Quando uscì dagli uffici dell’impresa di costruzioni l’orologio segnava quasi le undici. Il cielo era ancora coperto, ma almeno non pioveva più.
Prese quel fatto come un segno beneaugurante: era partito da Rovigo alle cinque spaccate per arrivare puntuale all’appuntamento, 250 Km sotto un temporale che pareva non finire mai.
Non era la prima volta che sconfinava in Lombardia per gestire la vendita del software personalizzato ideato dalla sua società, ma quel giorno c’era in ballo anche un’altra questione.
Un sorriso affiorò sul suo viso, ma fu questione di pochi secondi, perché il solo pensiero di doversi immettere nel traffico milanese lo fece sprofondare nello sconforto. Odiava guidare, soprattutto in una città caotica come quella. Montò in auto, impostò il navigatore e, con la compagnia della voce di Ivan Graziani, partì in direzione dello studio commerciale.
La sala d’attesa dello studio era sobria e confortevole, con poltroncine dalla linea classica e un tavolinetto con qualche rivista e un paio di quotidiani freschi di giornata.
Mentre aspettava il titolare dello studio si chiese perché avesse accettato d’immischiarsi in quella faccenda. Sì, c’era stata la coincidenza della trasferta a Milano per lavoro, ma lui si reputava una persona razionale, poco incline ai colpi di testa. E se le cose non stessero affatto in quei termini? Forse dentro di lui vagava una sottile scheggia di follia, uno spirito avventuroso inespresso che solo un acuto osservatore esterno era stato capace di scovare e portare alla luce del sole.
Nell’istante in cui chiamò il numero memorizzato sullo smartphone, un pensiero assurdo gli rombò nella testa: si sentì come Charles Middleton, il protagonista de “Il cercatore di androidi”, uno dei suoi racconti più riusciti.
“L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile, si prega di richiamare più tardi.” La voce impersonale della registrazione lo infastidì in maniera inaspettata. Sbuffò, poi decise d’inviare un vocale.
«Vivonic, tutto ok, sono arrivato allo studio» poi, calzando fino in fondo i panni di Charles Middleton «sto per incontrare il nostro uomo, se ho bisogno ti chiamo. Ciao.»
I suoi occhi si spostarono in direzione del bancone semicircolare, dove la segretaria deputata all’accoglienza dei clienti stava parlando al telefono. Era giovane, molto carina, anzi bella, coi capelli scuri e mossi che le scendevano in modo sensuale all’altezza delle spalle. Con la cuffietta dotata di microfono gli ricordava Ambra di Non è la Rai.
Una collega si avvicinò al bancone e le porse delle pratiche. Nel passaggio dei documenti le mani delle due ragazze si sfiorarono; gli sguardi divertiti parvero tradire una certa complicità.
Lui tirò fuori un taccuino e appuntò la scena a cui aveva appena assistito. Poteva essere un buono spunto per un nuovo racconto.
«Achillu, ciao. Scusa se ti ho fatto aspettare.»
Achillu sollevò gli occhi dall’agendina, quindi si alzò e andò incontro al commercialista. «Ciao Paluca, come stai?»
«Non ci lamentiamo. Tu come stai? Finalmente ci conosciamo di persona.»
Paluca tese la mano e lui la strinse con vigore, facendo finta di dimenticare le linee guida e le raccomandazioni di medici e virologi. «Già, finalmente. Sarebbe bello poterci incontrare tutti insieme. Noi di DT intendo.»
«Infatti. Ma se ho capito bene questa estate dovrebbe essere in programma una sorta di raduno. A Pettinengo, o magari da qualche altra parte.»
Achillu annuì, poi abbassò lo sguardo sul tavolino. Le prime pagine di Repubblica e del Corriere aprivano inevitabilmente su Putin e la guerra del gas. «Speriamo che ce ne sia l’occasione.»
Il peso di quelle parole, con tutto quello che volevano sottintendere, gravò sulla stanza per qualche secondo, poi Paluca ruppe il silenzio.
«Mi hai scritto su facebook che dovevi parlarmi di qualcosa d’importante. Andiamo nel mio ufficio, staremo più comodi.»
Achillu esitò, poi prese a camminare avanti e indietro per la sala d’attesa, le mani intrecciate dietro la schiena. «Non so come dirtelo, ma dobbiamo parlare subito con tua moglie.»
Paluca inarcò le sopracciglia, la bocca che si muoveva nervosamente dietro la mascherina. «Mia moglie? Cosa c’entra mia moglie?»
Achillu gli si avvicinò, quasi sussurrando. «Io e Vivonic siamo abbastanza in confidenza e quando gli ho detto della mia trasferta a Milano mi ha pregato di venirti a parlare di una certa cosa. Lui adesso è incasinato con la scuola e non riesce a muoversi da Cesena… Comunque tua moglie…»
«Mia moglie che cosa?»
«Insomma…l’ha insultato. Si è iscritta al forum di DT con non so bene quale nome, non ricordo, e comunque ha riempito d’insulti Vivonic con decine di messaggi.»
«Ma che stai dicendo, non è possibile. Mia moglie non è il tipo. Il motivo poi?»
«Per i suoi giudizi ai tuoi racconti. Ha detto che i suoi commenti sono quelli che ti amareggiano di più. È vero?»
Paluca abbassò lo sguardo, poi scosse la testa. «Dai, non è possibile…»
«Non devi prendertela, Viv è fatto così, non ha peli sulla lingua, è il suo bello. Comunque il problema non sono le parolacce, lui ci è abituato, non gli fanno né caldo né freddo. All’inizio si è fatto una bella risata, in un secondo momento però sono arrivate anche le minacce. Oddio, non che lui ci stia dando troppo peso, però vorrebbe evitare che le cose potessero degenerare. Tutto qua.»
Paluca sfilò la mascherina e la gettò sopra una poltrona.
Raggiunse la macchina del caffè situata in un angolo della sala e inserì una capsula. Quando afferrò il bicchierino bollente la mano gli tremava, così come il labbro superiore.
«Ma non ha senso ciò che mi stai raccontando, lo capisci? Mia moglie è la persona più pacifica di questa terra, non minaccerebbe mai nessuno. Non ne è capace.»
«Però ti ama e l’amore qualche volta ci fa agire in modo irrazionale.» Gli occhi di Achillu si fermarono qualche secondo sui giornali.
Li indicò.
«Guarda. Chi avrebbe creduto che nel 2022 ci saremmo potuti trovare sull’orlo di un conflitto mondiale? Nessuno avrebbe pensato fosse possibile, eppure…»
Paluca scosse di nuovo la testa, prese il telefono e chiamò la moglie.
“L’utente da lei chiamato non è al momento raggiun.” La voce registrata venne bloccata prima che potesse completare il messaggio.
«Dov’è adesso? Al lavoro?» chiese Achillu.
«No, è a casa. Aveva un po' di mal di testa.»
«Dai, andiamo a parlarle.»
Achillu lasciò la sua monovolume nel parcheggio vicino allo studio e salì sull’Audi Q6 di Paluca. L’impianto del Suv diffondeva la voce rilassante di Elisa, senza risultati apparenti, visto che il guidatore alternava colpi di clacson a furiose botte sul volante alla stregua del batterista dei Black Sabbath.
Una volta giunti a destinazione, Paluca parcheggiò l’auto sul marciapiede e come un centometrista salì i gradini di casa.
«Stefania, dove sei?»
Nessuna risposta.
«Stefania, ti devo parlare.»
Mentre Paluca ispezionava ogni stanza dell’appartamento, Achillu si affacciò con curiosità sulla porta del salotto.
Un bellissimo pianoforte a coda dominava il centro della stanza.
Era sul punto di varcare la soglia per poterlo ammirare da vicino, quando a destra, una lucina blu catturò la sua attenzione.
In una nicchia del disimpegno erano state collocate delle mensole di legno laccate di bianco, in cui erano alloggiati dei libri e un personal computer. Achillu cliccò il mouse e sul monitor comparve la schermata del desktop. Si accomodò sulla sedia e, come aveva visto fare ai detective protagonisti di film e romanzi, aprì Google e visualizzò le ultime ricerche effettuate: come cucinare la parmigiana di melanzane, stagione 2021-2022 Teatro alla Scala, Corriere della Sera, i notturni di Chopin, come fabbricarsi del veleno, avvelenamento da paracetamolo, treni Milano Cesena.
«Non c’è. Non è in casa, ho visto dappertutto» disse Paluca affacciandosi sul corridoio.
Achillu vide la preoccupazione di quel volto, ma non poté esimersi dall’indicare il video. «Non ci vuole Scherlock Holmes per capire cosa stia succedendo.»
Paluca si avvicinò e lesse rapidamente. «Fabbricarsi del veleno. Avvelenamento da paracetamolo. Treni Milano Cesena. Quindi…»
«Già. Elementare Watson.»
Paluca gli scoccò un’occhiataccia che lo fece arrossire. «Allora dobbiamo andare subito alla polizia e impedire che faccia qualche sciocchezza!» sbraitò in preda a una crisi di nervi.
«E per dire cosa?» si riscosse Achillu. «C’è mia moglie che vorrebbe avvelenare un mio amico con della tachipirina. Come perché? Perché non apprezza i miei racconti. Senza contare che rischieremmo di perdere due ore in sala d’attesa. C’è solo una cosa che possiamo fare.»
Compose il numero di Vivonic, ma il telefono era ancora staccato.
Ripiegò su WhatsApp.
«Vivonic, la moglie di Paluca è scomparsa. Tutto fa pensare che stia venendo lì. Magari non è così, ma stai attento. Sono quasi le tredici, noi partiamo per Cesena adesso e a metà pomeriggio dovremmo essere in città. Accendi quel dannato cellulare. Se ho bisogno ti chiamo. Ciao.»
Erano le 13.20 quando imboccarono l’Autostrada del Sole.
Achillu osservò Paluca e vide che la tensione gli aveva indurito i lineamenti. Provò a rincuorarlo un po'. «Non ti preoccupare, vedrai che andrà tutto bene. Sono sicuro che lei ha solo bisogno di un chiarimento. Fermati alla prima stazione di servizio per il pieno, poi se vuoi guido io. Così ti rilassi un attimo.»
Paluca annuì.
Entrò nell’area di servizio di San Zenone Ovest, fece rifornimento, quindi si accomodò sul sedile passeggero in attesa che il suo compagno di viaggio ritornasse dal bagno.
Non dovette aspettare tanto, perché dopo qualche minuto lo vide arrivare di corsa, inseguito da un energumeno di colore.
«Che diavolo succede, ora?» gli domandò, mentre l’altro partiva sgommando.
Achillu sbirciò nello specchietto retrovisore, il fiato corto, una risatina isterica che a intervalli irregolari faceva capolino dal fondo della gola.
«Allora?» rilanciò Paluca, visto che ancora non aveva ottenuto risposta.
«Roba da niente. Quel tizio che mi inseguiva, l’ho incrociato al bagno. Io uscivo e lui stava entrando. Ha buttato una cartaccia per terra e io gli ho fatto notare che esistono i bidoni apposta. Sai che ha fatto? Mi ha mandato a cagare. In un ottimo italiano peraltro. Io ho fatto per andarmene, ma poi non ho resistito, sono tornato indietro e gli ho sparato un calcio nel culo.»
Paluca sgranò gli occhi e scoppiò a ridere. «Dici davvero? Ma te sei tutto matto! Sai che non ti ci facevo così…»
«È una questione di coscienza civica. Se ognuno si comportasse come quel maleducato ci ritroveremmo a vivere nella sporcizia in men che non si dica.»
Il commercialista stava ancora ridendo quando una Fiat Punto grigia li affiancò. A bordo c’erano due uomini di colore. Quello che Achillu aveva preso a calci nel sedere sedeva nel sedile del passeggero e si stava sporgendo fuori dal finestrino brandendo un machete. La risata gli morì in gola.
«Cazzo!» esclamò Achillu, scartando nella corsia di emergenza.
«No, cazzo lo dico io» sbottò Paluca, portandosi le mani ai capelli e sprofondando nel sedile. «Stai attento, ho appena cominciato a pagare le rate del leasing.»
«L’hai mai spinta al massimo?» chiese Achillu, iniziando a pigiare sul pedale. «Troppi cavalli di differenza, non penso che riusciranno a starci dietro.»
Paluca sbuffò e lui si voltò a guardarlo. Sembrava che gli occhi dell’amico stessero per saltargli fuori dalle orbite.
Troppe emozioni per un commercialista, pensò. Non ci è abituato.
Anche lui non ci era abituato, ma stava cominciando a prenderci gusto.
Sorrise, poi si concentrò sulla guida.
Achillu tirò l’auto oltre i 200 km orari per un bel tratto d’autostrada, allentando la pressione sull’acceleratore solo quando fu certo di avere seminato gli inseguitori. Erano in prossimità di Cesena quando il suo telefonino squillò.
«Achi, sono Viv. Ho sentito adesso il tuo vocale. Scusami, ma è stata una giornata da delirio.»
«È dalle undici che ti cerco. Io e Paluca stiamo per arrivare in città. Tu dove ti trovi?»
«Sono appena uscito dalla chiesa di Santa Maria della Speranza. C’è stato il funerale di un mio vecchio professore di filosofia.»
«Ti raggiungiamo lì, non ti muovere. Dove si trova la chiesa?»
«In via Tripoli. È una struttura moderna, un misto tra una baita e una piramide spaziale. Davvero ineffabile.»
Grazie al navigatore i due arrivarono sul posto in meno di un quarto d’ora, ma di Vivonic sembrava non esserci traccia. La chiesa era quella senza ombra di dubbio, il frutto di uno strano accoppiamento tra una casetta altoatesina e un poliedro marziano. Chiamarono Vivonic ma il cellulare era di nuovo staccato.
«Cazzo! Se ho bisogno ti chiamo, un cazzo. È sempre spento quel coso!» sbottò Achillu.
«E adesso?» domandò Paluca.
Achillu si guardò attorno, poi indicò una Citroen color melanzana. «Deve essere ancora qua, quella è la sua auto. Entriamo dentro.»
Appena varcata la soglia le note esoteriche di un organo li avvolsero.
«In a gadda da vida degli Iron Butterfly» decretò Achillu. I suoi occhi si fermarono sull’organista, poi virarono sul Cristo in croce e sulla vetrata policroma triangolare sopra il crocifisso. Fece una smorfia: una sorta di scudo crociato stilizzato gli ricordò nell’ordine il simbolo della vecchia Democrazia Cristiana e il logo del Calcio Padova, mettendolo di cattivo umore.
«Stefania!» esclamò Paluca, correndo verso la donna che stava suonando l’organo. Appena lui mosse un passo, lei si alzò dallo sgabello e sparì in una stanzetta laterale.
Paluca e Achillu la seguirono dentro la sacrestia.
Vivonic era legato a una sedia ed era in preda alle convulsioni.
Il corpo si contorceva sotto la pressione delle corde, mentre dalla sua bocca uscivano parole sconnesse, deliranti.
«L’ho avvelenato, sono riuscita a vendicarti, tesoro» disse la donna, correndo ad abbracciare il marito. «Sono stata brava?»
Paluca la strinse a sé, lo sguardo fisso su Vivonic che aveva smesso di dibattersi. Gli occhi del ragazzo fissavano il neon sopra il soffitto.
Paluca aprì la bocca, la richiuse, poi la riaprì di nuovo.
«Sembra che stai a fare l’imitazione di un pesce» disse Achillu, ridendo.
«Già, un perfetto pesce d’aprile» sentenziò Vivonic, sfoggiando il sorriso delle grandi occasioni. «Dai, finiamola qui ragazzi, altrimenti questo ci sviene.»
Paluca si guardò attorno, l’espressione di chi non capiva o forse non voleva capire. Notò che Achillu lo guardava sornione, con un’espressione beffarda stampata sulla faccia.
«Allora tu sapevi tutto!» lo accusò Paluca.
Achillu fece di sì con la testa e scoppiò a ridere.
Nel frattempo in sacrestia erano entrati anche Pier, alias The Raven, e Don Simone, un giovane prete alla mano con cui lui e Vivonic avevano fatto amicizia nell’ultimo anno. Si erano conosciuti a una festa, nella quale Don Simone aveva dato prova di essere un gran ballerino e un bevitore da competizione. Un prete non proprio classico.
Era stato proprio Vivonic a chiedergli di potere utilizzare la chiesa per rendere lo scherzo più suggestivo, grazie alla struttura particolare dell’edificio, alle note evocative dell’organo e all’atmosfera sacrale.
Il religioso aveva acconsentito, estorcendo ai due la promessa di partecipare almeno una volta al mese alla messa domenicale.
E dietro di loro Stella, la moglie di Achillu, con gli amici nigeriani Taiwo, Kamil e Patrick. Lei e Patrick avevano recuperato la Touran di Achillu nel parcheggio vicino allo studio commerciale, mentre gli altri due avevano dato vita all’assurdo inseguimento in autostrada.
Kamil, ancora nella parte, brandiva il machete di plastica con un’espressione truce in volto.
«Ma voi siete matti!» disse Paluca in un mezzo sorriso. «Ho ancora le palpitazioni. Avete messo su tutto questo ambaradan per un pesce d’aprile. Rob de matt.»
«Ma non siete voi a dire sul forum che siamo capaci di tutto?» disse alla fine Vivonic, liberatosi dalla stretta delle corde grazie a Pier. «Per noi nulla è impossibile.»
«E poi la colpa è mia» intervenne Stefania. «L’input è partito da me. Te ne stai sempre chiuso in quell’ufficio, intrappolato tra scadenze e scartoffie e la tua creatività ne risente. Un fine settimana lontano da Milano è quello che ti ci vuole per rompere la routine e stimolare l’immaginazione. Vedrai che anche la tua prosa ne trarrà benefici e i commenti di Vivonic saranno più clementi.»
Paluca fece una smorfia, mentre tutti gli atri risero.
Uscirono dalla sacrestia e si diressero verso l’uscita per concludere la giornata a casa di Vivonic e Pier, con pizza ed ettolitri di Sangiovese.
Achillu rimase più indietro, rapito da due ragazze inginocchiate sulla prima panca, una vicina all’altra.
Dimostravano meno di vent’anni, avevano il capo chino e si tenevano per mano.
Tirò fuori il taccuino, riempì un paio di righe e raggiunse gli altri fuori dalla chiesa. Appena uscito alzò gli occhi al cielo e pensò che Cesena era un po' come Bologna, però più in piccolo.