0 – La fine del Sogno
All’inizio fu il Serpente Arcobaleno.
Il suo Spirito dette il via al Tempo del Sogno, il Tempo in cui tutto prese vita, in cui tutte le creature uscirono dal buio e presero a muoversi sulle vie del mondo. Il Tempo in cui anche le rocce, il deserto e i corsi d’acqua assorbirono parte dello spirito e divennero tutt’uno con gli esseri viventi, costruendo un legame che pareva indissolubile fra terra, uomini, animali e piante; un legame naturale chiamato il Sognare, perché, come il Sogno, la creazione non avesse mai fine.
E fu quello il tempo in cui sorse anche il grande monolite chiamato Uluru.
Poi, il Serpente Arcobaleno, esaurito il suo compito, distese le sue spire sulle colline che ancora portano il suo nome e divenne anch’esso parte della terra.
Ma, col trascorrere dei millenni, il Sognare cominciò ad affievolirsi, fin quasi a spegnersi del tutto, offuscato dai bagliori di città sempre più grandi e dai riverberi di edifici che, nel loro incedere, rubavano spazio anche al deserto; esautorato dal comportamento di esseri che, consapevoli o meno, parevano decisi piuttosto a farlo crescere dentro di sé, il deserto.
Fu dunque proprio il Deserto, col suo Spirito inquieto, che decise di mettersi all’opera: cancellare tutto e ripartire da zero; far rinascere il Tempo del Sogno e restituire al Sognare l’antica dignità. Far sì che anche le formiche verdi potessero tornare a sognare.
E la prima tappa sarebbe stata ricreare il buio e le sue creature.
1 – Sal
Si voltò un attimo, verso l’ultimo scorcio scintillante della città: acciaio, cemento e un vortice di auto e pedoni senza fine. Libero, finalmente. Ma anche consapevole che, ovunque fosse andato, per quanto piccolo il suo bagaglio, si sarebbe comunque portato dietro un ingombrante se stesso.
Se stesso e un certo senso di solitudine che solo ora sembrava riuscire a mettere a fuoco: sentirsi solo in mezzo a un milione di persone, fra donne e uomini che quella sensazione, insieme a molte altre, l’avevano bandita, cancellata, sostituita con luci abbaglianti ed effetti speciali, effimere compagnie che creavano solo assuefazione.
Scosse la testa e, con un’alzata di spalle, riprese il suo cammino. Nessun rimpianto: troppo forte era stato lo stimolo, il desiderio di allontanarsi dalla città, che aveva sentito nascere improvviso e prepotente dentro di sé.
Soltanto un piccolo brivido, un leggero tremito, giusto il senso di timore per l’ignoto che, da quel momento, gli sarebbe andando incontro. Strinse il giubbotto e via, passo dopo passo, i pollici infilati sotto gli spallacci dello zaino mezzo vuoto, nelle folate di vento che parevano volergli strappare la pelle di dosso.
Via via che usciva dalla città tutto appariva sempre più degradato, la faccia nascosta dello splendore fatta di sporcizia, miseria e alcol a buon mercato. E in breve si trovò a calpestare buche fangose piene di erbacce, tratti di asfalto sbriciolato e sporco.
Gli sembrava di essere tornato indietro di secoli.
Carcasse di auto arrugginite; macchie nere di copertoni bruciati; pezzi di macchinari obsoleti ricoperti da arbusti scheletrici e spinosi che, nella luce radente del tramonto, parevano artigli conficcati nel corpo della preda. E, in quelle zone, sarebbe potuto diventarlo lui stesso.
E poi le figure furtive che apparivano e sparivano fra cespugli e ciuffi d’erba alta. Brevi visioni colte con la coda dell’occhio. Animali. O forse bambini. In un caso o nell’altro, incontri da evitare. Circolavano voci che presso alcuni gruppi dell’outback i figli venissero allevati come bestie, capaci di contendere il cibo alle fiere stesse.
Era convinto che non sarebbe stata una passeggiata. Ma continuava ad andare avanti, sfidando il vento, la paura e il freddo.
Sapeva bene dove andare, anche se avrebbe giurato di non esserci mai stato.
Un luogo preciso, in mezzo al deserto.
2 – Odile
Sfiorò il pulsante sul pannello dell’ascensore e le porte si aprirono. Entrò nella capsula trasparente che scorreva sul fianco del palazzo di vetro e acciaio in cui lavorava e iniziò la discesa. E, come ogni volta, sfruttando l’orientamento dell’edificio, lasciò vagare lo sguardo verso l’orizzonte lontano dell’outback dove, in giornate limpide come quella, si poteva scorgere anche la sagoma dell’antico monolite.
Un tuffo dal trampolino. Un senso di libertà della durata di un battito di ciglia.
Un lieve effetto di accelerazione e in pochi secondi gli immensi spazi sparirono alla vista, e, giunta a livello stradale, si ritrovò immersa nel solito brulichio di gente e veicoli che le mozzava il respiro.
Topi.
Cavie ficcate in labirinti dalle alte pareti a specchio, senza via d’uscita. Così le parevano i suoi simili e così si sentiva lei stessa.
Ma con una differenza: la consapevolezza.
Si era svegliata già con la precisa sensazione di essere rimasta sola, quasi fosse l’unica sopravvissuta di una catastrofe; di poter contare solo su di sé, perché quegli esseri che le camminavano a fianco o le venivano incontro non parevano altro che dei morti viventi, degli inconsapevoli passeggeri di un treno lanciato a mille verso il precipizio.
Cercò inutilmente di cacciar via i pensieri e, con un leggero salto, si immise sul tapis roulant che scorreva indifferente verso la via di casa: semplici spostamenti da un luogo all’altro senza niente di nuovo o di bello da osservare.
Mai come ora sentiva che era ormai andato perso il gusto di fare quattro passi da soli o in compagnia, il piacere del passeggiare senza una meta che ormai trovava evocato soltanto nei suoi vecchi libri. Nei quali non vedeva l’ora di immergersi.
E, con quell’idea in testa, si immaginò in piedi, di fronte agli scaffali, a cercare testi che assecondassero quello strano desiderio che le si era insinuato dentro: la voglia di una camminata senza scopo, di un vagare da flâneur completamente impensabile qui e ora, in un tempo così lucido e asettico, senza più sorprese da assaporare o regalare; in quella vita da semi-addormentati che conducevano tutti quanti.
Il desiderio di lasciare tutto e andare verso il deserto.
Entrò in casa e, appena oltre la soglia, sentì la spinta diventare incontenibile. Capì che non c’era tempo per attardarsi fra le pagine di un libro né per sedersi al tavolo di una cena solitaria. Scambiò l’abito elegante e le scarpe col tacco con jeans, felpa, giubbotto e calzature comode, legò i capelli in una stretta coda e in un batter d’occhio si ritrovò di nuovo in strada. Un vecchio zaino e una nuova sensazione, un misto di paura e curiosità per l’ignoto, come uniche compagnie.
Si avviò decisa verso le fiamme del tramonto, sferzata dal vento. Verso un luogo che pareva essere stato impresso a fuoco nella sua mente.
3 – Wiltja
Con la preda ancora stretta fra le dita, un giovane wallaby che troppo tardi si era reso conto dell’importanza di correre veloci, il ragazzo si accucciò fra i ciuffi d’erba che fiancheggiavano la strada.
Era uno dei pochi del suo sparuto gruppo di busher che non aveva paura di spingersi così vicino ai margini della città: molti animali si aggiravano nelle zone della periferia in cerca di cibo e, per un giovane cacciatore come lui, c’era solo l’imbarazzo della scelta.
Così, come al solito, a piedi nudi e abbigliato solo di un paio di calzoncini corti un po’ sfilacciati, si era tuffato nell’acqua del torrente vicino alle baracche che davano riparo alla sua gente e si era rotolato nella sabbia rossa del deserto; poi si era cosparso viso e capelli col succo verdastro di alcuni licheni; e, ben mimetizzato, aveva atteso la sua vittima.
Ma fin dal mattino aveva colto qualcosa di diverso nell’aria. Suoni e odori nuovi, portati dal vento, carezzavano i suoi sensi e instillavano nel suo spirito semplice sensazioni contrastanti e intense, mai provate prima.
Un canto sommesso e distante che pareva scaturire dalle profondità stesse della terra sembrava volerlo avvolgere nelle sue spire suadenti, attrarlo verso di sé per guidarlo verso luoghi sconosciuti; tanto potente che aveva faticato non poco per tenerlo a bada e riuscire a catturare il wallaby, misera selvaggina che forse sarebbe stata appena sufficiente a sfamare se stesso.
E ora, quelle due figure solitarie, illuminate dagli ultimi raggi del sole, che avanzavano distanziate di qualche passo lungo la strada che si perdeva nel deserto. Camminavano, incuranti del vento, sollevando a tratti la testa come per fiutare una debole traccia o ascoltare un richiamo lontano. Wiltja li osservò dal suo nascondiglio, sempre più convinto che anche loro dovevano essere preda dello stesso incantesimo: un uomo e una donna della lucente non si sarebbero spinti nell’outback, a piedi e disarmati, se non attratti da qualcosa di irresistibile.
I due lo raggiunsero e superarono, mentre la distanza fra loro diminuiva passo dopo passo, e Wiltja, abbandonata la preda e, sfidando la diffidenza inculcata fin da piccoli verso i cittadini, cominciò a seguire le ombre esili che si allungavano sull’asfalto.
Verso il deserto.
4 – Il Deserto
All’apparenza era tranquillo, specie ora che il vento era un po’ calato d’intensità. Ma il suo Spirito era tormentato, fremente nell’attesa di chi, nonostante l’approssimarsi del buio, ancora non si vedeva. E pur sapendo per certo che i tre viandanti sarebbero arrivati.
Per tutto il tempo aveva continuato a disfare e ricomporre le sue dune, granello per granello, mutando senza posa le linee sinuose del paesaggio. Si era spinto fino ai margini della città, cavalcando le onde di sabbia che avevano graffiato i cristalli scuri dei palazzi, ed era tornato indietro nei mulinelli che vorticavano lungo il nastro nero del quale stava pian piano riprendendo possesso.
Sapeva, il deserto, che presto il suo dominio si sarebbe esteso di nuovo, fino ad arrossare le strade e i quartieri già assediati da vicino, nell’incuranza di quegli esseri ormai quasi del tutto privi del germe di natura che, in tempi ormai lontani, li aveva resi parte del Sognare.
Gli abitanti del mondo si erano fatti sordi ai Canti. Diventati stanziali, avevano edificato inutili totem scintillanti e sdipanato fili scuri sopra le sue sabbie; avevano perso il contatto con l’essenza.
Si era esaurito il vagare nomade, il lento camminare da un pozzo all’altro, da un villaggio all’altro; e con esso era cessato lo scambio di canti e sogni fra gli uomini. I corpi si erano svuotati, come tronchi secchi ai margini dell’outback, spelonche cave e impietrite nelle quali nemmeno i serpenti avrebbero scelto di vivere.
Era scomparsa la fantasia, la capacità di meravigliarsi, il desiderio di cercare.
E anche le formiche verdi, cacciate dai loro luoghi sacri, avevano smesso di sognare.
Chiari segnali che il Tempo del Sogno, così come era nato, stava volgendo al termine; che il Sognare era relegato solo a pochi, e a quei pochi il Deserto aveva dato il compito di lanciare i richiami, vaghi appelli verso coloro che, pur vivendo fra i senza cuore, in fondo al loro essere ancora ne conservavano un barlume.
Quattro vecchi aborigeni si erano seduti ai vertici dei venti, ai piedi dell’antico monte degli Anangu, le cui pareti rossastre ancora mostravano le cicatrici della lotta fra Liru e Kunia.
Ed erano iniziati i canti.
5 – I tre viandanti
Ancora pochi passi e furono costretti a fermarsi nel buio fitto che li aveva colti alla sprovvista. Da un po’ di tempo camminavano affiancati sulla lingua d’asfalto. Era bastato uno scambio di sguardi per riconoscersi compagni di viaggio, per capire che avevano in comune la stessa meta, la stessa guida nella mente. Senza fermarsi, avevano condiviso i loro nomi come pezzi di pane.
Ma ora la notte li circondava e non lasciava più intuire alcun punto di riferimento. Alzando gli occhi al cielo potevano godere di un firmamento straripante di puntini: agglomerati di stelle impossibili da cogliere nel cielo cittadino e invisibili anche ai busher come Wiltja, tanto estesa era la fascia luminosa.
Miliardi di punte di spillo a formare pagine e pagine di segni di un alfabeto ormai sconosciuto, di una lingua che nessuno dei tre era capace di interpretare per ritrovare l’orientamento e la direzione, ora che anche il vento era calato, il canto taceva e l’asfalto era diventato tutt’uno con il buio.
Il ragazzo prese per mano la donna e l’uomo e li condusse fuori dalla strada, verso la sagoma appena percettibile di una capanna. Sfruttando le minime conoscenze della loro lingua, spiegò loro l’utilità di formare un cerchio di arbusti tutto intorno, ai quali dar fuoco per tenere lontani animali notturni e spiriti malevoli.
Divisero le poche provviste e, vinti dalla stanchezza, si addormentarono su un inusuale giaciglio – almeno per due di loro – di sterpi e foglie.
Li destò il fruscio della sabbia soffiata dal vento contro le pareti di frasche. Era appena sorta l’alba e del fumo grigio ancora esalava dalle ceneri dei falò. Dopo una breve sosta al pozzo si rimisero in cammino. Con il vento, anche il canto era tornato a farsi vivo e i banchi di nuvole che si stavano addensando all’orizzonte, e che avrebbero attenuato i dardi infuocati del sole, sembrarono loro un buon viatico per andare avanti.
A dispetto di tutti i timori, quello che doveva essere un viaggio avventuroso e irto di pericoli, si dimostrò invece più semplice del previsto. Si trattò più che altro di lunghe camminate a passo sostenuto e di brevi soste per rifocillarsi presso i pozzi che ogni tanto affiancavano la strada. Il canto arrivava comunque sempre più chiaro e forte. Li avvolgeva e proteggeva il loro cammino.
Wiltja spiegò ai suoi compagni che la strada che stavano percorrendo era molto vecchia. I racconti tramandati dagli anziani la definivano come una specie di serpente sacrilego, posato dai bianchi sulle sabbie del deserto al solo scopo di profanare la loro terra e il monolite caro agli spiriti. Sal e Odile si scambiarono uno sguardo d’intesa: era stata una via per far arrivare facilmente i turisti ad Ayers Rock, creata, come sempre accadeva, senza curarsi del male che ne poteva derivare agli aborigeni. Una via comunque già da tempo abbandonata, da quando anche il turismo era cessato, insieme alla voglia di viaggiare, di scoprire uomini e orizzonti diversi.
Alcuni segni lungo il cammino indicarono loro che la meta era vicina: un manifesto con la sagoma del monte scolorita dagli anni e, poche centinaia di metri dopo, lo scheletro di un chiosco dove una tazza, con il muso di un koala appena distinguibile, tintinnava nel vento appesa a un gancio arrugginito.
Era quasi sera quando i tre viandanti raggiunsero la destinazione: il gigantesco monolite di Uluru apparve davanti ai loro occhi come la punta di un iceberg dai colori cangianti che si stagliava sul mare rosso del deserto.
6 – Uluru
Accolse i nuovi arrivati con un vecchio aborigeno accovacciato in squat con a fianco un lungo yam-stick stretto nella mano. Era l’ultimo dei quattro disposti ai vertici dei venti. Dimostrando un’inattesa agilità, scattò in piedi e, dirigendosi verso di loro, li gratificò di un sorriso fatto di rughe profonde e denti storti e di un breve discorso in una lingua antica e dolce, della quale solo Wiltja sembrò afferrare qualche parola. Poi, indicando la montagna con il bastone, fece loro cenno di seguirlo e si avviò spedito verso uno dei tanti anfratti che ne solcavano il fianco.
La spaccatura si rivelò essere l’ingresso di una grotta.
I tre si affacciarono all’interno e dovettero schermarsi gli occhi con le mani, tanta era la luce prodotta dalle migliaia di fiaccole appese alla volta. E, una volta assuefatti al riverbero, si resero conto che le meraviglie non erano finite.
Incastonate nelle pareti della caverna c’erano centinaia di cellette di forma ovoidale interamente ricoperte da una membrana di vetro o pellicola trasparente, attraverso la quale erano distinguibili gli occupanti: donne e uomini di età ed etnie differenti rannicchiati in posizione fetale e profondamente addormentati. Solo tre delle celle erano ancora vuote e aspettavano proprio loro.
Il vecchio li fece spogliare e li condusse sotto dei potenti getti d’acqua tiepida che li rinfrancarono e pulirono Wiltja degli ultimi resti della sua mimetizzazione. Poi li accompagnò davanti alle cellette vuote e, una volta entrati ognuno nella propria, parlò ancora nella stessa lingua con la quale li aveva accolti.
Quasi fosse un preciso comando, alle sue parole anche le ultime membrane trasparenti si chiusero e un turbine di vento e sabbia salì a spegnere le torce, come fossero candeline su una torta di compleanno.
Odile, Sal e Wiltja dopo pochi secondi già condividevano il sonno di tutti gli altri abitanti della grotta. E l’oscurità divenne un rassicurante abbraccio, una sorta di avvolgente placenta, pronta a custodire le nuove creature del buio.
7 – Il Deserto
Ora che il primo atto poteva dirsi finalmente concluso, era tempo di proseguire l’opera.
Lo Spirito del Deserto si acquattò fra le sue sabbie come un grosso felino pronto a balzare sulla preda. Tutti avrebbero conosciuto la sua potenza e, ci fossero voluti dieci o mille o diecimila anni, il Tempo del Sogno sarebbe comunque tornato a vivere. E con lui avrebbe ripreso fiato l’antica armonia perduta.
Nella notte, intanto, il vento ricominciò a infuriare.