Macabro ritrovamento nel residence per dipendenti
e pensionati di un’industria chimica
Alexandria (VA), 11 maggio. Dal nostro corrispondente.
Nella serata dell’8 maggio, la polizia è intervenuta nel residence della BlueChem, allertata da inquilini che avevano sentito sparare in un appartamento.
All’interno del 164, gli agenti hanno rinvenuto il cadavere di un anziano ex dirigente dell’azienda, freddato con un unico colpo alla testa, in quella che aveva tutta l’aria di un’esecuzione.
L’uomo stringeva in pugno una vecchia Luger in perfette condizioni, che aveva esploso – inutilmente – almeno due colpi, poi ritrovati conficcati in una parete e nel soffitto.
La natura dell’omicidio e l’arma particolare, nonché la coincidenza con il quarantennale della resa dei tedeschi che mise fine alla Seconda Guerra Mondiale (8 maggio 1945 – 8 maggio 1985) hanno spinto gli inquirenti a indagare fra i cosiddetti “cacciatori di nazisti”, senza però, al momento, alcun riscontro.
Svelata invece la vera identità dell’ucciso: Jürgen Starklich, un nazista tristemente noto come il Boia per l’impressionante numero di persone uccise ad Auschwitz e Buchenwald.
Una rivelazione che, oltre a rafforzare l’ipotesi investigativa, apre scenari e domande inquietanti sull’arrivo e la permanenza nel nostro Paese di un tale criminale, del quale si erano perse le tracce fin dal 1948.
Il breve articolo, apparso giorni fa sul Fairview Telegraph, mi ha spinto a cercare di rispondere, per quello che posso, alle domande che si pone il giornalista. Ma mi sono ben presto reso conto che non era un compito affatto facile e che il problema più grosso era da dove iniziare a raccontare.
Potevo partire dalla cantina, dato che è lì che tutto è cominciato: dal ritrovamento di documenti che… Ma c’erano troppe informazioni che avrei dovuto dare per scontate. Esattamente come se avessi cominciato parlando del Boia e tralasciato a spiegazioni successive il come e il perché mi fossi trovato a contatto con quel criminale.
Mi parevano entrambi percorsi spicci e tortuosi.
Non mi restava che affrontare il racconto partendo da me stesso, fino ad arrivare ai fatti che dettero una scossa alla mia breve e, fino a quel momento, sonnacchiosa permanenza a Salta, in Argentina, alla fine degli anni Quaranta.
Chiamatemi Jason, dunque, nato a Fairview, in Virginia. All’epoca, avevo da poco compiuto ventisei anni.
Una leggera zoppia alla gamba sinistra e le mie spiccate doti linguistiche (a diciott’anni parlavo fluentemente tedesco e spagnolo) avevano fatto sì che passassi gli anni del conflitto mondiale lontano dai combattimenti, impiegato prima come ufficiale di collegamento e poi assegnato a operazioni di intelligence e interpretariato in varie città europee.
Avevo dunque maturato una buona esperienza, sia rappresentativa che investigativa, e, nell’immediato dopoguerra, il Dipartimento di Stato mi inviò all’ambasciata americana di Buenos Aires come attaché, in vista di un eventuale futuro incarico diplomatico.
Arrivai a Buenos Aires nel novembre del 1947, accolto con grande e comprensibile entusiasmo. Sbrigate le formalità, mi misi infatti subito al lavoro con i colleghi, ben felici di poter contare anche su di me per ridurre la mole di pratiche che ingombrava le scrivanie. Le relazioni a vari livelli che il presidente Perón cercava di allacciare, soprattutto con gli Stati Uniti, creavano pile di documenti da smaltire al più presto.
Un’accoglienza più fredda e formale mi venne invece riservata dagli agenti dell’intelligence. Il capo in particolare, un paranoico, nazionalista fino al midollo, nonostante sapesse bene quale fosse il mio incarico, non mi dimostrò mai spirito collaborativo, pretendendo anzi di controllare i miei resoconti – parte integrante dell’apprendistato – pensando di trovarci chissà quali messaggi cifrati.
Credo che proprio a seguito delle sue pressioni finii per ritrovarmi quasi esiliato, allontanato dalla Capitale e spedito in un consolato di provincia con la banale scusa di “farmi le ossa”. Nel darmi la comunicazione, l’ambasciatore mi sembrò dispiaciuto e a disagio, ma, a quanto pareva, c’erano ordini superiori ai quali anche lui doveva sottostare. Sul momento pensai a un qualche conflitto di potere all’interno del Dipartimento, e solo più tardi compresi il reale obiettivo di quella manovra diversiva, nella quale non dovevo mettere il naso.
Così, a poco più di un mese dal mio arrivo in Argentina, mi ritrovai a Salta, nel nord-ovest del Paese, ai piedi delle Ande nel pieno dell’estate subtropicale.
Il lavoro languiva e passavo le giornate rintanato nei locali del consolato o nell’annesso appartamento. Era una lotta quotidiana contro noia e caldo, appena mitigato dalle pale appese al soffitto e da sporadiche piogge che, almeno per un paio d’ore, facevano calare di qualche grado la temperatura.
Finché, un pomeriggio, un sonoro bussare alla porta del mio ufficio venne a risvegliarmi dal torpore. Il segretario introdusse un ufficiale della polizia cittadina che era venuto a chiedere di potermi parlare. Il tenente Castillo (così si presentò) mi pregò di accompagnarlo sul luogo – peraltro molto vicino – di un ritrovamento “muy singular”.
Pur non essendo entusiasta di affrontare la calura esterna, presi giacca e cappello e mi avviai verso l’uscita. Notando il mio modo di incedere claudicante, Castillo assunse un’espressione imbarazzata, quasi fosse dispiaciuto di costringermi a camminare.
– Oh, non si preoccupi tenente, – mi affrettai a rassicurarlo, – è una cosa che mi perseguita dalla nascita. Ormai non ci faccio più caso.
Al che sorrise e mi seguì all’esterno.
– È successo qualcosa a un mio concittadino? –, gli chiesi mentre avanzavamo lungo la via assolata.
– No, signore. Niente del genere. Siamo stati chiamati dal señor Sosa per alcuni documenti che ha trovato nella cantina del suo nuovo negozio.
– Ah, bene. Ma ancora non mi è chiaro il perché del mio intervento.
– Be’, non è facile da spiegare. Comunque, siamo arrivati e potrà rendersene conto con i suoi occhi.
E mi indicò una costruzione d’angolo con delle grandi vetrine polverose e una vecchia insegna sulla quale si leggeva a malapena la scritta Antigüedades.
La polvere regnava dappertutto e si sollevava dal pavimento in nuvolette dense a ogni passo. Diverse serie di orme, alcune vecchie, altre più recenti, rivelavano un assiduo andirivieni fra ingresso e porta della cantina, nonostante il negozio fosse ormai chiuso da mesi.
Con il fazzoletto a coprire naso e bocca, attraversammo piano il locale, ancora ingombro di tavoli e scaffali vuoti, che immaginavo a suo tempo fossero stati colmi di cianfrusaglie di dubbio valore.
Arrivati a poco più di metà della stretta scala che portava in cantina, fummo assaliti da una sensazione di fresco che, appena messo piede nella stanzetta, si fece così piacevole da farmi desiderare di abbandonare il mio comodo ufficio e trasferirmi in pianta stabile fra quelle quattro pareti spoglie.
La cantina era un unico vano dal soffitto basso e le pareti intonacate a gesso, appena illuminato da una lampadina nuda piazzata sopra l’ingresso. Il signor Sosa e un altro poliziotto ci stavano aspettando in piedi, vicino a quello che restava di uno scaffale malconcio, dietro il quale, tentando di spostarlo, si era palesato un vano scavato nel muro e rivestito di metallo. Al suo interno, una cartellina contenente alcuni fogli scritti in tedesco e un paio di foto, e su ciascuno spiccava, impressa in inchiostro rosso, la scritta ODESSA.
Sei paia di occhi squadravano la mia faccia, che non riesco a immaginare quanto, in quel momento, fosse trasfigurata dallo stupore. Già conoscevo quell’organizzazione, nata dalle ceneri del nazismo con lo scopo di portare in salvo, fuori dalla Germania, il maggior numero possibile di SS in vista dell’imminente sconfitta. E trovarne traccia in Argentina sembrava avvalorare le peggiori paranoie del capo dell’intelligence all’ambasciata.
Chiusi di scatto la cartellina e chiesi ai due poliziotti se potevano fare una veloce inchiesta presso i vicini – non più di una mezza dozzina di persone – riguardo ai possibili movimenti dentro e fuori dal negozio. Nel frattempo, il signor Sosa mi riassunse brevemente quanto sapeva dei passaggi di proprietà del fondo e dell’annessa cantina.
Rimettendo insieme le informazioni racimolate dagli agenti e i particolari raccontati dal Sosa, mi fu chiaro che il negozio, ormai dismesso, era stato teatro di una serie di incontri fra il gestore, un certo Mr Doe, e altri strani personaggi, chiaramente stranieri. Incontri che erano cessati all’improvviso, in coincidenza con la vendita del fondo, proprio nel momento in cui il proprietario aveva ripreso le chiavi per consegnarle a Sosa. E Mr Doe, andandosene in fretta, non era stato in grado di ripulire a fondo la cantina. In effetti, nessuno lo aveva più rivisto in giro. Se n’erano ormai perse le tracce e i documenti abbandonati risultavano a quel punto di ben poca utilità.
Decisi comunque di tenerli. Rilasciai agli agenti una ricevuta per la cartellina e il suo contenuto, ringraziai tutti per la collaborazione e abbandonai a malincuore il fresco della cantina per tornare al consolato.
Sparsi sul tavolo il contenuto nella cartellina. Erano delle semplici schede anagrafiche di due alti ufficiali delle SS: Jürgen “Scharfrichter” Starklich e Richard “Löwe” Kindloss. Le due qualifiche (Scharfrichter significa “boia”, “esecutore”, e Löwe vuol dire “leone”) riecheggiavano l’antica tradizione tedesca che oggi potremmo definire “il boia e lo sbirro”, due figure tristemente famose nei villaggi medievali per le loro esecuzioni capitali cruente e spietate. Non erano certo necessari altri attributi per definire i due personaggi.
Eppure, le loro facce, tolti berretto e orpelli militari, apparivano normali, fin troppo comuni, tristi ritratti di ciò che una quindicina di anni dopo sarebbe stata descritta come “la banalità del male”.
Prima di archiviarli, trasmisi gli incartamenti per telefoto all’ambasciata, con il resoconto dettagliato di come ne ero entrato in possesso e le mie considerazioni riguardo ai due. Ora, le uniche possibilità di intercettarli in Argentina erano tutte nelle loro mani, mentre a me non restava altro che ripiombare nella solita monotonia.
Che, giusto un paio di giorni dopo, venne interrotta di nuovo dai tre colpi secchi delle nocche del segretario sulla porta.
Mi consegnò un plico con l’intestazione Ferrocarriles Argentinos. Vi trovai un invito, per il prossimo 2 febbraio, per l’inaugurazione della nuova tratta ferroviaria d’alta quota che andava a collegare Salta al porto di Antofagasta, in Cile.
Era accompagnato da un elenco di istruzioni per il viaggio – inclusi consigli d’abbigliamento – per poter affrontare gli sbalzi di temperatura e pressione che avremmo incontrato lungo il percorso, che, in alcuni punti, sarebbe arrivato a oltre quattromila metri di altitudine.
E, ancora per ovviare al mal de altura, c’era una bottiglietta col tappo a contagocce etichettata Aceite esencial de coca: dos gotas en caso de mareos.
Un’auto delle Ferrovie sarebbe passata a prendermi alle sette del mattino per portarmi alla corriera con la quale, insieme alle varie autorità, saremmo saliti alla stazione di Salta per iniziare il viaggio.
Naturalmente, risposi che accettavo.
Una banda musicale, il classico taglio del nastro e finalmente partimmo, arrancando in salita alla velocità di circa trentacinque chilometri orari: un passo lento, ci spiegarono, dovuto alla pendenza del tragitto, ma anche per favorire un adattamento progressivo dell’organismo alla differenza di pressione.
E, pensai, pure alle scarse performance della vecchia locomotiva a vapore, i cui sbuffi prolungati parevano attaccarsi ai vagoni come nuvole dense di pioggia.
Pensai anche, dopo paesaggi all’inizio incantevoli ma sempre più brulli e monotoni al passare delle ore, di aver scambiato noia con noia; almeno finché non raggiungemmo il viadotto de La Polvorilla, il punto più alto del tragitto a circa quattromiladuecento metri sul livello del mare.
Il viadotto era un’opera di ingegneria spettacolare, una struttura metallica di oltre sessanta metri nel punto di massima distanza dal suolo. Copriva una distanza di quasi duecentocinquanta metri sopra un canyon, compiendo una leggera curva fra le due estremità.
Al termine del ponte ci fermammo su un terrapieno, dove un gruppo di andini gestiva un mercatino di prodotti artigianali. Detti un’occhiata superficiale, incuriosito più dal come fossero arrivati lì che dalle loro merci. E mi accorsi che lungo la parete del canyon era stata ricavata una scalinata a zig zag che terminava sullo spiazzo.
A circa metà del percorso vidi due figure che salivano in fretta: sembravano escursionisti, ansiosi però di proseguire il loro viaggio in treno. Appena giunti in cima, raggiunsero uno dei passeggeri che pareva li stesse aspettando. Quasi senza parlare, il tizio li accompagnò all’ultimo vagone, consegnò loro un pacchetto, ricevendone in cambio uno da entrambi e si allontanò lungo la scala.
– Ha visto quell’uomo?
Al suono improvviso della voce alle mie spalle, mi voltai.
– Oh, tenente Castillo. Anche lei qua?
– Sì, signor console, ai suoi ordini. Sono al comando della sicurezza.
– È un piacere saperlo, tenente. Ma che cosa mi stava dicendo?
– Che ho riconosciuto quell’uomo, in fuga sulle scale: è il gestore del negozio.
– Intende quel negozio? Quella cantina?
– Già. Purtroppo ora non posso allontanarmi, ma alla prossima fermata segnalerò il fatto ai miei colleghi.
Ripensando allo scambio intercorso, feci un cenno al tenente.
– Venga con me – dissi, avviandomi verso l’ultimo vagone.
Salimmo a bordo e gli indicai i due individui che nel frattempo si erano liberati degli zaini e si erano accomodati sulle panche, uno di fronte all’altro. Ci concentrammo un attimo sul volto dell’uomo rivolto verso di noi e subito ci guardammo negli occhi: sì, entrambi lo avevamo già visto, impresso su una delle foto allegata ai documenti della cantina.
Kindloss.
E dunque l’altro non poteva essere che Starklich, il Boia.
Una scossa ci avvertì che il treno era ripartito.
Castillo fece per voltarsi e andare a chiamare rinforzi, ma un giovane si precipitò lungo il corridoio, travolgendoci e gridando qualcosa in tedesco che suonava come
– Kindloss, io sono la tua Nemesi!
Nella sua mano apparve una pistola. Sparò due volte e colpì il nazista, che si accasciò sul sedile. Nel vagone si scatenò il caos: passeggeri che gridavano e si gettavano a terra; altri che aprivano i finestrini in cerca di una impossibile via di fuga.
Spinto dalla foga del ragazzo, ero rimasto seduto a terra, fra due panche e, incapace di muovermi a causa della mia gamba, assistevo alla scena come fosse al rallentatore.
Vidi che, arma ancora in pugno, si era avvicinato all’altro nazista, impietrito e rannicchiato contro la spalliera.
Vidi Castillo estrarre la pistola e intimare al giovane di fermarsi.
Vidi quello voltarsi, pistola puntata e un ghigno di rabbia a deformargli il volto, e, all’improvviso, volare indietro, colpito al petto dal tenente.
E vidi infine un’altra figura sfrecciare lungo il corridoio, abbattere Castillo con una spallata da football, afferrare il boia come fosse una pagliuzza e sparire entrambi oltre la porta del vagone.
Silenzio.
Poi rotto da gemiti, pianti, grida, provenienti da sotto i sedili.
Aggrappandomi a una spalliera, riuscii finalmente ad alzarmi e ad aiutare Castillo, ancora frastornato per la botta ricevuta.
Attraverso la porta aperta del vagone, la sera sembrava colare all’interno come un liquido scuro, mentre il sangue del ragazzo faceva il percorso inverso, incanalato in due rivoli paralleli lungo le assi del pavimento.
La nostra carrozza era l’ultima.
Quando il tenente e io ci affacciammo sul terrazzino, ci accolse solo la scia d’acciaio dei binari che si allontanavano.
Dov’erano finiti quei due?
Il mistero ci seguì per il resto del viaggio. Fino a quando, arrivati ad Antofagasta, decisi di imbarcarmi per gli Stati Uniti, per non affrontare il ritorno in treno e fare il mio rapporto di persona.
Salutato Castillo, ero già sul ponte della nave, quando mi parve di riconoscere due figure in mezzo ai passeggeri ancora sulla scaletta. Mi precipitai in plancia, per avvisare il capitano di chi sospettavo stesse salendo a bordo, ma quando mi voltai i due erano spariti, come era già successo sul treno.
Durante la traversata, scandagliavo i visi dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio in cerca di un volto. E non potevo fare a meno di pensare che quella fuga rocambolesca fosse una sorta di “piano B” messo in atto da un agente (CIA? FBI?), piazzato sul treno a sorvegliare e facilitare il transito dei due nazisti. Che, attraverso Argentina e Cile, dovevano poi evidentemente raggiungere gli Stati Uniti.
Proprio come tanti altri, si scoprì in seguito, avevano fatto: sia noi americani che gli inglesi (e, in parte, anche gli argentini) eravamo in gara con i sovietici per accaparrarci i migliori cervelli del Reich.
In quella particolare occasione, una sorta di bounty killer, un “cacciatore di nazisti”, aveva quasi mandato a monte il piano e solo uno dei fuggiaschi era riuscito a mettere piede sul suolo americano.
L’agenzia, qualunque fosse, aveva fatto comunque un buon lavoro, se per quasi quarant’anni il Boia aveva vissuto tranquillamente ad Alexandria. A me, che lo conoscevo, non era capitato mai di incontrarlo, nonostante la vicinanza fra Alexandria e Fairview e i numerosi viaggi che avevo fatto da quelle parti.
Non che, francamente, lo avessi mai cercato. Direi anzi che lo avevo archiviato, almeno fino alla lettura dell’articolo, in un angolo remoto della mia mente, insieme all’avventura vissuta su el tren mas alto del mundo.
Ma ci sono persone che non archiviano mai; che non si scordano tutto il male patito.
E una Nemesi, seppure dopo tanti anni, è arrivata anche per lo Scharfrichter.