Nessuno ricordava quando la donna fosse arrivata nella piccola oasi a un giorno di cammino dal villaggio, ma per tutti ne era la custode e si diceva lo fosse anche della sorgente che alimentava i pozzi delle loro case.
A chi le chiedesse il suo nome o da dove venisse, lei rispondeva con un sorriso gentile e un gesto vago della mano magra e nodosa, quasi scacciando quelle domande come mosche noiose.
Forse a confondere, ingannare, erano gli occhi, azzurri, quasi trasparenti, che risaltavano su un viso segnato dal sole e dal vento, ma chi da anni si fermava nella piccola oasi ai margini del deserto giurava di averla sempre vista lì, davanti alla tenda, con un bricco di tè profumato e piccole focacce, da gustare con dei datteri.
Selima, questo era il suo nome, offriva quei doni ai mercanti e ai nomadi che ancora viaggiavano a dorso di cammello con i gesti semplici di chi divide quello che ha con gioia. Ma quando versava l’acqua, i gesti erano solenni, perché un bene così prezioso meritava di essere onorato.
Di sicuro Selima aveva viaggiato molto: narrava di città lontane e di culture a volte bizzarre; per lei raccontare, condividere il suo bagaglio di ricordi ed esperienze era il modo per non scordare nulla di una vita vissuta intensamente.
Ma era la sua storia quella che più amava raccontare, soprattutto a chi si fermava per la notte, una fiaba per grandi e piccini seduti attorno al fuoco, attenti: la sera diventava notte, la notte si faceva alba e gli anni di Selima scorrevano come seta. I bimbi finivano per addormentarsi, ma per i grandi il suono della sua voce era più riposante di qualche ora di sonno.
«Stasera vi voglio raccontare la storia di una bambina, Selima, nata in un villaggio molto lontano, in una notte come questa, con tantissime stelle in cielo e un vento leggero che gironzolava tra le case.»
Nei momenti di solitudine, quando la nostalgia si faceva struggente, la raccontava a sé stessa, sottovoce, arricchendola di nuovi particolari che affioravano inaspettatamente.
Selima era nata in un villaggio adagiato tra colline lussureggianti e le prime propaggini del deserto, annunciato da alture rocciose, rossastre e brulle.
Nacque di notte, una notte straordinaria di cui ancora c’è memoria: in cielo non si erano mai viste così tante stelle e quando si udì il pianto della piccola, l’acqua che, attraverso una fitta rete di canali, irrigava frutteti, orti e giardini, si fece rigagnolo, per non disturbare il riposo della madre. E anche il vento, che da giorni soffiava impetuoso, quella notte si placò.
Era ormai quasi l’alba quando Selima venne presentata al capo del villaggio affinché le fosse imposto il nome scelto per lei. In quel momento in cielo apparvero delle stelle cadenti, che andarono a nascondersi dietro la cima della montagna che si vedeva, netta, in lontananza. Ne contarono dieci.
«Hared, quando sarà il mese del suo decimo compleanno, la dovrai portare al cospetto delle Sagge della montagna, là in cima, per conoscere il suo destino.»
Hared era perplesso: che si sapesse nessuno del villaggio aveva mai incontrato le Sagge e si pensava fosse solo una delle tante leggende tramandate di padre in figlio.
«Ah Selima! Dicono fosse sempre allegra, mai un minuto ferma, curiosa e qualche volta un po’ birichina, come voi; ma era anche studiosa, e bravissima in disegno, sì davvero molto brava.»
«Ma poi suo padre la portò dalle Sagge? Dove abitavano?»
C’erano sempre bimbi impazienti di ascoltare chissà quali avventure!
«Certo! Dovettero andare fin sulla montagna e fu un viaggio faticoso, su sentieri sassosi e ripidi, lungo i quali ben pochi alberi offrivano un po’ di ombra, ma Selima non si lamentò per la fatica perché lamentarsi non accorciava di certo la strada! Le Sagge abitavano una grande casa…»
Le Sagge abitavano proprio in cima alla montagna, in una grande casa di pietra che pareva un fortino, grigia e triste vista da fuori, ma l’interno era curata e accogliente. Nelle stanze grandi tappeti colorati coprivano il pavimento di pietra e nel cortile, dentro grandi vasi colorati, crescevano cespugli rigogliosi e piccole piante di limoni.
All’inizio padre e figlia poterono vedere le Sagge solo da lontano: se ne stavano sedute per ore alle finestre, in silenzio, assorte in meditazione per poi ritirarsi in stanze dove solo loro potevano entrare.
Il cortile si riempì delle risate di Selima, e delle sue proteste quando il padre si rifiutava di portarla nella valletta che conduceva al deserto, come la bimba chiedeva con sempre più insistenza.
Un giorno Hared, preoccupato, ne parlò alle Sagge:
«Selima vorrebbe andare sempre oltre, ma io non mi fido, so quanti pericoli possono nascondersi. Quando torniamo passa ore a disegnare, la sento chiacchierare, ridere e la vedo… ascoltare.»
E porse alle donne dei disegni: c’era sempre il deserto, a volte con semplici tratti per dune e rocce affioranti, a volte ai piedi di montagne disegnate con cura e ricche di particolari.
«Dice che questi luoghi le vengono descritti dal vento, dalla sabbia che si lascia scorrere tra le dita. E che anche voi sentite… cose. Che significa? Ha solo dieci anni, ha sempre vissuto al villaggio… E poi c’è questo.»
Altri disegni, ma con qualcosa di diverso: ai colori bruni e giallastri si erano aggiunte macchie di colore, che Selima spiegò così:
«L’azzurro è il mare, il verde le foreste, il rosso… non lo so, è triste, e il nero fa paura, ma io non ho paura.»
Quella sera le Sagge, dopo essersi consultate a lungo, furono molto chiare con Hared: quei disegni erano la conferma che Selima doveva rimanere con loro, l’avrebbero protetta e dato gli strumenti per affrontare il futuro scritto tra le stelle la notte in cui era nata e che non poteva essere cambiato.
Il giorno dopo Hared ripartì, da solo: Selima lo osservò finché non divenne solo un puntino. Il vento le portò il sapore delle lacrime del padre: non lo avrebbe mai dimenticato.
«Ma cosa faceva tutto il giorno?»
«E a scuola, andava a scuola?»
«Beh, le Sagge erano anche brave insegnanti, sapevano di matematica e di storia, di astronomia e di scienze, avevano tanti libri. Selima imparò diverse lingue, ma anche a ricamare e tessere, a cucinare… insomma non aveva tempo per annoiarsi.»
Crescendo Selima prese l’abitudine di inoltrarsi a cavallo nel deserto, per qualche ora: lì si sentiva davvero libera, viva, in un ambiente solo in apparenza senza vita, dove riordinare pensieri e sogni che affidava al vento.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno Selima ricevette dalle Sagge i tre nomi che avevano scelto per lei, dopo averla osservata e studiata: erano nomi importanti, che l’avrebbero accompagnata tutta la vita.
Li dovette ripetere più volte, assieme al significato che essi racchiudevano e al giuramento di utilizzarli solo quando si fosse sentita pronta ad affrontarne le conseguenze.
«Una volta che avrai speso un nome, scrivendolo sulla sabbia, sulla pietra o nell’aria, si compirà una parte del tuo destino e non potrai tornare indietro.»
Qualche giorno dopo Selima partì per la grande città, affidata all’uomo che spesso faceva visita alle Sagge, portando nuovi libri per la biblioteca, giornali e notizie dal mondo, un mondo provato da anni di guerra e con ferite ancora aperte.
«Come spese i nomi, Selima? Cioè un nome è un nome…»
«Oh no, un nome può racchiudere tanto: una speranza, un sogno. Potere. Un potere non sempre comprensibile, come tante cose. Può anche nascondere una persona: la vedi, le parli, poi ti accorgi di non ricordarne le fattezze, la voce, cosa avete fatto assieme. È strano ma è ciò che accadde a Selima.»
Il primo nome lo incise su un sasso preso da un’aiuola davanti all’università e che tenne stretto mentre consegnava i documenti per l’iscrizione al corso di archeologia.
Doveva essere un nome potente, più forte dell’influenza che le Sagge avevano speso perché potesse frequentare scuole di solito riservate all’élite della società. Selima venne accettata, ma tanti furono i malumori, gli sgarbi, le critiche.
Era una donna, destinata ad accudire un marito e dei figli, non ad avere ambizioni.
Quella parte di mondo proprio non riusciva a liberarsi di quel modo di pensare e Selima ne soffriva ma non si arrese: nei momenti difficili si rifugiava fuori città, in un angolo brullo e arido che le ricordava il deserto, che sempre tornava nei disegni che teneva ben riposti in un bauletto.
Il suo primo nome era per una donna amante del sapere e della conoscenza: il giorno in cui le consegnarono, a malincuore, la laurea, il sasso tornò al suo posto, intatto.
Il giorno dopo lesse che in una regione non troppo lontana erano stati aperti degli scavi: mise le sue cose in una cassa e partì. Durante il viaggio in treno provò e riprovò il discorso per presentarsi al dottor Richard Harris, lo studioso che dirigeva i lavori, sperando fosse di mentalità tanto aperta da passare sopra il fatto che lei fosse una donna, oltretutto senza titoli da spendere.
Lo trovò sotto una tenda che stava fotografando alcuni reperti: per calmarsi prese un blocco e alcune matite e in poco tempo i cocci di un vaso sparsi sul tavolo presero vita, persino i fregi scoloriti dal tempo spiccarono come appena dipinti.
«Ma… è bellissimo! E lei chi sarebbe, signorina?»
Nel momento in cui Selima si voltò, i loro cuori si intrecciarono e non si lasciarono più.
Quella sera scrisse il suo secondo nome nell’ultima pagina di un quadernetto, su cui avrebbe annotato nel tempo i ricordi più importanti della loro storia.
Fu un amore travolgente, che diede scandalo: per la differenza d’età, per la posizione di Richard, ricco di famiglia, per l’assenza di un passato di Selima. Ignorarono tutto e tutti e si sposarono, non senza qualche difficoltà. Vissero e lavorarono assieme per più di vent’anni: all’inizio la moglie esotica era oggetto di curiosità, salvo poi scoprirne le indubbie capacità, che nel tempo diedero a Selima un meritato prestigio. Quando decisero di ritirarsi in tanti musei, accanto ai reperti da lui portati alla luce, erano sistemati i bellissimi disegni di Selima, omaggio al passato di tanti popoli.
Per festeggiare il sessantesimo compleanno di Selima, Richard chiese ad un amico di portarla sul deserto, su un piccolo aeroplano. Selima non era preparata a un tale spettacolo: aveva sorvolato altre volte il deserto, ma così da vicino fu un’esperienza unica, quasi toccò con mano il desolato splendore come tante volte aveva immaginato. Le dune somigliavano a onde del mare immobili, cercò strade cancellate dal tempo, accampamenti sepolti dalle tempeste. E i colori del tramonto, con mille sfumature che duravano pochi attimi! Le parve persino di sentire l’odore del deserto.
Selima non riusciva a staccare gli occhi da tanta bellezza e pensò che un improvviso lampo rosso fosse dovuto solo a un riflesso sul metallo dell’ala.
Quella stessa notte Richard morì, nel sonno: Selima ne disperse le ceneri nel deserto e poi partì, portando con sé poche cose e nel cuore un dolore immenso.
Si dimenticarono di lei, come era scritto nelle stelle.
Viaggiò per alcuni anni, rimanendo sempre ai confini del deserto, fermandosi in piccoli villaggi, aggregandosi alle carovane di mercanti che ancora resistevano e che volentieri la ospitavano nelle loro grandi tende, in cambio di un ritratto, di uno dei suoi disegni così realistici, di una storia.
Il silenzio le dava pace e i ricordi tornavano nitidi e consolatori.
Addentrandosi qualche volta nel deserto le capitò di ritrovare i resti di uomini e donne traditi da quella distesa immensa di sabbia e rocce, che pensavano di conoscere così bene. Inutile dare sepoltura a quei resti, che forse nessuno aveva cercato: Selima raccoglieva quel che restava dei loro averi, qualche piccolo gioiello, un diario, una sciarpa e li lasciava su una bancarella o a un mendicante.
Assegnava a ogni tappa il ricordo di un momento particolare vissuto con Richard, il nome di una città che avevano visitato, felice di averne tenuto nota.
Forse fu il caso o il destino, ma arrivò all’ultimo foglietto proprio il giorno in cui si fermò in quell’oasi. Accese un fuoco e bruciò una paginetta per volta: non ne aveva più bisogno, i ricordi erano ben chiusi nel cuore, intoccabili. Quel giorno decise che il suo vagare era terminato e che quella sarebbe stata la sua casa.
Sull’ultima pagina aveva scritto tanto tempo prima il suo secondo nome, quello di una donna che avrebbe amato profondamente e custodito gelosamente il tempo vissuto.
«E poi?»
«Ah, rimane poco da dire: si racconta che un giorno sia partita, lasciando a guardia dell’oasi il suo spirito, uno spirito battagliero, che sapeva tenere a bada il deserto.»
Quando arrivava questo momento, per i viaggiatori era ora di partire, lasciando Selima sola a ricordare quello che non poteva raccontare. La verità.
Ogni anno, sempre negli stessi giorni, Selima metteva in una sacca cibo, acqua, una coperta e poco altro e raggiungeva, in una sorta di pellegrinaggio, la collina che nascondeva la grotta dove affiorava la sorgente d’acqua del suo pozzo.
In quella grotta gli acciacchi che ogni anno parevano allungare la strada per arrivarvi, svanivano: nella pozza d’acqua calma che si trovava a fianco della sorgente, non vedeva un viso segnato dal tempo, ma quello di una donna bella e orgogliosa, che aveva accettato di dedicare gli ultimi anni della sua vita a quella sorgente, vivendo in povertà per vegliare sulla ricchezza che scaturiva dalla roccia.
Come era scritto nel suo destino.
Ma quell’anno Selima decise di andare alla grotta anche se il tempo non era ancora compiuto: il livello del pozzo era calato, l’acqua da qualche giorno aveva un sapore strano e il vento portava sentori di odori sgradevoli e pungenti.
Nelle ossa sentiva uno strano presagio e persino il deserto pareva chiedere aiuto: il vento spazzò via la sabbia mostrando chiaramente l’antico passaggio che Selima ben conosceva, scoprendo rocce che le davano riparo durante la notte. Quando finalmente, dopo diversi giorni di viaggio faticoso, Selima arrivò in prossimità della collina sotto cui si trovava la grotta, capì.
Petrolio! Tanto prezioso che qualcuno sfidava il deserto per averlo, incurante di tutto e di tutti. Selima lo aveva già visto in altri luoghi e intuì che presto della collina e della fonte non sarebbe rimasto nulla.
Chiese del responsabile del campo, a cui cercò di spiegare quanto servisse l’acqua al villaggio, all’oasi, ma venne liquidata con poche parole, arroganti e inappellabili: che se ne andasse e subito, la collina era destinata a sparire per far passare l’oleodotto che avrebbe trasportato il petrolio alle raffinerie.
Selima sentì montare una rabbia enorme: si gettò contro l’uomo, tentò di graffiarlo, urlò fino a non avere più voce. Una furia che nessuno volle affrontare: eppure sarebbe bastato poco per fermare quelle quattro ossa fragili e raccontare poi, forse, di un tragico incidente. Persone come Selima non erano mai state un problema per la Compagnia.
Una volta calmatasi Selima tornò mestamente alla grotta, dove fu accolta dal gorgoglio dell’acqua limpida e fredda che scorreva tra i sassi, prima di inabissarsi sotto le rocce e la sabbia. I quarzi che ricoprivano parte della caverna catturarono la luce della lanterna e tutto si trasformò in un mondo fantastico: i colori, imprigionati dalle gocce d’acqua, si trasformarono in arcobaleni.
Dopo una notte inquieta, all’alba Selima prese una decisione: si inchinò alla fonte, recitò per lei preghiere antiche, chiedendo perdono per quanto aveva intenzione di fare.
Si lavò e pettinò con cura, poi da un anfratto della roccia prese un piccolo baule in cui erano riposti un abito, dai disegni complicati e coloratissimi, e un paio di orecchini, due gocce di zaffiro, dal colore intenso e puro.
Una volta pronta, al sorgere del sole, raggiunse una duna da cui poteva vedere il campo e scrisse il suo ultimo nome sulla sabbia, subito cancellato da una folata di vento.
L’ultimo nome per la paura, ma lei non aveva paura.
Nei giorni successivi in quella parte della regione soffiarono venti impetuosi, che impedivano agli operari di lavorare. Si aprivano improvvise voragini che inghiottivano uomini e attrezzature; quando il vento cessava, i macchinari si bloccavano per la sabbia finita tra gli ingranaggi.
Selima restava immobile sulla duna, nutrendosi di quel poco cibo che le era rimasto, in attesa che la furia del deserto prendesse il sopravvento su tutto quello scempio.
Tutto ciò si ripeté giorno dopo giorno e gli operai, anche i più scettici, caddero vittima di antiche superstizioni e finirono per andarsene:
«La donna… la donna ha maledetto questo posto!»
Alla fine un motore si incendiò: le fiamme si propagarono velocemente e quando raggiunsero i canali di perforazione, un enorme esplosione distrusse tutto quanto.
Dal giorno della partenza, di Selima non si seppe più nulla: qualcuno disse di averla vista vagare attorno alla voragine causata dall’esplosione, altri di averne visto il corpo trasportato dal vento, altri ancora di averla incontrata in città, raminga. Ci fu chi rimase per giorni nell’oasi, col fuoco sempre acceso, sperando di vederla tornare.
La grotta era crollata solo parzialmente: qualche tempo dopo un piccolo ruscello si fece largo tra pietre e sabbia e l’acqua, per chissà quale segreto percorso, raggiunse di nuovo l’oasi ridandole vigore. Ricomparvero i fiori, le palme ripresero a fruttificare, piccoli ciuffi d’erba ebbero ragione dei sassi e tutto rimase sospeso nel tempo, in paziente attesa di qualcosa o di qualcuno.
Arrivò una giovane donna, molto bella, dai lineamenti delicati, il portamento severo ed elegante. Portava con sé poche cose: una coperta, una vecchia lampada, una tenda dall’aria vissuta e un bricco per scaldare l’acqua. Riposti in un piccolo baule, un abito dai ricami complicati e antichi e un paio di orecchini, con cristalli limpidissimi, azzurri come i suoi occhi.
A chi le chiedesse il suo nome o da dove venisse, lei rispondeva con un sorriso gentile e un gesto vago della mano magra e nodosa, quasi scacciando quelle domande come mosche noiose.
Forse a confondere, ingannare, erano gli occhi, azzurri, quasi trasparenti, che risaltavano su un viso segnato dal sole e dal vento, ma chi da anni si fermava nella piccola oasi ai margini del deserto giurava di averla sempre vista lì, davanti alla tenda, con un bricco di tè profumato e piccole focacce, da gustare con dei datteri.
Selima, questo era il suo nome, offriva quei doni ai mercanti e ai nomadi che ancora viaggiavano a dorso di cammello con i gesti semplici di chi divide quello che ha con gioia. Ma quando versava l’acqua, i gesti erano solenni, perché un bene così prezioso meritava di essere onorato.
Di sicuro Selima aveva viaggiato molto: narrava di città lontane e di culture a volte bizzarre; per lei raccontare, condividere il suo bagaglio di ricordi ed esperienze era il modo per non scordare nulla di una vita vissuta intensamente.
Ma era la sua storia quella che più amava raccontare, soprattutto a chi si fermava per la notte, una fiaba per grandi e piccini seduti attorno al fuoco, attenti: la sera diventava notte, la notte si faceva alba e gli anni di Selima scorrevano come seta. I bimbi finivano per addormentarsi, ma per i grandi il suono della sua voce era più riposante di qualche ora di sonno.
«Stasera vi voglio raccontare la storia di una bambina, Selima, nata in un villaggio molto lontano, in una notte come questa, con tantissime stelle in cielo e un vento leggero che gironzolava tra le case.»
Nei momenti di solitudine, quando la nostalgia si faceva struggente, la raccontava a sé stessa, sottovoce, arricchendola di nuovi particolari che affioravano inaspettatamente.
Selima era nata in un villaggio adagiato tra colline lussureggianti e le prime propaggini del deserto, annunciato da alture rocciose, rossastre e brulle.
Nacque di notte, una notte straordinaria di cui ancora c’è memoria: in cielo non si erano mai viste così tante stelle e quando si udì il pianto della piccola, l’acqua che, attraverso una fitta rete di canali, irrigava frutteti, orti e giardini, si fece rigagnolo, per non disturbare il riposo della madre. E anche il vento, che da giorni soffiava impetuoso, quella notte si placò.
Era ormai quasi l’alba quando Selima venne presentata al capo del villaggio affinché le fosse imposto il nome scelto per lei. In quel momento in cielo apparvero delle stelle cadenti, che andarono a nascondersi dietro la cima della montagna che si vedeva, netta, in lontananza. Ne contarono dieci.
«Hared, quando sarà il mese del suo decimo compleanno, la dovrai portare al cospetto delle Sagge della montagna, là in cima, per conoscere il suo destino.»
Hared era perplesso: che si sapesse nessuno del villaggio aveva mai incontrato le Sagge e si pensava fosse solo una delle tante leggende tramandate di padre in figlio.
«Ah Selima! Dicono fosse sempre allegra, mai un minuto ferma, curiosa e qualche volta un po’ birichina, come voi; ma era anche studiosa, e bravissima in disegno, sì davvero molto brava.»
«Ma poi suo padre la portò dalle Sagge? Dove abitavano?»
C’erano sempre bimbi impazienti di ascoltare chissà quali avventure!
«Certo! Dovettero andare fin sulla montagna e fu un viaggio faticoso, su sentieri sassosi e ripidi, lungo i quali ben pochi alberi offrivano un po’ di ombra, ma Selima non si lamentò per la fatica perché lamentarsi non accorciava di certo la strada! Le Sagge abitavano una grande casa…»
Le Sagge abitavano proprio in cima alla montagna, in una grande casa di pietra che pareva un fortino, grigia e triste vista da fuori, ma l’interno era curata e accogliente. Nelle stanze grandi tappeti colorati coprivano il pavimento di pietra e nel cortile, dentro grandi vasi colorati, crescevano cespugli rigogliosi e piccole piante di limoni.
All’inizio padre e figlia poterono vedere le Sagge solo da lontano: se ne stavano sedute per ore alle finestre, in silenzio, assorte in meditazione per poi ritirarsi in stanze dove solo loro potevano entrare.
Il cortile si riempì delle risate di Selima, e delle sue proteste quando il padre si rifiutava di portarla nella valletta che conduceva al deserto, come la bimba chiedeva con sempre più insistenza.
Un giorno Hared, preoccupato, ne parlò alle Sagge:
«Selima vorrebbe andare sempre oltre, ma io non mi fido, so quanti pericoli possono nascondersi. Quando torniamo passa ore a disegnare, la sento chiacchierare, ridere e la vedo… ascoltare.»
E porse alle donne dei disegni: c’era sempre il deserto, a volte con semplici tratti per dune e rocce affioranti, a volte ai piedi di montagne disegnate con cura e ricche di particolari.
«Dice che questi luoghi le vengono descritti dal vento, dalla sabbia che si lascia scorrere tra le dita. E che anche voi sentite… cose. Che significa? Ha solo dieci anni, ha sempre vissuto al villaggio… E poi c’è questo.»
Altri disegni, ma con qualcosa di diverso: ai colori bruni e giallastri si erano aggiunte macchie di colore, che Selima spiegò così:
«L’azzurro è il mare, il verde le foreste, il rosso… non lo so, è triste, e il nero fa paura, ma io non ho paura.»
Quella sera le Sagge, dopo essersi consultate a lungo, furono molto chiare con Hared: quei disegni erano la conferma che Selima doveva rimanere con loro, l’avrebbero protetta e dato gli strumenti per affrontare il futuro scritto tra le stelle la notte in cui era nata e che non poteva essere cambiato.
Il giorno dopo Hared ripartì, da solo: Selima lo osservò finché non divenne solo un puntino. Il vento le portò il sapore delle lacrime del padre: non lo avrebbe mai dimenticato.
«Ma cosa faceva tutto il giorno?»
«E a scuola, andava a scuola?»
«Beh, le Sagge erano anche brave insegnanti, sapevano di matematica e di storia, di astronomia e di scienze, avevano tanti libri. Selima imparò diverse lingue, ma anche a ricamare e tessere, a cucinare… insomma non aveva tempo per annoiarsi.»
Crescendo Selima prese l’abitudine di inoltrarsi a cavallo nel deserto, per qualche ora: lì si sentiva davvero libera, viva, in un ambiente solo in apparenza senza vita, dove riordinare pensieri e sogni che affidava al vento.
Il giorno del suo diciottesimo compleanno Selima ricevette dalle Sagge i tre nomi che avevano scelto per lei, dopo averla osservata e studiata: erano nomi importanti, che l’avrebbero accompagnata tutta la vita.
Li dovette ripetere più volte, assieme al significato che essi racchiudevano e al giuramento di utilizzarli solo quando si fosse sentita pronta ad affrontarne le conseguenze.
«Una volta che avrai speso un nome, scrivendolo sulla sabbia, sulla pietra o nell’aria, si compirà una parte del tuo destino e non potrai tornare indietro.»
Qualche giorno dopo Selima partì per la grande città, affidata all’uomo che spesso faceva visita alle Sagge, portando nuovi libri per la biblioteca, giornali e notizie dal mondo, un mondo provato da anni di guerra e con ferite ancora aperte.
«Come spese i nomi, Selima? Cioè un nome è un nome…»
«Oh no, un nome può racchiudere tanto: una speranza, un sogno. Potere. Un potere non sempre comprensibile, come tante cose. Può anche nascondere una persona: la vedi, le parli, poi ti accorgi di non ricordarne le fattezze, la voce, cosa avete fatto assieme. È strano ma è ciò che accadde a Selima.»
Il primo nome lo incise su un sasso preso da un’aiuola davanti all’università e che tenne stretto mentre consegnava i documenti per l’iscrizione al corso di archeologia.
Doveva essere un nome potente, più forte dell’influenza che le Sagge avevano speso perché potesse frequentare scuole di solito riservate all’élite della società. Selima venne accettata, ma tanti furono i malumori, gli sgarbi, le critiche.
Era una donna, destinata ad accudire un marito e dei figli, non ad avere ambizioni.
Quella parte di mondo proprio non riusciva a liberarsi di quel modo di pensare e Selima ne soffriva ma non si arrese: nei momenti difficili si rifugiava fuori città, in un angolo brullo e arido che le ricordava il deserto, che sempre tornava nei disegni che teneva ben riposti in un bauletto.
Il suo primo nome era per una donna amante del sapere e della conoscenza: il giorno in cui le consegnarono, a malincuore, la laurea, il sasso tornò al suo posto, intatto.
Il giorno dopo lesse che in una regione non troppo lontana erano stati aperti degli scavi: mise le sue cose in una cassa e partì. Durante il viaggio in treno provò e riprovò il discorso per presentarsi al dottor Richard Harris, lo studioso che dirigeva i lavori, sperando fosse di mentalità tanto aperta da passare sopra il fatto che lei fosse una donna, oltretutto senza titoli da spendere.
Lo trovò sotto una tenda che stava fotografando alcuni reperti: per calmarsi prese un blocco e alcune matite e in poco tempo i cocci di un vaso sparsi sul tavolo presero vita, persino i fregi scoloriti dal tempo spiccarono come appena dipinti.
«Ma… è bellissimo! E lei chi sarebbe, signorina?»
Nel momento in cui Selima si voltò, i loro cuori si intrecciarono e non si lasciarono più.
Quella sera scrisse il suo secondo nome nell’ultima pagina di un quadernetto, su cui avrebbe annotato nel tempo i ricordi più importanti della loro storia.
Fu un amore travolgente, che diede scandalo: per la differenza d’età, per la posizione di Richard, ricco di famiglia, per l’assenza di un passato di Selima. Ignorarono tutto e tutti e si sposarono, non senza qualche difficoltà. Vissero e lavorarono assieme per più di vent’anni: all’inizio la moglie esotica era oggetto di curiosità, salvo poi scoprirne le indubbie capacità, che nel tempo diedero a Selima un meritato prestigio. Quando decisero di ritirarsi in tanti musei, accanto ai reperti da lui portati alla luce, erano sistemati i bellissimi disegni di Selima, omaggio al passato di tanti popoli.
Per festeggiare il sessantesimo compleanno di Selima, Richard chiese ad un amico di portarla sul deserto, su un piccolo aeroplano. Selima non era preparata a un tale spettacolo: aveva sorvolato altre volte il deserto, ma così da vicino fu un’esperienza unica, quasi toccò con mano il desolato splendore come tante volte aveva immaginato. Le dune somigliavano a onde del mare immobili, cercò strade cancellate dal tempo, accampamenti sepolti dalle tempeste. E i colori del tramonto, con mille sfumature che duravano pochi attimi! Le parve persino di sentire l’odore del deserto.
Selima non riusciva a staccare gli occhi da tanta bellezza e pensò che un improvviso lampo rosso fosse dovuto solo a un riflesso sul metallo dell’ala.
Quella stessa notte Richard morì, nel sonno: Selima ne disperse le ceneri nel deserto e poi partì, portando con sé poche cose e nel cuore un dolore immenso.
Si dimenticarono di lei, come era scritto nelle stelle.
Viaggiò per alcuni anni, rimanendo sempre ai confini del deserto, fermandosi in piccoli villaggi, aggregandosi alle carovane di mercanti che ancora resistevano e che volentieri la ospitavano nelle loro grandi tende, in cambio di un ritratto, di uno dei suoi disegni così realistici, di una storia.
Il silenzio le dava pace e i ricordi tornavano nitidi e consolatori.
Addentrandosi qualche volta nel deserto le capitò di ritrovare i resti di uomini e donne traditi da quella distesa immensa di sabbia e rocce, che pensavano di conoscere così bene. Inutile dare sepoltura a quei resti, che forse nessuno aveva cercato: Selima raccoglieva quel che restava dei loro averi, qualche piccolo gioiello, un diario, una sciarpa e li lasciava su una bancarella o a un mendicante.
Assegnava a ogni tappa il ricordo di un momento particolare vissuto con Richard, il nome di una città che avevano visitato, felice di averne tenuto nota.
Forse fu il caso o il destino, ma arrivò all’ultimo foglietto proprio il giorno in cui si fermò in quell’oasi. Accese un fuoco e bruciò una paginetta per volta: non ne aveva più bisogno, i ricordi erano ben chiusi nel cuore, intoccabili. Quel giorno decise che il suo vagare era terminato e che quella sarebbe stata la sua casa.
Sull’ultima pagina aveva scritto tanto tempo prima il suo secondo nome, quello di una donna che avrebbe amato profondamente e custodito gelosamente il tempo vissuto.
«E poi?»
«Ah, rimane poco da dire: si racconta che un giorno sia partita, lasciando a guardia dell’oasi il suo spirito, uno spirito battagliero, che sapeva tenere a bada il deserto.»
Quando arrivava questo momento, per i viaggiatori era ora di partire, lasciando Selima sola a ricordare quello che non poteva raccontare. La verità.
Ogni anno, sempre negli stessi giorni, Selima metteva in una sacca cibo, acqua, una coperta e poco altro e raggiungeva, in una sorta di pellegrinaggio, la collina che nascondeva la grotta dove affiorava la sorgente d’acqua del suo pozzo.
In quella grotta gli acciacchi che ogni anno parevano allungare la strada per arrivarvi, svanivano: nella pozza d’acqua calma che si trovava a fianco della sorgente, non vedeva un viso segnato dal tempo, ma quello di una donna bella e orgogliosa, che aveva accettato di dedicare gli ultimi anni della sua vita a quella sorgente, vivendo in povertà per vegliare sulla ricchezza che scaturiva dalla roccia.
Come era scritto nel suo destino.
Ma quell’anno Selima decise di andare alla grotta anche se il tempo non era ancora compiuto: il livello del pozzo era calato, l’acqua da qualche giorno aveva un sapore strano e il vento portava sentori di odori sgradevoli e pungenti.
Nelle ossa sentiva uno strano presagio e persino il deserto pareva chiedere aiuto: il vento spazzò via la sabbia mostrando chiaramente l’antico passaggio che Selima ben conosceva, scoprendo rocce che le davano riparo durante la notte. Quando finalmente, dopo diversi giorni di viaggio faticoso, Selima arrivò in prossimità della collina sotto cui si trovava la grotta, capì.
Petrolio! Tanto prezioso che qualcuno sfidava il deserto per averlo, incurante di tutto e di tutti. Selima lo aveva già visto in altri luoghi e intuì che presto della collina e della fonte non sarebbe rimasto nulla.
Chiese del responsabile del campo, a cui cercò di spiegare quanto servisse l’acqua al villaggio, all’oasi, ma venne liquidata con poche parole, arroganti e inappellabili: che se ne andasse e subito, la collina era destinata a sparire per far passare l’oleodotto che avrebbe trasportato il petrolio alle raffinerie.
Selima sentì montare una rabbia enorme: si gettò contro l’uomo, tentò di graffiarlo, urlò fino a non avere più voce. Una furia che nessuno volle affrontare: eppure sarebbe bastato poco per fermare quelle quattro ossa fragili e raccontare poi, forse, di un tragico incidente. Persone come Selima non erano mai state un problema per la Compagnia.
Una volta calmatasi Selima tornò mestamente alla grotta, dove fu accolta dal gorgoglio dell’acqua limpida e fredda che scorreva tra i sassi, prima di inabissarsi sotto le rocce e la sabbia. I quarzi che ricoprivano parte della caverna catturarono la luce della lanterna e tutto si trasformò in un mondo fantastico: i colori, imprigionati dalle gocce d’acqua, si trasformarono in arcobaleni.
Dopo una notte inquieta, all’alba Selima prese una decisione: si inchinò alla fonte, recitò per lei preghiere antiche, chiedendo perdono per quanto aveva intenzione di fare.
Si lavò e pettinò con cura, poi da un anfratto della roccia prese un piccolo baule in cui erano riposti un abito, dai disegni complicati e coloratissimi, e un paio di orecchini, due gocce di zaffiro, dal colore intenso e puro.
Una volta pronta, al sorgere del sole, raggiunse una duna da cui poteva vedere il campo e scrisse il suo ultimo nome sulla sabbia, subito cancellato da una folata di vento.
L’ultimo nome per la paura, ma lei non aveva paura.
Nei giorni successivi in quella parte della regione soffiarono venti impetuosi, che impedivano agli operari di lavorare. Si aprivano improvvise voragini che inghiottivano uomini e attrezzature; quando il vento cessava, i macchinari si bloccavano per la sabbia finita tra gli ingranaggi.
Selima restava immobile sulla duna, nutrendosi di quel poco cibo che le era rimasto, in attesa che la furia del deserto prendesse il sopravvento su tutto quello scempio.
Tutto ciò si ripeté giorno dopo giorno e gli operai, anche i più scettici, caddero vittima di antiche superstizioni e finirono per andarsene:
«La donna… la donna ha maledetto questo posto!»
Alla fine un motore si incendiò: le fiamme si propagarono velocemente e quando raggiunsero i canali di perforazione, un enorme esplosione distrusse tutto quanto.
Dal giorno della partenza, di Selima non si seppe più nulla: qualcuno disse di averla vista vagare attorno alla voragine causata dall’esplosione, altri di averne visto il corpo trasportato dal vento, altri ancora di averla incontrata in città, raminga. Ci fu chi rimase per giorni nell’oasi, col fuoco sempre acceso, sperando di vederla tornare.
La grotta era crollata solo parzialmente: qualche tempo dopo un piccolo ruscello si fece largo tra pietre e sabbia e l’acqua, per chissà quale segreto percorso, raggiunse di nuovo l’oasi ridandole vigore. Ricomparvero i fiori, le palme ripresero a fruttificare, piccoli ciuffi d’erba ebbero ragione dei sassi e tutto rimase sospeso nel tempo, in paziente attesa di qualcosa o di qualcuno.
Arrivò una giovane donna, molto bella, dai lineamenti delicati, il portamento severo ed elegante. Portava con sé poche cose: una coperta, una vecchia lampada, una tenda dall’aria vissuta e un bricco per scaldare l’acqua. Riposti in un piccolo baule, un abito dai ricami complicati e antichi e un paio di orecchini, con cristalli limpidissimi, azzurri come i suoi occhi.