Se vi apprestate a leggere quanto segue vuol dire che, chiunque voi siate e non importa in quale futura data, avete trovato queste tre tavolette, apparentemente fitte di disegni colorati, in effetti glifi della nostra scrittura azteca, che ho depositato in una nicchia del corridoio della mia villa sul mare.
Colpa di quel maledetto Tepeyollotl, il Dio dei terremoti, che si è accanito sulla mia casa, obbligando me e il mio schiavo (è lui che ha tutta l’attrezzatura per scrivere, io non ne ho mai avuto bisogno), a nasconderci nel luogo all’apparenza più sicuro e cioè il corridoio scavato parzialmente nella roccia che conduce dalla cucina al deposito dell’acqua e del cibo. La temperatura è sempre costante e conserva bene. Spero lo faccia anche per noi che però siamo completamente bloccati qui. Solo una crepa nel soffitto ci permette di distinguere tra giorno e notte. Per me non ce la caviamo! Non abbiamo nulla per scavare e finite le provviste: o io mangio lui o lui mangia me per sopravvivere ancora un po’ ma dopo… che Mictlanteculhtli, ci accolga nel suo regno d’oltretomba.
Su quelle tavolette gli ho fatto scrivere un pezzo della mia storia, tanto per far capire chi sono. Magari non frega niente a nessuno! Di lui senz’altro ma di me… io so di essere un imprenditore di successo e che la mia storia sia da scrivere.
Mi auguro siate capaci di interpretare correttamente le tavolette. Non è facile nemmeno per noi quindi chissà per voi.
Le prime due raccontano l’anno in cui iniziò la mia fortuna, mentre nella terza ho allegato un nostro calendario, regalatomi dall’imperatore Motēcuhzōma stesso, che mostra questa nostra era che termina il giorno dodici del mese dodici dell’anno duemiladodici. Mi auguro possiate farne un buon uso fino a quella seppur lontanissima fine annunciata.
Ma cominciamo.
Provengo dalla famiglia dei Chakparrat e non posso dire di non essere stato fortunato nella mia lunga vita che però diviene molto più interessante solo a partire dall’anno millecinquecentoventi in cui io ho già trentasei anni compiuti.
Questo se seguissi il calendario xiuhpohualli, che si adegua a quello degli spagnoli, in uso da sempre anche dai nostri contadini e che ha un anno di trecentosessantacinque giorni divisi in dodici mesi, mentre invece il nostro tonalpohualli, in modo molto meno demenziale, calcolando venti trecene di dodici giorni all’anno, dà un chiaro risultato di duecentosessanta giorni belli tondi, senza alcun resto da sistemare qua e là. Vuoi mettere come tutto diventa così molto più semplice!
Però io sarei ancora più anziano … aspetta che devo fare due calcoli a parte, non son mica Yachilutecuhtli, il nostro Dio dei mercanti, che è bravissimo coi numeri … perché sarei nel millecinquecentosettanta e avrei un po’ più di cinquant’anni. Sarei perfino vecchio invece di anziano. Anzi un sopravvissuto.
Nel nostro impero infatti si muore molto prima. A trenta/quaranta anni, secondo lo xiuhpohualli, uno non serve quasi più a niente.
Certo, questo succede per il popolo perché ai piani alti è tutta un’altra storia.
E io vengo dai piani alti, anzi altissimi: quelli della piramide di Chichén Itzá, la più elevata del nostro impero e destinata alle cerimonie più importanti.
Roquiitz, mio padre, era il “Primo Rotolatore” al servizio del Tlatoani Motēcuhzōma. Il suo compito consisteva, una volta decapitato, squartato, tolto il cuore e altri organi e smembrato per distribuire la deliziosa carne del sacrificabile al popolo, di lanciare la sua testa giù dalla scala della piramide, cercando di farla rotolare fino in fondo dove sarebbe stata raccolta su di una picca a forma di croce per essere poi esposta sulla piazza principale della nostra capitale Tenochtitlàn.
Un gioco a testa e croce all’apparenza facile ma invece tutt’altro. Se per qualsiasi ragione la testa non avesse raggiunto quella croce, cadendo magari fuori dalla scalinata, era quella del rotolatore a prendere il suo posto. Inoltre, se uno crede che in un giorno rotolassero giù poche teste, non aveva che da andare a vedere, in quella piazza, la rastrelliera che le collezionava. In un anno discreto si raggiungevano i venticinquemila crani. Ci fu però un anno, si era ancora sotto il Tlatoani Ahuitzotl che, guerreggiando a destra e a manca si era procurato una quantità enorme di materiale umano, in cui si dovette effettuare d’urgenza il raddoppio di quella rastrelliera per fargliene contenere sessantamila. Di sicuro un record! Ma una faticaccia per mio padre e i suoi quattro accoliti che furono impegnati a far rotolare le teste di quei prigionieri diventati schiavi: uomini, donne, bambini e anche neonati. E fu proprio con uno di quest’ultimi, ma non in quell’occasione, parecchi anni dopo, che mio padre sbagliò la mira e… vabbè potevo sempre andare a trovarlo in quella piazza.
Lui però lo aveva previsto e forse aveva ragione quando, a casa, si lamentava che non gli permettevano d’allenarsi. Di teste così piccole non ce n’erano molte in giro con cui fare esperienza. Comunque questo non sembrò rattristare mia madre Coptil. Aspettate! Ve lo traduco io il suo nome in spagnolo, l’unica altra lingua che conosco, così non fate troppa fatica col suo glifo: Luciérnaga. Un nome azzeccato per una donna come lei.
Era la Grande Sacerdotessa dedicata alla dea Tecciztecatl. Al solo nominarla sembra un secco sternuto, utilissimo a espellere i fluidi maligni, mentre invece è uno dei vari nomi dati a quella misteriosa luce argentata che, montando e calando regolarmente sul cielo notturno ammantato di meravigliose costellazioni, aveva permesso ai nostri astronomi di creare quel calendario più semplice dell’altro. Massì dai! Quella che voi chiamate Luna.
Volevo fare un po’ di poesia ma… potrei solo sprecare il mio tempo!
Mia madre quel posto l’aveva ottenuto per la sua intima amicizia, diciamo così, col Grande Sacerdote dedicato a Huitzilopochtli, che oltre essere Dio del Sole lo era anche della guerra. Dicevano fosse pure ben dotato. Se il mio scriba ha scritto bene il glifo dovreste capire che si riferisce al Sacerdote e non al Dio. Scusate ma la traduzione non deve dare adito a dubbi.
Qui mi sento in dovere di fare una piccola disgressione per voi che mi sta leggendo. Non fate caso a questi nomi così lunghi. Son solo fonetici perché come vedete la nostra scrittura è composta da glifi che racchiudono dei disegni colorati e ciascuno rappresenta, nello spazio e nel tempo in cui è descritto, il suono e il nome di ciò che vogliamo dire, altrimenti non mi basterebbero queste tre tavolette che senz’altro avete già trovato e interpretato, se no… non ci sarebbe nemmeno questa mia storia.
Mi sono intavolettato.
Sono un anziano calzolaio io (dite spoiler anche voi?), mica un docente di letteratura e allora proseguo.
Dopo la morte di mio padre, ai primi del millecinquecentoventi, quando passavo da quella piazza, la sua testa tuttora fresca mi guardava fisso con quei suoi profondi occhi spalancati e sembrava rimproverarmi che non avessi ancora un mestiere col quale mantenere anche mia madre, la sua adorata Coptil.
Beato lui che non aveva mai saputo che lei se la spassava col Grande Sacerdote e che ora che il corpo del marito le era inutile, oddio lo era anche in vita ma mai pensare male dei morti, si era messa fissa con quello là diventando così una Grande Put… Ma no dai, lo so che il glifo presta a confusione ma qui vuol dire proprio Sacerdotessa! Comunque sia: lei si era quasi dimenticata di me, obbligandomi a cavarmela da solo. Magari proprio da solo no. Un po’ mi aveva aiutato anche lei ma non anticipiamo!
Io non me l’ero sentita di seguire le orme di mio padre. Mica per la crudeltà di quel suo mestiere. Quella non era nemmeno da prendere in considerazione. I sacrifici erano estremamente necessari per ingraziarsi tutti i nostri Dei e ingozzare il nostro famelico popolo.
Io di ciò me ne fregavo alla grande. In verità era che non me la sentivo di fare su e giù per quelle dannate scale dagli alti e ripidi gradini anche più di una dozzina di volte al giorno. Certo! Così tante. Vi ricordate che su quella rastrelliera, in quell’anno di grazia, c’erano finiti più di sessantamila teschi? Fate un po’ i conti voi di quanti erano in un giorno e, usate pure il calendario che credete, comunque son sempre un’enormità di gradini da scendere e salire! Io, che fino a quel momento non avevo mai lavorato, avrei preferito un posto a bottega. Magari un bel lavoro sedentario che non m’impegnasse poi tantissimo. Nell’amministrazione pubblica manco a parlarne. Lì, un banale errore e zac: giù la testa. Coglione! Però tra tutti quelli che c’erano nel privato non me ne piaceva nessuno e così me ne sono inventato uno.
Non che fosse proprio un mio personale guizzo di genio ma avevo visto che i soldati di Hernan Cortés, quel Dio pallido e barbuto che era tornato a visitarci così come previsto da una nostra antica profezia, proteggevano i loro piedi con alte coperture in pelle. Le chiamavano “botas” nel loro idioma. In battaglia difendevano anche i loro corpi usando delle corazze argentate ma quello a me non interessava. Sul campo i nostri soldati avevano delle chiare fasi d’ingaggio. Prima: urlavano insulti agli avversari che a loro volta rispondevano. Seconda: mostravano i propri genitali e aspettavano di vedere quegli degli avversari. Terza: attaccavano correndosi incontro con lance e spade di legno. Perché appesantirsi con una corazza?
Non m’interessava nemmeno, tanto mio padre era già morto, che Cortés volesse proibirci tutti quei sacrifici umani invece necessari ad allontanare calamità naturali, malattie, carestie e quant’altro gli Dei malefici ci inviavano di continuo. Incredibile quanto fosse ignorante quel rozzo spagnolo!
Però quei piedi protetti avrebbero potuto anche diventare di moda. Magari solo tra i ricchi e potenti che poi erano anche quelli che avrebbero potuto pagarmi. Fin ad allora solo loro, il popolino andava giustamente scalzo, avevano ai piedi delle specie di suole in fibra vegetale intrecciata che poi si legava intorno alla caviglia. Una semplice protezione ma anche nemmeno tanto. Con la pioggia diventava sdrucciolevole. Molti si erano involontariamente immolati su quelle maledette scale delle piramidi, e noi di queste ne avevamo parecchie, dove, chissà perché, sulle loro cime si fissavano sempre tutti gli appuntamenti più importanti.
Avevo personalmente sentito Cortés, costretto nel peso della sua lucente armatura, bestemmiare il proprio Dio a causa di tutti quei gradini che doveva salire, non ricordo di quale, senz’altro una delle quattro piramidi della nostra capitale, per un incontro con Motēcuhzōma, il giorno che aveva deciso di sottometterlo alla propria volontà. Anzi quella volta voleva addirittura arrestarlo ma alla fine addivennero a un compromesso: l’azteco avrebbe dato ordine di fermare i seppur utili sacrifici e lo spagnolo l’avrebbe lasciato libero di governare. In altri loro successivi incontri tentò pure di convertirlo al cattolicesimo ma senza successo. A Motēcuhzōma di poter bestemmiare un solo dio non interessava, lui ne aveva più di un’ottantina a sua disposizione! Non ci credete? Ve ne presento una che vi stupirà così sistemiamo anche questo una volta per tutte: Itzpapalotl, la dea scheletrica delle donne morte di parto. Mica ce l’avete voi. Bè noi sì e la bestemmiamo come ci pare.
Ma lasciamo perdere questi futili fatti anche perché siamo rinchiusi qui da vari giorni e il tempo stringe. I viveri son quasi finiti e anche l’acqua della cisterna. Anche le due fiaccole sono esaurite e possiamo solo vederci di giorno con la luce che proviene da quella crepa. Da questo corridoio non si può uscire. Ci siamo un po’ adattati al buio e siamo sicuri che nessuno ci cerca. Forse il terremoto ha ucciso tutti.
Questo è un glifo del ritorno a capo perciò...
Io sarei dunque diventato un calzolaio. Anziano per causa d’età ma giovane esordiente in un nuovo campo. Chiesi a mia madre che era amica d’infanzia di Malinche, l’amante azteca e interprete di Cortés, di sottrarre un paio di botas appartenenti al condottiero. L’operazione andò a buon fine e mi furono consegnate. Dopo averle destrutturate (è un glifo in uso ai nostri giorni e vuol dire smontate), avevo perfettamente capito come avrei potuto fabbricarle.
A dire il vero, come al mio solito, io non avrei fatto proprio un bel nulla.
Mia madre aveva ottenuto in regalo, credo di sapere come ma non lo so, da un ricco commerciante in pietre da costruzione, un vasto locale nella piana davanti alla grande piramide di Chichén Itzá e, con qualche schiavo, senza i rituali sacrifici ce n’erano parecchi che pur di sopravvivere erano disponibili a qualsiasi tipo di lavoro, avevo iniziato la mia nuova professione. Non c’era nemmeno un glifo per descriverla e allora un tlacuilo, uno scrittore emergente dei miei tempi, me ne aveva confezionato uno nuovo nuovo che si poteva pronunciare così: Fer’agamocatlchitl. Bellissimo. Spero venga tramandato ai posteri.
In pochissimo tempo sono diventato famoso.
I miei stivali li volevano tutti.
Bè certo i pipiltin, cioè quelli considerati nobili e non degli incontinenti come si presterebbe una traduzione istintiva, li richiedevano con una chiodatura in oro mentre i comandanti dell’esercito con una in ferro. Solo con i loro ordini divenni ricco ma i miei forzieri iniziarono a riempirsi veramente quando cominciai a fabbricare dei bassi stivaletti chiodati per i soldati. Una richiesta che mi arrivò direttamente dal grande Tlatoani Motēcuhzōma, poco prima che lui morisse. In quell’occasione, macchè della morte, vabbè che il glifo è un leggermente malandato perché fatto alla luce di una fiaccola ma, impegnandosi un pochino, si può leggere “della consegna”, gli donai un personalissimo paio di stivali in pelle, appena tolta dalla schiena di una schiava vergine della tribù dei Tepanechi. Le suole invece erano composte di vari strati di pelle di cane tenuti insieme da speciali chiodini in oro. Pietre preziose adornavano il gambale e raffiguravano le due più conosciute costellazioni celesti disegnate dai nostri famosi astronomi.
Il grande Tlatoani alla sua morte volle essere cremato, come di spettanza, sulla Cuauhxicalcocon, calzato con quegli stivali. La sua volontà non fu completamente rispettata: diventò cenere sì ma a piedi nudi. Inoltre non si seppe nemmeno dove fosse andato a finire tutto quell’oro che gli avevano fatto colare in bocca soffocandolo fino a che Mictlanteculhtli, non se lo portò con sé nel profondo degli inferi dove regnava con la moglie Mictecacihuatl.
Dopo la sua dipartita ero indeciso se imbarcarmi su uno di quei brigantini spagnoli che tornavano nella loro patria, per andare a visitare la terra da dove erano arrivati quei pallidi barbuti che, seppure in numero molto limitato, erano riusciti a sottometterci e a impadronirsi di una gran parte del nostro oro, oppure trasferirmi a oziare sulla costa della nostra magnifica penisola dello Yucatan dove risiedevano i nostri cugini Maya.
Decisi per la seconda opzione e credetti di far bene, data la mia presente situazione.
Nel dodicesimo mese del millecinquecentoventi creai dal nulla un villaggio a cui diedi il mio nome. Mi chiedo se al momento della lettura di questo mio racconto sia ancora esistente.
E ora vi saluto com’è nostra usanza e, se siete arrivati fino a qui, saprete anche di sicuro cosa voglia dire quest’ultimo glifo: Tlalcualiztli.
KanKun Chakparrat 2-10-1540
Forse vi interessa sapere che ho deciso di farmi uccidere dal mio scriba così che sia lui a dover soffrire la morte per fame e sete.
Questo è il mio ultimo glifo e perciò se ne trovate altri non sono miei.
KanKun non era così cattivo!
Peccato che non fosse veramente grasso!
Ieri finalmente Tlaloc si è deciso a scaricare acqua dal cielo e la pioggia scrosciante di un paio di giorni ha allargato l’uscita nel soffitto.
Me ne vado. Se qualcuno arriverà qui troverà solo uno scheletro. E non è il mio. Ahahah!
Tlalcualiztli anche da me.