“Che giorno è oggi?”
Me lo chiede mentre appiccico le stelle di cartone alla finestra della sua stanza.
Mi giro a guardarlo. Ha la testa piegata di lato, gli occhi chiusi, arriccia il naso come certi animali. Annusa l’aria che sa di disinfettante.
Non sembra che si aspetti una risposta. Forse non ne ha mai voluta una, ma gliela do comunque.
“È Natale”, dico. Poi aggiungo “Papà”, a voce bassa. Ci sono volte che si spaventa se lo chiamo così.
“Che ne dici?” gli chiedo quando ho finito.
Apre gli occhi, continuando ad arricciare il naso, artigliando l’aria con le mani come se gli stesse sfuggendo.
“Sono belle”, mi fa. “Chissà se mia figlia è capace di farle uguali.”
“Non vedo perché no”, gli rispondo, senza perdere tempo a spiegargli che sono io.
Le stelle le ho fatte ritagliando i cartoni del latte vuoti, avvolgendole nell’alluminio per alimenti. Avevo nove anni.
Sgombrando casa di mia madre le ho trovate in una scatola in garage insieme ad altre cianfrusaglie, tutta roba di quando abitavamo a Greeley e agli occhi di tutti eravamo ancora una famiglia.
“Vuoi del tacchino?” gli chiedo.
Sono avanzi della cucina del ristorante dove lavoro. Ho lasciato l’incarico all'università per fare la cameriera. Avevo dei progetti. Chi non li ha? Ho cercato di tenermeli stretti finché ho potuto. Poi li ho lasciati andare.
“Non vorrei rovinarmi l’appetito”, fa lui. “Immagino che Rose avrà preparato tanta di quella roba da star male. La conosci, no?”
Suona come una domanda, anche se non dovrebbe esserlo.
“Sì, la conosco”, lo rassicuro. “E immagino di sì, avrà esagerato come al solito”, aggiungo. “Ma ti dispiace se ne mangio un po’ comunque?”
Lui agita una mano come a voler dire fa’ pure, che vuoi che me ne freghi. Quel gesto lo faceva anche una volta. Certe cose non cambieranno mai.
Forse continuerà a farlo fino al momento di andarsene. La malattia gli toglierà anche il ricordo di come si fa a respirare e lui la liquiderà dicendo fa’ pure, che vuoi che me freghi.
Rose era mia madre. È morta l’anno scorso. Una malattia rapida, di quelle che se non altro ti fanno il favore di prenderti in fretta.
I miei hanno divorziato quando ancora vivevamo a Greeley e portavo a casa da scuola delle stelle di cartone avvolte nella carta argentata.
Mi sentivo speciale, allora. Una bambina diversa, anche se come tutti gli altri avevo due genitori che bevevano più del dovuto e fumavano un paio di pacchetti al giorno e litigavano quando pensavano che non ci fossi.
A scuola mezza classe aveva genitori che erano lì lì per separarsi. L’altra metà ci era già passata e dispensava consigli su come ricavare qualcosa di buono da quella situazione. A me non andava di ascoltare certe storie. Non pensavo che sarebbero rimasti insieme per sempre, ma non volevo nemmeno darli per spacciati.
Appoggio il tacchino sul termosifone perché si scaldi un po’. Mentre aspetto disegno una faccia felice sulla condensa che ricopre la finestra. Ci penserà il calore della stanza a renderla triste.
Una delle stelle si sta già staccando. Mi convinco che sia colpa del nastro adesivo, del vetro reso scivoloso dall’umidità che filtra attraverso gli infissi. Ma c’è dell’altro. Penso se passarle un dito sopra, ma non servirà a nulla, così la lascio stare.
“E tu?” mi fa lui all’improvviso. “Tu ce l’hai una famiglia?” chiede come se fossi entrata lì per caso.
“No”, gli rispondo. Poi mi rendo conto che suona come un non ancora. Qualcosa che vorresti davvero, un progetto a cui lavorare, come le stelle di cartone a nove anni. E allora ripeto “No”, cercando di sembrare convincente.
Prendo il tacchino dal termosifone. È ancora freddo, ma me lo faccio andare bene. Anche del mio matrimonio non sono rimasti che gli avanzi.
All’improvviso si alza in piedi, nervoso come se pensasse che l’aria nella stanza stia per finire, che l’unico modo per sopravvivere sia precipitarsi fuori.
“È proprio ora che vada”, mi fa. “Se faccio tardi, Rose penserà che sono in giro a correre dietro a quelle più giovani.”
“Ed è così?” gli chiedo, anche se conosco già la risposta.
“Succede”, fa lui e poi ripete quel gesto. Che vuoi che me ne freghi. “Succede di ricevere una chiamata fuori orario.”
Era così che le chiamavi, penso, e intanto mando giù un boccone.
Con certi ricordi funziona come con le cianfrusaglie che nascondi in garage. Non hai bisogno di andarli a cercare. Sono loro che vengono a cercare te.
Faceva il veterinario, allora. Non ce n’erano altri nella contea di Weld, giù fino a Fort Collins o Loveland. Di lavoro ne aveva tanto, persino troppo per una persona sola.
C’era sempre qualche animale di cui occuparsi. Bestie da curare, da far nascere oppure da far smettere di soffrire. Così se ne stava sempre in giro. Alle volte passava la notte fuori. A mamma raccontava che era troppo stanco per mettersi al volante. A sentire lui dormiva in qualche stalla o sul retro del furgone durante la stagione calda.
Conosceva tutti nei dintorni. Certi sabati mi portava in giro con lui. La gente lo invitava a fermarsi una volta che aveva finito. Gli offrivano un bicchiere o due. A me toccava una fetta di torta o qualcos'altro che mi avrebbe lasciato le mani appiccicose e lo stomaco in subbuglio. Non era male, anche se dopo quelle uscite lui tornava a casa un po’ brillo e io avevo sempre la nausea.
Ancora oggi al ristorante tutti mi chiedono se sono la figlia di Jack Draper. Io annuisco, rispondo di sì, che lo sono. Aspetto il giorno in cui potrò dire che lo ero, o quello in cui smetteranno di chiedermelo perché nessuno si ricorderà più di lui.
Ne riceveva spesso, di quelle chiamate. Anche a Natale, con la casa piena di gente. Parenti di mia madre, tipi senza peli sulla lingua. Certi la prendevano da parte per farle “il discorso”. Lei alzava gli occhi al cielo, poi li stava ad ascoltare lo stesso, per cortesia o per levarseli dai piedi.
L'ultimo Natale a Greely venne da me e mi chiese di aiutarla a riordinare, dividere gli avanzi del tacchino perché ognuno di loro ne avesse da portare via un pezzo.
“Sei grande ormai”, mi disse. Non avevo idea di che parlasse, ma sapeva già di fregatura. Ero lì lì per passare un confine. Dopo non ci sarebbe stata più alcuna ragione per sentirsi tanto speciali.
Lui se l’era filata sul più bello. Una chiamata fuori orario, Rose, aveva detto.
Mentre mamma faceva su i pezzi di tacchino nella carta argentata, mi disse “Non era così che me l’ero immaginato”.
Pensai che alludesse al Natale, ma forse parlava d’altro, qualcosa che non durava un giorno soltanto.
“Che vadano al diavolo”, aggiunse riferendosi alla sua famiglia. “Se ne tornino a casa loro. Grazie a Dio anche quest’anno ci siamo tolti questo fastidio.”
Quando se ne andarono lui chiamò per dire che avrebbe fatto tardi. Uno dei cavalli degli Holt doveva partorire e non aveva idea di quanto ci avrebbe messo. Non si sa mai come va con queste cose. Lei gli rispose di non azzardarsi a passare la notte fuori o non avrebbe trovato anima viva ad aspettarlo a casa il giorno dopo.
Al telefono provò a farla ragionare. Era bravo a convincerla. O almeno lo era stato fino a quel momento.
“Sono stufa, Jack. Stufa da far schifo”, gli disse, accendendo una sigaretta, la voce strascicata perché aveva fatto un brindisi di troppo. La maggior parte dei bicchieri se li era riempiti da sola in cucina.
Dopo la telefonata accese la tv. Davano quel vecchio film dove James Stewart incontra il suo angelo custode, ma era già la fine, la scena in cui lui corre per le strade della sua città. Sotto la neve, pazzo di gioia, guardando ogni cosa come se la vedesse per la prima volta.
Mamma disse che era soltanto un idiota a essere così contento.
Le chiesi perché, ma lei mi rispose “Lascia stare, Charlie”.
Da piccola tutti mi chiamavano Charlie. Per via dei capelli che tenevo corti e perché nel tempo libero giocavo a baseball con i maschi nel parco dietro la scuola. Ma ero anche Charlotte, la figlia di Mary e Jack Draper, il veterinario. Mi piacevano gli animali e i libri con le principesse. Forse era per quello che mi sentivo tanto speciale. Come se il mio corpo ospitasse due persone. Pensavo che almeno una delle due ce l’avrebbe fatta, ma mi sbagliavo.
“Lascia stare”, ripeté mamma, alzandosi dal divano e spegnendo la tv.
Andò alla finestra e si mise a guardare le mie stelle di cartone.
“Sono carine”, disse. “Chissà se riusciremo a tenerle incollate lì fino alla fine delle feste?”
Immagino volesse cambiare discorso, ma le chiesi di nuovo perché pensava che il tizio del film fosse un idiota. Ero grande per aiutarla in cucina, ma non ero così grande per capire quando un adulto vuole essere lasciato in pace.
Alla fine mi rispose comunque.
“Fai grandi progetti. Poi le cose vanno storte. Vorresti tutte le stelle del cielo, ma ti toccano quelle di cartone. E c’è sempre qualcuno che cerca di convincerti che sono quanto di meglio la vita abbia da offrirti. Un angelo custode in cerca delle sue ali, tua madre o il veterinario che hai sposato. E tu te la bevi. Nemmeno potessi esprimere un desiderio quando si staccano dalla finestra e cadono a terra, come fai con quelle vere. Sempre che con quelle vere funzioni.”
Alla fine papà tornò a casa quella sera, ma si separarono nell’anno nuovo. Io e mamma ci trasferimmo a Fort Collins. Cambiai scuola e smisi di giocare a baseball. Nessuno mi chiamava più Charlie, così iniziai a farmi crescere i capelli.
Mi chiedo se abbia avuto una vita felice dopo che ce ne siamo andate. Immagino che per un po’ si sia divertito, poi più nulla. Forse la malattia gli sta solo facendo un favore.
Si è seduto ora. Ha di nuovo gli occhi chiusi, la testa piegata di lato. Assomiglia a quegli animali di cui si è sempre preso cura.
Mangio ancora un boccone di tacchino e poi butto via il resto.
“Che giorno è oggi?” mi chiede di nuovo.
Quello che dico è come i fiocchi di neve che cadono là fuori. Non attacca. Si deposita sul niente e scompare un attimo dopo.
Ci penso su. Poi rispondo “Non lo so. Forse uno come tutti gli altri”.
In quel momento una delle stelle si stacca dalla finestra e scivola sotto il termosifone. Anche se un po’ me l'aspettavo, non sono così rapida da esprimere un desiderio. O forse la lascio andare. Non ho più niente da chiedere.
Mi alzo. Gli passo una mano sul viso. Lui apre gli occhi e mi guarda.
“Io vado, ok? Ci vediamo domani.”
“Magari ci sarà anche Charlie qui quando torni”, fa lui.
“Mi piacerebbe incontrarla”, gli dico, anche se non è vero.
Charlie è uno di quei ricordi nascosti in garage. Se una malattia non ti fa il favore di buttarli via, prima o poi ti vengono a cercare.