C'era una vecchia sedia di legno accanto al telefono, sotto la finestra, e ci si lasciò cadere sopra.
«Ciao tesoro, come stai?»
«Ciao mamma,» allungò un braccio e spalancò la finestra. I boschi bagnati dalla pioggia recente brillavano sotto la luna, «è da un po' che non ci sentiamo.»
«Ho bisogno di un ultimo favore» mormorò sua madre.
«Era l'ultimo anche la volta scorsa,» ci fu del silenzio, eloquente. Poi, in sottofondo, si sentì la televisione. Delle risa, «ma il bambino è là con te?» chiese Luis, alzando la voce.
«È una bambina. E non l'ho portata io qua, non so come ha fatto, ma ci è arrivata da sola. È stato... il destino.»
«Il destino?»
Luis si ritrovò a sorridere. Il destino, certo. Sua madre aveva il vizio di aiutarlo parecchio, il destino, a compiere il suo dovere.
«È una situazione grave» la sentì bisbigliare.
«Mi ci vorrà qualche ora per scendere in città e... mamma?»
«Sì?»
«Distruggi il telefonino.»
Lasciò la Jeep vicino alla Metro. Nei bagni della stazione trovò l'indirizzo scritto sulla ceramica del secondo orinatoio. Lo cancellò per bene, si cambiò la giacca e i pantaloni, si avvolse le dita col nastro adesivo, stretto. Era meglio dei guanti, come aveva imparato durante l'addestramento in Israele. Si calcò un cappellino in testa e prese il treno. Scese al capolinea e si cambiò nuovamente. Parrucca bionda e barba. Spessi occhiali da vista.
L'ultimo tratto di strada, fino all'indirizzo che gli aveva indicato sua madre, lo fece a piedi.
Si ritrovò davanti a una casa anonima, con le imposte chiuse.
Non notò nessun vicino curioso. Non passavano auto.
Quando sollevò il braccio per suonare il campanello, la manica della giacca si ritrasse e scoprì il polso con un bel nastro rosso che lo avvolgeva. Sorrise, chissà di che colore era quello della bambina.
Il portoncino si aprì e una donna lo squadrò, annoiata. Aveva i capelli unti, un labbro tumefatto e puzzava di fumo.
«E tu chi saresti?» chiese.
«Sono il destino» rispose calmo Luis, colpendola al collo.