Era nato a Betlemme di Galilea in una famiglia di pastori e, dall’età di quattro anni, andava con il suo piccolo gregge per le campagne brulle della Palestina.
Amico di Giovanni, un altro pastorello della stessa età, i due bambini erano inseparabili.
Si alzavano che era ancora notte. Il freddo gli spaccava le mani e dagli occhi goccioloni gelati si fermavano sulle guance rosse.
Si arrampicavano per sentieri rocciosi in cerca di cibo per il gregge.
Un cucciolo di cane, di nome Barek, li seguiva e i tre trascorrevano le giornate insieme.
Passarono gli anni e le cose tra loro iniziarono a cambiare.
Mattia non tollerava più di essere povero, la miseria in cui viveva lo disgustava, gli faceva ribrezzo.
In lui si stava spegnendo l’entusiasmo e, nello sguardo, quella luce che in alcuni rimane accesa anche quando diventano grandi.
Spesso Giovanni lo sentiva dire:
– Non è giusto che alcuni vivano nel lusso, mentre noi siamo costretti a vivere come pezzenti.
– Ma pensa a quanto siamo fortunati, – lo rincuorava l’amico – cresciamo all’aria aperta siamo liberi e senza paure. E poi abbiamo la nostra amicizia che è il bene più grande. Non ci accorgiamo di tutte le ricchezze che abbiamo, per questo siamo infelici.
Ma in Mattia cresceva sempre di più l’egoismo travestito da giustizia, pensava solo a se stesso e a come diventare ricco.
Ogni giorno inventava nuove scuse per non incontrare Giovanni, lo evitava per i suoi loschi affari.
– Stanotte andiamo alla locanda, aspettami fuori dalla porta. Abbaia e mordi chiunque si avvicini.
Parlava così a Barek, il giovane cane, l’unico che l’avesse seguito, diventando complice dei suoi misfatti, alla locanda, al forno, o dal venditore di formaggi.
Rubava e rivendeva il bottino, ma il mercato era il posto dove faceva più affari. Approfittando della ressa e della confusione, sfilava con mano agile, dalle cinture dei malcapitati, sacchetti pieni di monete.
Ma il desiderio di diventare sempre più ricco non lo abbandonava, anzi l’avidità cresceva dentro di lui e non gli dava pace. Era diventato irrequieto, scontroso, diffidente di tutto e di tutti.
A volte si spingeva fino al palazzo del re Erode. Si riempiva gli occhi di tutte quelle meraviglie, tanto da desiderare di rubare una parte delle tante ricchezze.
La zona era sorvegliata continuamente da molte guardie e l’impresa sembrava davvero impossibile. In quei giorni il censimento dell’intera popolazione, ordinato dall'imperatore Cesare Augusto, avrebbe richiamato a Betlemme una folla enorme. Ci sarebbe stata una grandissima confusione e le guardie avrebbero avuto un gran da fare.
Ma proprio la notte di Natale, in quelle ore, accaddero molti fatti prodigiosi.
Mentre Giuseppe si trovava in quei luoghi per il censimento, Maria sua moglie, che era incinta, partorì. Diede alla luce un maschio, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non avevano trovato un alloggio libero in nessuna locanda.
La storia della salvezza si stava compiendo, Dio si manifestava al mondo attraverso un Bambino. Nasceva il vero Re e Signore della storia.
Apparvero gli angeli carichi di luce che cantavano “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini”. Annunciavano la buona notizia e svegliando i pastori li condussero alla grotta.
Questi erano gente semplice e se prima furono presi da timore, appena videro il Bambino furono pieni di gioia.
Portarono in dono pane e caciotte, uova e pelli di pecora; faceva freddo e la madre doveva nutrirsi e riscaldarsi.
Nel cielo era comparsa una stella talmente luminosa da squarciare il buio. Alcuni sapienti venuti da lontano, la seguivano. Studiando gli astri, sapevano che in Palestina sarebbe nato un grande re.
Anche loro portarono doni, l'incenso, la mirra e molto oro, il metallo più prezioso riservato ai discendenti di stirpe reale.
Ma proprio lì, nel mistero di quella notte, avvenne un fatto incredibile: alla grotta c’era stato un furto.
Qualcuno si era intrufolato e, in un batter d’occhio, aveva messo tutti i preziosi dentro una sacca, fuggendo indisturbato.
Nessuno se ne era accorto, Giuseppe era occupato ad accogliere chiunque arrivasse; Maria, d’altra parte, era stanca per il parto e si occupava di suo figlio.
Tutti erano presi a contemplare la meraviglia del prodigio.
Anche quelli più vicini avevano altro da fare. Il bue sbuffava aria calda dalle narici per riscaldare l’ambiente e l’asina produceva latte.
Solo una pecora, piccola e ricciuta, che per non sentire freddo si era rannicchiata sotto la mangiatoia, aveva visto tutto e aveva iniziato a belare come se la sgozzassero.
Attirò così l’attenzione del bue che le chiese:
– M-m-ma cos’hai da belare tanto forte? Il Bambino dorme, non lo vedi?
– Be-be-bella scoperta. ma non ti accorgi di niente? Qualcuno ha preso l’oro!
– M-m-miseria, è vero! M-m-ma chi può essere stato?
– Iò–iò-sa ciarlate voi due? – Chiese l’asina scuotendo la testa.
– M-m-hanno rubato l’oro alla grotta!
– Iò–iò–io non mi sono accorta di nulla.
– Qua-qua-qualcuno fuggiva a gambe levate. L’ho visto anch’io. – Intervenne la papera di una contadina.
Una rana, giunta da chissà quale stagno, disse: – Gra-gra-gravissimo!
– Co-co- come faremo a scoprire il colpevole? Chiese una gallina, agitando le ali.
– Chi-chi-chi- riesce a trovarlo è bravo! – Rispose il gallo che le stava vicino.
La cosa assai strana era che gli animali, pur balbettando, riuscissero a parlare e a capirsi tra loro. Una vera magia.
–M-m-muoviamoci con cautela, – suggerì il bue, – il ladro potrebbe essere ancora nei paraggi!
– Cip–cip–ci-provo io. – disse con un filo di becco una nettarinia della Palestina.
Aveva gli occhietti stretti come due fessure, ma svegli e vispi. Le piume, di un bel verde azzurro, erano folte per proteggerla dal freddo.
Dall’alto era più facile vedere, muoversi, cercare anche in mezzo a quella gran confusione e poi la cometa faceva tanta luce da sembrare giorno.
Gli animali furono tutti d’accordo: il caso del furto alla grotta era ufficialmente affidato a lei.
La nettarinia iniziò a volare sulla folla, gli occhietti a spillo nulla le sfuggiva.
Vide un cammelliere che, preso dalla fame, mangiava un pezzo di caciotta, le uova rotte dentro un paniere, il latte caduto dal secchio di un pastore che continuava a sbadigliare. All’improvviso notò qualcosa che luccicava tra due grossi massi. Era il tesoro rubato.
Ma quando si avvicinò per guardare meglio, il cane che era di guardia l’afferrò per la coda.
– Cip–cip–ci-picchia! lasciami mi fai male.
– Bau–bau–tu che stai facendo? Ficca-becco! Volevi rubare l’oro?
– Cip–cip-ci-provi proprio? Quell’oro non è tuo. È quello che i re magi hanno donato al Bambino. Sei tu che l’hai rubato a lui!
– Bau-bau ti sembro il tipo da fare una cosa del genere? Ma se anche fosse, che ci fa un lattante con tante cose preziose? Non era meglio regalare giocattoli, dolci e datteri o cose di questo genere?
– Cip–cip–ci-picchia! Ma saranno fatti tuoi? Rimane il fatto che sei un ladro.
– Bau– bau– bada a come parli. – replicò Barek mollando la presa. – La verità è che da un po' di tempo non capisco più il mio padrone. Non ha più amici e anche con me non è tenero. È diventato avido, non gli importa di niente e di nessuno. Pensa solo a diventare sempre più ricco e se non lo seguissi, sarebbe solo, senza nemmeno un cane! È vero, è stato lui. Si chiama Mattia. Stava studiando il furto al palazzo di Erode, quando, attratto anche lui come i magi, era davanti alla grotta proprio mentre questi portavano l’oro. Non credeva ai suoi occhi. – Continuò il cane.
– L’ho sentito dire: “Quanta ricchezza per un marmocchio appena nato”. Non c’erano guardie nei paraggi, solo pastori assonnati e quattro cammellieri stanchi per il lungo viaggio. Non gli sembrava vero. Un colpo facile e inaspettato. Si è avvicinato alla grotta e ha rubato tutto. Poi, mi ha fatto un fischio e siamo andati via. Ma io sono stufo. Non ne posso più di questa vita, però gli voglio troppo bene per abbandonarlo…
– Cip– cip– ci-picchia! Povero te.
– Bau–bau–bastasse questo! Ha accumulato talmente tante ricchezze che non sa più che farci. Tanta fatica per niente.
– Cip–cip–ci-provi tu a fargli restituire l’oro?
–Bau–bau come potrei fare?
–Cip – cip– ci-penso! Ma certo, lui si fida solo di te! Mentre volavo per cercare l’oro, ho visto un cespuglio di rose. Se non mi credi vai a vedere e porta con te il tuo padrone. Questa notte è tutta un mistero. Io ti aspetto là.
E così fece Barek. Il cane, fingendo di fiutare chissà quali ricchezze, lo condusse fino alla grotta.
Mattia si chinò per guardare il cespuglio fiorito. Le rose non avevano spine ed erano tutte per lui. Chi altri possedeva un tale tesoro?
Come se gli si fossero staccate anche quelle conficcate nel cuore, pianse stringendosi al petto il suo cane fedele.
Dentro di lui stava nascendo un germoglio di speranza.
Corse a prendere tutto l’oro rubato per riportarlo alla grotta.
Poco più in là, vide Giovanni. Non era cambiato. Portava sulle spalle una pecorella e un sorriso gioioso gli illuminava il viso.
Barek, riconoscendolo, gli corse incontro, scodinzolando felice.
Anche Mattia andò verso di lui per abbracciarlo.
Parlavano fitto fitto, ricordando il passato, ridevano come ai vecchi tempi, come se si fossero visti il giorno prima.
Conservavano, entrambi, gli stessi ricordi e l’identico affetto di quando erano bambini.
Gli confidò ogni cosa e quello che era diventato da quando non si erano più visti.
Cercò di spiegare che il Bambino della grotta, non sapeva come, ma aveva toccato il suo cuore facendogli capire quale fosse la vera ricchezza.
Giovanni gli promise che lo avrebbe aiutato a restituire tutto quello che aveva rubato.
Qualche anno dopo, lo stesso Bambino avrebbe detto:
Accumulate la vera ricchezza, quella che la ruggine non consuma e i ladri non possono rubare. Perché dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Ma intanto, in quella Notte Santa, il cielo e la terra, i mari e le montagne e tutto il creato si fermavano a contemplare la venuta di Dio tra gli uomini.