Come se già non fosse abbastanza triste, ci si metteva pure la neve a rendere tutto più malinconico. Era dal pomeriggio che fioccava senza pause e il corto viale dove si affacciava il bar era scomparso, nascosto sotto una coltre spessa di neve, così come tutte le strade di Roma.
Samuele pensò che l'indomani gli sarebbe piaciuto andare a fare un bel pupazzo con Filippo, a passeggiare senza meta, bagnarsi i guanti e le scarpe. Chissà com'era bello il lago di villa Borghese con la neve. Invece niente, non avrebbe potuto, perché Giulia aveva deciso che sarebbero dovuti andare a Termoli, dai nonni. Una scusa, pensò digrignando i denti, un'altra scusa. Quei vecchi li potevano andare a trovare anche il giorno dopo...
Alzò il bicchiere che stava finendo di asciugare e attraverso ci vide il bar deformato e riflessi i lampi delle luci intermittenti che aveva ammassato vicino al bagno, di fianco all'albero di Natale spelacchiato con le palle rosse e gialle. Cercò di calmarsi, di fermare il montare della rabbia e riprese a strofinare il bicchiere, anche se ormai era asciutto e senza aloni.
Avrebbe potuto evitare di aprire, quella sera, ma doveva tenere la mente occupata perché era davvero giù di morale. Invece non era venuto nessuno, tranne un tizio silenzioso e mezzo ubriaco, che nonostante il freddo e la neve indossava solo un giubbotto di pelle e un paio di occhiali da sole.
Samuele gli diede un'occhiata distratta e lui, come se si fosse sentito chiamare, si alzò e barcollò verso il jukebox. Ogni tanto muoveva la mascella e sembrava che masticasse. Davanti alla macchina si fermò e quasi ci precipitò sopra, ma all'ultimo, con l'aria di chi la sapeva lunga, si salvò poggiando una mano al muro, mentre con l'altra frugava nella tasca dei jeans cercando una moneta.
Le luci colorate del jukebox si specchiavano sulla giacca di pelle lucida e sulle lenti degli occhiali da sole.
Quando trovò la moneta emise un gridolino di gioia e la sollevò trionfante, per mostrarla in giro, ma il locale, a parte lui e Samuele, era vuoto. Mugugnò qualcosa e si piegò come un riccio sul vetro, per cercare una canzone da mettere. Si levò gli occhiali e iniziò a leggere, ma ci mise qualche secondo di troppo, forse per mettere a fuoco le parole.
Fuori la neve continuava a cadere placida e lui per un po' la osservò attraverso la porta a vetri, con la coda dell'occhio, e forse per ripicca, per cancellare tutta quella pace, chissà, tutta quella solennità natalizia, mise un pezzo dei Ramones.
Si trascinò di nuovo al posto e fece appena in tempo a rimettersi seduto che subito si addormentò, con la fronte sul tavolino e le braccia penzoloni. Samuele scosse la testa, mise via il bicchiere e diede una rapida occhiata all'orologio: mancavano venti minuti a mezzanotte.
I Ramones smisero di suonare nell'attimo esatto in cui la porta del bar s'aprì: una sagoma, scura, in controluce sui lampioni della strada e le luminarie natalizie, che esitò un attimo prima di entrare. Il silenzio, dopo la musica alta, era ancora più duro, e si sentiva solo il respiro rauco dell'ubriaco addormentato e i passi croccanti sulla neve dei rari passanti.
«Prego» disse Samuele, «venga dentro.»
La sagoma si scosse e qualche fiocco precipitò sul pavimento.
«Mi scusi» bofonchiò, «mi son portato dentro un poco di questa bella neve.»
Fece qualche passo e chiuse la porta dietro di sé.
«Brrr, cavoli, che freddo» disse. In testa aveva un cappello da Babbo Natale bagnato, con il ponpon sporco, che dondolava a ogni passo. Teneva sottobraccio un pacchetto, con la carta regalo stropicciata, bianca e dorata, e un borsone a tracolla. Il lungo impermeabile che indossava sfiorava il pavimento e gli stava largo sulle spalle, come se non fosse il suo. Una tasca era strappata per metà.
«C'è un apparecchio telefonico?» chiese.
Samuele indicò la parete in fondo, tra la porta del bagno e l'albero di Natale.
«Le lascio queste cosucole in custodia» disse l'uomo, posando il pacco e il borsone sul banco e facendo l'occhiolino. Samuele notò che aveva le iridi chiarissime, d'un celeste annacquato.
«Faccia pure» disse. L'uomo annuì, ma invece di andare al telefono si lasciò cadere su uno degli sgabelli.
«Quanta poca gente che c'è in giro questa sera, no? Che va pure bene, è la serata della vigilia, ma dài, non è esagerato?»
«Sarà per la nevicata» disse Samuele, alzando le spalle, «non ci siamo abituati.»
«E poi la gente preferirà starsene con la famiglia, a smangiucchiare e fare la tombola, già» annuì l'uomo, mentre si grattava la barba ispida sul mento.
Samuele fece una smorfia, ma non rispose, posò invece le mani sul banco, aspettando che ordinasse qualcosa.
«Lei ad esempio» continuò invece l'uomo, «perché non sta in casa?» Sorrise sbilenco, alzando solo la parte sinistra delle labbra.
«Sto lavorando» rispose secco Samuele, «e lei?»
«Oh bella, anche io lavoro!» esclamò l'uomo, alzando le mani e lasciandole ricadere sulle ginocchia.
«E sia, quindi lavoriamo tutti e due. Le servo qualcosa?»
«Io e lei lavoriamo, certo, ma quello là?» chiese l'uomo, girando sullo sgabello e indicando l'ubriaco addormentato.
«Non lo conosco» disse Samuele, «è la prima volta che lo vedo.»
«Ci credo, l'ho convinto io a venire a bere qui» disse l'uomo, gonfiando il petto, «era fermo qua fuori, al riparo sotto la pensilina del tram, e gli ho detto: eccoti qua cinquantamila lire, ma te li do solo se te li sbevuzzi in quel bar! Non è che ha bisogno di soldi, questo lo so, ma di sicuro ha bisogno di bere. Sa, finalmente la moglie lo ha mandato via di casa perché picchiava il figlio. Ma giù botte pesanti, cavoli. L'ho fatto entrare qua per prendere due piccioncini con una fava.»
«Ma che sta dicendo?» chiese Samuele.
«Facciamo che mi serve una cioccolata e io dopo le racconto una storia. Ci metta anche la panna montata, che mi piace corposa di dolcità.»
Samuele fece un passo indietro e osservò meglio l'uomo. Era molto magro, alto, le dita secche, immobili sul bancone, arrossate dal freddo. Sorrideva sbilenco, un occhio rosso e cisposo, dove il celeste spento degli occhi risaltava ancora di più.
Iniziò a preparare la cioccolata senza perderlo di vista. L'uomo si mise a girare sullo sgabello per giocare, come un bambino. Quando la cioccolata fu pronta si fermò e si accese una sigaretta. Fumava e beveva, ogni tanto cercava di fare dei cerchi di fumo, ma proprio non gli venivano.
«Ho tipo un'ossessione per il Brucaliffo» disse, «sa, quello di Alice nel Paese delle meraviglie? Quello che fumacchia.»
Samuele annuì.
«Certo che lo conosce, che domande» sorrise l'uomo, schiacciando la sigaretta, «suo figlio Filippo avrà visto la videocassetta del film almeno un centimigliaio di volte.»
Samuele sbarrò gli occhi.
«Come conosce mio figlio?» sibilò.
«Su, su, non preoccuparti» sbottò l'uomo, alzando i palmi, «non ho brutte intenzioni, tu sei nella lista dei buoni. E dammi pure del tu, piccolo Samuele, abbasso le formalità. Senti, ti do un indizio per capire chi sono, così ti tranquillizzi. Mi chiamo Klaus. In realtà è tipo un nome d'arte, ecco...»
L'uomo fece l'occhiolino e si indicò la cuffietta.
«Non mi interessa chi sei, voglio sapere come conosci mio figlio.»
«Sono Babbo Natale!» gridò Klaus, «e sono qua per consegnarti un regalo» indicò il pacco sul bancone, «e per confezionarne un altro. Adesso mutino però, che ti racconto la storia che ti ho promesso.»
«Ma che cazzo dici? Sei fuori di testa?»
«La nostra, quella mia e dei miei collaboratori al polo nord, è una missione importante, capisci? A noi è dato il compito di dividere buoni e cattivi, giudicare chi si è comportato bene e chi male… discernere, no? Cavoli, un po' come Dio, se ci rifletti. Noi osserviamo… ti abbiamo osservato, mio piccolo Samuele, sappiamo cosa hai passato. Cosa stai passando. E nella nostra benignità ti abbiamo fatto un regalo. Meglio, direi meglio sì, abbiamo esaudito un tuo desiderio, una cosa che speri accada nel profondo del cuoricino.»
L'uomo si portò una mano al petto e socchiuse gli occhi.
«Tua moglie. Ex. Meglio sì, ex moglie, non ti fa mai vedere il bambino, birichina… ecco, lei ad esempio è nella lista dei cattivi. Aih aih per lei. Adesso però scusami, devo fare un'interurbana, gli elfi aspettano una mia chiamata.»
Andò al telefono e inserì un mucchio di monete, quindi digitò un numero lunghissimo. Mentre parlava nella cornetta, accarezzava una delle palle appese all'albero di Natale. Samuele cercò di intercettare qualche parola, ma Klaus parlava a voce molto bassa. Quando smise di sussurrare nella cornetta, annuì convinto un paio di volte e la lasciò a dondolare, come un impiccato, prima di tornare a sedersi. Samuele lo guardava come ipnotizzato, da qualche minuto non riusciva più a muoversi.
«Scusa per la cornetta» disse Klaus, indicando il telefono, «vogliono sentire.»
Socchiuse un poco gli occhi, prese un'altra sigaretta, la rigirò tra le dita ma non l'accese. Fece invece quel sorriso asimmetrico che lo faceva sembrare malinconico, come un attore di un vecchio film in bianco e nero di cui tutti si sono scordati il nome.
«Si sta facendo tardi» sospirò, «tra cinque minuti è mezzanotte... Sai, una volta conoscevo un tizio... era tipo uno che credeva a tutto quello che gli dicevano, un credulone che usava cure alternative, omeopatia, si dice così? Non lo so. Uno rimasto indietro a venti anni fa, figlio dei fiori, roba così, hai presente?»
Aspettò un gesto d'assenso di Samuele, ma non arrivò nulla.
«Ecco» riprese, «a questo tizio gli avevano detto che lavarsi faceva male, cavoli, che ti avrebbe rovinato la pelle o chissà cosa, tipo una dermatite, non lo so. Gli avevano anche detto di non preoccuparsi, che smettendo di lavarsi avrebbe col tempo attivato tipo un processo che avrebbe prodotto un sapone naturale. Cioè la pelle, secernendo sebo, che ne so, o altro, si sarebbe auto lavata. E niente, questo ci aveva creduto e aveva smesso di lavarsi. L'ingenuità, riesci a crederci? Sta di fatto che dopo quattro mesi era ricoperto di uno strato spesso così di sporcizia e puzzava come un cane e, come posso dire... alla fine lo hanno lavato, ecco.»
Fece una smorfia e alzò le mani, come a dire che il lavaggio non era stato tanto piacevole, ma lui non ci aveva potuto fare nulla.
«Tu dirai, piccolo Samuele, ma cosa c'entra? E in effetti hai ragione… ma ho riflettuto e ho visto tipo una metafora, no? Cioè, stiamo tutta una vita senza lavarci, non dalla sporcizia, dico, ma dalle ingiustizie. Le cose che ci fanno subire, la malvagità. E cosa stiamo aspettando, dico io, per pulirci? Di sicuro col tempo la situazione non migliora, aspettando, la sporcizia aumenta e basta. Siamo pieni di lordità, ecco cosa siamo. Ma per un giorno, il giorno di Natale, cavoli, io, Babbo Natale, vado in giro a fare doni ai bambini buoni, ai bambini ingenui che non si sono mai lavati. Io li rendo puliti.»
Afferrò il borsone e si diresse verso il jukebox. Diede una rapida occhiata ai titoli e diede un colpetto col dito sul vetro, indicandone uno.
«Ma che fortunello! Jingle Bell Rock nella versione di Johnny Mathis!» esclamò e inserì una moneta.
La musica riempì subito la sala e Klaus accennò qualche passo di danza mentre si dirigeva verso l'ubriaco addormentato. Posò il borsone sul tavolino e lo aprì.
«Jingle bell, jingle bell, jingle bell rock, jingle bells swing and jingle bells ring… poi non lo so come fa… snowin' and bowin... e invento tipo le parole… up busce of fun no…»
Estrasse dal borsone una mannaia e la soppesò un poco.
Samuele ebbe un sussulto, fece per dire qualcosa, abbozzò un passo di lato, pensò di scappare, ma le ginocchia sembravano bloccate, le gambe rigide. Guardò la porta a vetri, in cerca di aiuto, ma fuori il vento era aumentato e alzava piccoli mulinelli sulla strada deserta, come sbuffi di farina. Nessuna macchina, non un passante.
Klaus si afferrò il ponpon della cuffietta e lo lanciò dietro la testa, facendo volare qualche gocciolina d'acqua sporca. Prese il braccio dell'ubriaco, lo stese sul tavolino e mentre con la mano sinistra teneva immobile il polso, con la destra alzò la mannaia.
«Questo signore è finito dritto dritto nella lista dei cattivi, una macchia nella bianchità del Natale. Una macchia nella vita di un bambino buono.»
Agitò un poco la mannaia in aria e la lama catturò per un attimo il riflesso intermittente dell'albero di Natale.
«That's the jingle bell rooooooock!» cantò Klaus e calò la lama.
La mano dell'ubriaco cadde giù dal tavolino con un tonfo e rimbalzò, lasciando dietro di sé una scia rossa. L'ubriaco si svegliò e alzò il viso, gli occhiali da sole storti sul naso, la bocca socchiusa, un leggero rivolo di bava sul mento. Levò il braccio monco e cercò di sistemarsi gli occhiali con la mano che non aveva più. Ci rimase male, perché inclinò la testa, come un cane curioso, e mise su una specie di broncio, arricciando il naso. Si immobilizzò, per qualche secondo non disse nulla e non mosse un muscolo. Poi si accorse di cosa era successo e iniziò a urlare, tenendosi il moncherino, che intanto schizzava sangue a fiotti ritmici.
Anche Samuele provò a urlare, ma riuscì solo ad aprire la bocca, senza emettere nessun suono.
«Tranquillo» gli disse Klaus, mentre si chinava a raccogliere la mano mozzata, «tra non molto perderà i sensi e puff, a terra.»
L'ubriaco intanto aveva cominciato a girare in cerchio, tenendo alto il moncherino, poi, piano, fu come se si spegnesse, rallentò l'andatura, si mosse un attimo verso la porta avanzando a zigzag, rovesciò una sedia, si accasciò, smise di urlare, si guardò intorno, gli caddero gli occhiali, batté le palpebre esterrefatto una decina di volte, sempre più adagio, fino a tenere gli occhi chiusi, barcollò, lasciò andare il braccio e svenne.
Klaus gli diede un calcetto.
«Visto?» disse, «è andato.»
Tirò fuori dal borsone una scatolina, ci mise dentro la mano mozzata e fischiettando cominciò a confezionare un pacchetto con la stessa carta bianca e dorata del regalo che aveva lasciato sul bancone.
Quando finì, chiuse il borsone, lo mise a tracolla e si diresse verso la porta a vetri. La spalancò e di nuovo fu solo una figura in controluce.
«Be'» disse, «è mezzanotte. Tanti auguri di buon Natale, piccolo Samuele. Io devo consegnare questo regalo a un altro bambino buono, altrimenti mi fermerei ancora un poco a chiacchierare con te.»
Si voltò e fece un respiro rumoroso, il viso contro il gelo della notte. I fiocchi di neve gli vorticavano attorno, come satelliti.
«Quanta bianchità» disse «che meraviglioso candore.»
Uscì, richiuse con delicatezza la porta e sparì dietro l'angolo.
Samuele rimase per qualche minuto immobile, senza sapere cosa fare. A turno guardava l'ubriaco, il pacco sul bancone e la cornetta del telefono. Il respiro era irregolare, cercava di prendere aria e rantolava. Quando riuscì a muoversi, raggiunse l'uomo disteso a terra e si assicurò che respirasse ancora, quindi recuperò un panno di stoffa pulito e gli fasciò il polso, cercando di fermare l'emorragia.
Cercò di calmare il respiro e andò al telefono, afferrò la cornetta che dondolava, fece per riattaccare, così da poter chiamare la polizia, ma d'istinto, quasi senza riflettere, la portò all'orecchio.
«C'è qualcuno?» bisbigliò, ancora ansimante.
Sentiva un battere ritmico, in sottofondo, come se ci fosse un macchinario in azione. Gli sembrò anche di sentire delle risate soffocate, ma poteva essere qualunque cosa, era un rumore come il gracchiare di un corvo, come lo strisciare di una sedia sul pavimento.
«Apri il tuo regalo» gli disse una voce.
«Chi… chi siete? Io…»
«Ti interessa davvero chi siamo?»
«Sì… cioè…»
Si sentì un fruscio, come se una mano fosse stata appoggiata sul microfono, e la voce, stavolta ovattata, lontana, parlò ancora, ma non rivolto a lui.
«Vuol sapere chi siamo… cosa gli dico?» la sentì chiedere.
Un gracchiare, forse ancora risate. Qualcuno rispose, ma Samuele non capì. Di nuovo un fruscio, stavolta per togliere la mano dal microfono.
«Siamo gli elfi» disse infine la voce, tutta allegra.
«Voi… bastardi…»
«Buon Natale» disse la voce e chiuse la comunicazione.
Samuele deglutì, quindi chiamò la polizia e si sedette ad aspettare. Le luci intermittenti dell'albero di Natale gli diedero fastidio e chiuse gli occhi.
Il silenzio era tale che sentiva nelle orecchie il battito del cuore.
Rivide Klaus che mozzava la mano dell'uomo ubriaco, il suo sorriso storto, gli occhi trasparenti. E lui non aveva fatto nulla, era rimasto paralizzato dalla paura. Klaus aveva preparato un pacchetto, un regalo per un bambino buono: una mano. Una mano che lo aveva picchiato, chissà in che modo, chissà per quanti anni…
Il suo regalo invece, il suo pacchetto, quello che per tutto il tempo gli era rimasto davanti al naso, era troppo grande per contenere solo una mano.
Riaprì gli occhi, a fatica si alzò e raggiunse il bancone.
Il pacco era là. Guardandolo meglio notò un angolo macchiato.
Una macchia scura.
Accarezzò il fiocco.
Era contemporaneamente disperato ed euforico.
Cominciò a piangere, per se stesso. Perché lui il desiderio perverso di ricevere quel regalo lo aveva avuto davvero. La rabbia, la disperazione, l'impotenza, quante volte gli avevano fatto fare pensieri distorti, sbagliati, perversi. Si sentì sporco, al contrario di ciò che gli aveva raccontato Klaus, non si sentiva certo meglio, tantomeno pulito.
Tremante, cieco di lacrime, scartò il regalo.