12 settembre 1947
25 ottobre 1949
Primo gennaio 1950
Io, proprio io, Scharführer, Sergente Maggiore delle Schutzstaffel, costretto a vivere come un topo per mesi, nascondendomi di cantina in cantina, tra fogne e latrine, mangiando topi, quelli veri, o avanzi che riuscivo a racimolare, strisciando come un’ombra a ridosso di muri scrostati.
Io, proprio io, che i topi li schiacciavo, che contribuivo alla soluzione finale del problema, per rendere grande il mio Paese. Il boia di Flossenbürg mi chiamavano, quei parassiti, credendo che non li sentissi, credendo che quel soprannome mi ferisse, mentre mi rendeva fiero, orgoglioso. Boia io? Che alleviavo la loro sofferenza, soffocavo ogni loro dolore quando giungevano esausti e stremati dalle cave di granito, dopo estenuanti giornate a spaccare pietre, con ancora un misero alito di vita, in attesa che il forno ne smaltisse i corpi ossuti.
Io, proprio io, sostenitore senza riserve di ogni iniziativa per costituire una società che rispondesse ai canoni della razza ariana, la razza superiore, la cui purezza doveva essere difesa da ogni pericolo di inquinamento, costretto a mescolarmi tra esseri inferiori, che in questo periodo di falso e inutile riscatto, avanzano arroganti reclamando un posto nella società. Sono solo stupidi ratti, che non possono capire come il progresso delle nazioni, della Germania, possa essere messo in pericolo da queste contaminazioni.
Solo ora, sarà passato ormai quasi un anno, vedo la fine di questo incubo, vedo la luce alla fine di questo tunnel. Un paese nuovo ci aspetta, dove potremo fare grandi cose, dove potremo portare avanti il progetto che tanto ci sta a cuore, che compatrioti flaccidi, meschini e vigliacchi hanno fatto naufragare quando eravamo ad un passo dalla vittoria.
Solo, seduto in questo vagone di terza classe, che da München dovrebbe portarmi a Genova per imbarcarmi. La “via dei topi”, la chiamano: ancora quei dannati animali! Come su una nave segna l’ultima via di scampo in caso di naufragio per cercare la salvezza prima di essere inghiottiti dal mare, ora segna la via di fuga da una Germania sconfitta e devastata, per raggiungere un porto sicuro al di là dell’oceano. L’Argentina è pronta ad accoglierci a braccia aperte, a cominciare dal suo Presidente, Juan Domingo Perón.
Ora sono Frank Schulz, svizzero: nome forse troppo comune per non destare alcun sospetto, soprattutto considerando i miei occhi di ghiaccio e la carnagione diafana. La mia Patria, quella con la “P” maiuscola, non mi ha dimenticato: O.D.E.SS.A, l’organizzazione dei membri delle SS, si è presa cura anche di me recapitandomi un passaporto, ufficiale, con tanto di timbri.
Attraversare l’Austria non è stato un problema: un popolo amico con cui abbiamo condiviso sogni, battaglie e delusioni. Ma più mi avvicino al Brenner Pass, più il cuore mi scoppia nel petto. Non ti puoi fidare degli italiani, alleati fino a quando gli ha fatto comodo, e poi pronti a ballare e cantare col nemico, comprati da qualche barretta di cioccolato.
Devo raggiungere Genova, accompagnato solo da una piccola borsa consunta, traballante sulla rete dello scompartimento. Qualche abito dentro, civile ovviamente, come quello che indosso, a cui fatico ad abituarmi, sebbene sia trascorso ormai parecchio tempo da quando ho dovuto abbandonare l’amata divisa. Ho nascosto una piccola lama tra le pieghe dei vestiti, più per darmi sicurezza che non per potermi essere utile in caso di necessità. Meglio la boccetta che porto in tasca, con l’amaro contenuto da ingerire se la situazione fosse definitivamente compromessa.
Da quando Herr Carlos Fuldner è direttore della Dirección Argentina de Immigración Europea, a Genova, “evacuare” non è più un grosso problema. Dal suo ufficio partono le liste; dalla capitale argentina tornano visti d’ingresso, corredati da fotografie, identificati con i nomi dei documenti falsi. E chi avrebbe detto che ad orchestrare tutto fosse il Vaticano, con l’avvallo della Croce Rossa. Anche io dovrò attendere il mio, non ci metterà molto.
25 ottobre 1949
Fortuna che tutto era pronto nella cantina. Era la prima cosa che avevo organizzato, appena arrivato a Salta. Dovevo essere preparato ad ogni evenienza, per potere sopravvivere nelle viscere della terra per settimane, forse per mesi, come un topo che non vede mai la luce del sole.
Avevo scelto con cura la casa, poco fuori della città, isolata, per evitare incontri inutili, per non essere oggetto di sospetti o pettegolezzi. Nella cantina avevo allestito scaffali con ogni genere di provviste. Un piccolo foro di aerazione consentiva il minimo ricambio d’aria, necessario ad un mantenimento salubre dell’ambiente e della condizione fisica.
Un falso muro dava accesso ad un secondo locale, segreto: solo qualche metro quadrato, spoglio e angusto… un ulteriore rifugio in cui riporre le mie speranze di sopravvivere nei casi estremi.
Eppure, fortunatamente, tutto ciò non era mai servito. Uscivo poco, e le poche volte che lo facevo, mi aggiravo vigile, guardingo, diffidente. Mi erano bastate però poche settimane per allontanare ogni pregiudizio, per farmi capire che lì, in Argentina, non ero in pericolo, che il mio accento tedesco non veniva ascoltato con sdegno, che nessuno aveva risentimento nei miei confronti.
Forse avrei avuto anche l’occasione di riprendere i discorsi, i progetti, le idee che in Patria avevamo dovuto bruscamente interrompere, per creare una società superiore… ariana.
Ho trovato un lavoro, come fioraio, garzone al Mercado Municipal de San Miguel. Quattro soldi, ma il titolare non mi fa troppe domande e mi permette di usare il furgone per fare le consegne. Mi tiene occupato, evitandomi di sprecare inutilmente intere giornate: “Arbeit macht frei”, dicevamo.
Eppure, fortunatamente, tutto ciò che ho preparato con cura è diventato utile ora.
Lei mi ha aperto gli occhi, ha reso evidente la mia missione. Camminava sola, pura, bionda, occhi azzurri, trasparenti come il cielo a mezzogiorno, fiera. Il Führer avrebbe approvato la mia scelta; dovevo continuare la sua opera per arianizzare la popolazione, ripartendo da lì, dall’Argentina.
L’ho sorvegliata, da lontano, qualche giorno, qualche settimana. Era forse la figlia di un gerarca giunto come me in Argentina? Dovevo verificare, fugare agni dubbio. Eppure, a quel “Fräulein, sprechen Sie Deutsch?” mi ha guardato stranita e ha proseguito senza curarsi di me.
Ho pensato di avvicinarla di nuovo, col mio spagnolo traballante, ma i dubbi e la timidezza hanno vinto su tutto. Come l’avrebbe presa? Forse non mi avrebbe neanche capito. Come avrei potuto spiegare tutto? E se avesse rifiutato? No, non avrei potuto accettare un rifiuto.
Non si è insospettita quando, una sera, mentre calava l’oscurità, approfittando della strada deserta, ho accostato il furgone qualche metro avanti a lei. Ho atteso qualche secondo, che passasse in fianco e l’ho trascinata a bordo, la mano sulla bocca, che non urlasse, un tampone con qualche goccia di cloroformio, che non si dimenasse.
Si è svegliata: per precauzione l’ho chiusa nel locale segreto. Presto le spiegherò il progetto che la Germania ha per lei, si sentirà lusingata di essere stata scelta per uno scopo così nobile e superiore. Bisognerà solo attendere: deve conoscermi per fidarsi, metabolizzare e accettare.
Primo gennaio 1950
Di nuovo in fuga, di nuovo in treno, come uno di quei topi che vivono tra i vagoni, che deve adattarsi a vivere come capita, dove capita.
Ho preso solo lo stretto indispensabile: l’inseparabile borsa di pelle consunta, quattro vestiti, il piccolo pacco di banconote, nascoste dietro a un mattone, giù in cantina, quasi quei consunti pezzi di carta sapessero che prima o poi avrei avuto bisogno di loro. Poi dritto alla stazione, zoppicando: il treno già sbuffava… ancora un minuto e non ce l’avrei fatta. Ero affascinato da quel treno, che in poche ore ti portava al confine con il Cile: ero stato tra la folla ad acclamare, quando un Peron gongolante aveva inaugurato di persona la rampa C-14 della ferrovia Belgrano, un’opera di ingegneria senza paragoni.
Avrei voluto andarci, in gita di piacere, magari con Helen, come l’ho chiamata io. Un nuovo nome per una nuova vita… il nome vero neanche lo so.
Non avrei voluto prendere quel treno per cercare rifugio in un paese vicino, ma Helen non mi ha lasciato alternativa.
Sono stato così gentile con lei. Le ho spiegato l’importanza del nostro progetto, le ho parlato di Günther e di Mengele. Ho cercato di farle capire la teoria della razza, la razza pura, di come avrebbe potuto trasformare la teoria in realtà, di come diventare esempio per centinaia e centinaia di ragazze come lei.
In Germania, il mio Führer aveva pianificato l'unione fra perfetti esemplari, selezionando donne elette, cui era riservato un trattamento privilegiato… ma Helen non capiva.
Se avesse accettato… se mi avesse ascoltato, l’avrei fatta uscire dalla cantina, l’avrei trattata come una regina. Invece, ogni volta che scostavo quella porta, non faceva altro che singhiozzare, piagnucolare e chiedermi di lasciarla andare, di farla tornare a casa… senza capire che lei era a casa.
Cucinavo per lei, ma quasi non toccava il cibo. Non si lasciava sfiorare neanche per farsi lavare… forse voleva apparire deperita e sudicia di fronte a me. Quelle stupida! Neanche capiva che potevo prenderla quando volevo, ma non era quello il mio scopo: avrei atteso che capisse, che si sentisse pronta.
E invece, è stata lei ad attendere me! Ha atteso Capodanno, quella sgualdrina. Ero sceso, per festeggiare, lo champagne in una mano e due bicchieri di cristallo nell’altra. E lei? Ha spaccato la bottiglia contro il muro, minacciandomi prima e conficcando il vetro nella mia gamba poi. Dove aveva preso quella forza? Non so, ma non ho avuto nemmeno il tempo di reagire che lei era già scappata. Che stupido ingenuo sono stato! Avevo i minuti contati: la Guardia Civil sarebbe giunta all’uscio di casa da un momento all’altro.
La fermata a San Antonio de los Cobres è durata parecchio. Diffidente, ho guardato dal finestrino, cercando di registrare ogni movimento sospetto. Stavo immobile, tenendo premuta la ferita, accavallando le gambe per non far vedere il sangue che colava lungo la coscia. Quando il treno è ripartito, il cuore è tornato a battere, i polmoni a respirare. Manca poco al confine: un altro paese amico in cui dovrò ricostruire ancora una volta la mia vita… di topo in fuga.
Frank Schulz si alzò a fatica per raggiungere il corridoio. Aveva sentito dei rumori in carrozza, agitazione inattesa tra i passeggeri. Vide due guardie in lontananza: dalla testa del treno perlustravano ogni scompartimento, interrogando i viaggiatori, percorrendo lentamente ogni vagone. Si avvicinò a uno sportello per scrutare quelle cime, deserte, selvagge, aride, così diverse da quelle a cui era abituato quando era a casa, quando era in patria. Un piccolo cimitero, di fianco alla ferrovia raccoglieva croci bianche: lavoratori che avevano dato la vita per costruire quel capolavoro, per un progetto più grande di loro, del quale forse non avevano neanche capito di fare parte.
Il treno affrontava lento i lunghi viadotti, i binari sospesi nel vuoto su sottili tralicci, alti da dare le vertigini. Frank sentiva la testa leggera, intontita, ovattata. Era la paura? Il sangue che sgorgava dalla ferita? O solamente la mancanza di ossigeno a quelle quote a cui non era abituato?
Con la coda dell’occhio sorvegliava l’avanzare dei poliziotti: ancora qualche minuto e sarebbero arrivati da lui.
Si sentì stanco. Prese il pacchetto dalla tasca lasciandolo scivolare fuori dal finestrino: le banconote si sparpagliarono libere nel vento, svolazzando lentamente verso l’abisso. Poi, Franz ruotò la maniglia, spalancò lo sportello e, solo allora, si sentì per la prima volta leggero.