosa ampolla sul davanzale della finestra. La quantità di pozione era più che sufficiente per dissolvere il vetro. Allo scoccare del nuovo millennio i due mondi avrebbero avuto un unico signore e padrone: lui. Gonfiò il petto, abbassò la tenda e a voce alta disse:
«E adesso musica! Che la grande festa abbia inizio!»
Una melodia sgangherata si diffuse nell’aria e una moltitudine di invitati riempì la sala.
Candifilla seguiva il ritmo saltellando su e giù, mentre con un occhio cercava di controllare gli spostamenti del mago e con l’altro fissava la porta.
Quando Nivaltur fece il suo ingresso, la musica cessò di colpo. Sorreggeva una magnifica torta e gli tremavano le gambe.
La folla si aprì ad ala per lasciarlo passare.
Giunto davanti al mago, s’inchinò porgendogli il vassoio.
«Mio Signore, un piccolo omaggio da parte del vostro umile cuoco.»
Turmed strabuzzò gli occhi, gli strappò la torta di mano e la ingoiò in un solo boccone.
Nivaltur deglutì a vuoto cercando lo sguardo di Candifilla.
Il mago tossì toccandosi la gola. Aveva il respiro corto e le pupille dilatate.
Agitò la bacchetta e la pesante tenda di velluto nera iniziò a svolazzare qua e là sopra le teste degli ospiti che osservavano la scena impietriti.
L’ampolla che conteneva la pozione prese a ruotare su se stessa e si sollevò per aria. Turmed fece per correre verso la finestra ma i piedi lo portarono verso la porta. L’ampolla continuava a vorticare da una parte all’altra del salone sotto lo sguardo costernato del mago che cercava di recuperarla in ogni modo.
«Fermati!» E quella si muoveva. «Vieni a me!» E quella finiva dalla parte opposta.
Esplose una risata corale.
Turmed, le narici dilatate, e gli occhi iniettati di sangue puntò la bacchetta sui presenti.
Fu un fuggi fuggi generale.
Candifilla, approfittando della confusione, colpì l’ampolla che cadendo, si frantumò rovesciando la pozione sulla testa del mago. Di lui non restò che un sottile filo di fumo nero che si dissolse nell’aria proprio allo scoccare dell’ultimo rintocco della mezzanotte.
I fuochi d’artificio dettero il benvenuto al nuovo millennio.
Quella notte gli abitanti dei due mondi ebbero più di un motivo per festeggiare. Gli esseri umani, la fine della grande paura che da tempo li angosciava e i piccoli elfi la riconquistata libertà.
La musica e le danze durano fino al mattino.
Del millennium bug restava solo qualche pagina di giornale. Tutti ne furono felici tranne, forse, Jimmy Moore.