Emanuela cara, sorella amata… cosa ti hanno fatto?
Questo grido echeggia nelle mie orecchie e nel mio cuore ininterrottamente dall’altra sera.
Ci sono momenti in cui mi prende lo sconforto - lo so non dovrei - ma è così.
Però sono proprio questi i momenti in cui ti sento più vicina che mai, presente con una forza vivida che mi fa male e mi fa bene allo stesso tempo.
Cosa ti hanno fatto? Cosa VI hanno fatto!
Cerco dentro di me il modo per trovare un senso a queste domande, per trovare un perché a un dolore che altrimenti rischia di annientarmi.
Quanto sarebbe bello potersi annientare per qualche ora, per qualche giorno, ma non posso! So che tu non lo vorresti, so che devo stare vicino a mamma e papà.
Ringrazio il Cardinale per le parole che ha avuto per te e per Carlo Alberto, parole in grado di infondere un po’ di serenità pur in un momento così drammatico.
Parole in grado di trasformare il dolore cieco, folle dell’altra sera, il dolore che mi ha congelato il cuore e fatto gridare per la prima volta contro quel Dio in cui ho sempre creduto! Quel Dio che ha mandato il suo Figlio a morire in croce per la nostra salvezza e che, sono certo, avrà già accolto tra le sue braccia voi due suoi figli che avete sacrificato la vostra vita nel tentativo di regalare a tutti noi un futuro migliore.
L’altra sera…
Lo squillo del telefono e dopo qualche minuto l’urlo disumano di mamma.
Io e papà siamo corsi entrando contemporaneamente nella loro camera, la mamma era seduta sul letto, la cornetta del telefono ancora stretta tra le mani, lo sguardo fisso, perso nel vuoto.
Ho capito immediatamente, non c’è stato bisogno di chiedere, il sangue mi si è gelato nelle vene e ho sentito le ginocchia che cedevano… ho fatto appena in tempo ad appoggiarmi al letto.
In queste ore rivivo in continuazione quel momento… e piango, piango tantissimo Emanuela cara, come l’altra sera non sono riuscito a fare.
Lo sai che né ieri né oggi ho trovato la forza di entrare nella camera da letto di mamma e papà?
Sì, proprio la camera che aveva sempre rappresentato per noi due un luogo sicuro, dove trovare rifugio dalle nostre paure, dalle nostre inadeguatezze.
Ricordi Emanuela quando facevamo un brutto sogno da bambini e correvamo a rifugiarci nel lettone con loro?
Ricordi quando, per seguire le orme di mamma, hai deciso di lasciare l’Università per prendere il diploma di infermiera volontaria della Croce Rossa?
Era una domenica mattina come tante altre, noi tutti insieme nella loro camera e tu, con voce rotta dall’emozione, ci hai comunicato quello che avevi già deciso: come mi sono sentito orgoglioso di te in quel momento!
E mamma e papà hanno capito.
Chissà quanta sofferenza stavi loro provocando con quelle parole, eppure non hanno detto nulla ma hanno accolto te e la tua decisione tra le loro braccia, sul loro lettone.
Sì, tesoro mio, quando penso alla camera da letto di mamma e papà, la penso come un luogo di pace e di amore, di accoglienza e di consolazione ma io in questo momento non riesco nemmeno a pensare di entrarci nuovamente.
Non ho la tua forza, Emanuela cara, la tua determinazione!
La determinazione con cui hai perseguito e raggiunto l’obiettivo di unire il tuo amore per i cavalli al lavoro di infermiera con i bambini disabili.
Il centro di ippoterapia che hai creato nella caserma a Milano e che mi piacerebbe tanto un giorno portasse il tuo nome; come è giusto che sia visto che proprio tu, lavorando con i bambini, hai capito prima di molti altri i benefici che i disabili e gli autistici avrebbero ricevuto da questi splendidi animali.
Ti ho seguita ammirato e, perché no, anche un po’ invidioso - oggi posso confessartelo - in questa tua battaglia vittoriosa; e sì, ho fatto il tifo per te! Perché anche se non capivo ancora bene tutti i benèfici effetti di questa pratica, mi è stato sufficiente vedere quanto tu ci hai creduto e quanto di te stessa ci hai investito per essere certo che non poteva essere solo un tuo capriccio.
Guarda Emanuela quante persone sono venute oggi in questa splendida Basilica a rendervi onore e a sottolineare con affetto e commozione, faccio mie le parole appena pronunciate dal Cardinale, la forza ideale che vi ha portati ad esporvi ai pericoli, anche i più gravi, per essere fedeli alla missione che avete ricevuto.
Queste persone sono qui a gridare forte che quanto avete fatto non può essere cancellato e che la speranza deve tornare a fiorire nei nostri cuori.
Solo tu non tornerai, non puoi più tornare.
Tu che mi hai insegnato cosa significa amore, cosa vuol dire amare.
Amare qualcuno fino a donare sé stessi, fino al sacrificio supremo: l’amore per il tuo Carlo Alberto!
L’ho visto nascere, Emanuela, il vostro amore: ricordo esattamente la sera in cui lo hai invitato per la prima volta a casa nostra, era il compleanno di mamma.
Vi davate ancora del lei, eravate due sconosciuti che stavano imparando a conoscersi.
A un certo punto lui ha fatto un complimento a mamma e papà per lo splendido giardino della nostra casa in centro.
Il giardino, l’orgoglio di papà! Aveva voluto quella casa proprio per il suo immenso giardino in cui lui poteva dar libero sfogo alla sua passione per le piante tropicali.
Tu hai preso la palla al balzo proponendo di farglielo visitare con un entusiasmo che ci ha colti di sorpresa.
Ricordo che dopo un po’ sono venuto a cercarvi per fare il brindisi di auguri alla mamma e vi ho scorti dietro alle grandi foglie di un banano… vi ho osservati da lontano e ho intuito che tra voi stava nascendo qualcosa di importante nonostante la sua ritrosia di fresco vedovo e la tua timidezza di fronte a una personalità del suo calibro.
Galeotto fu il giardino! potrei dire parafrasando il Sommo Poeta…
È diventato il vostro rifugio segreto in cui coltivare con discrezione quel sentimento così bello, così vero che alla luce del sole avrebbe fatto parlare troppo, considerata la vostra differenza di età.
Anche mamma e papà non ne volevano sentire parlare e ricordo il fermo rifiuto di quella sera quando Carlo Alberto, senza più armi di difesa di fronte all’amore che avevi fatto crescere in lui, si è presentato, infine, in salotto a chiedere la tua mano: “e io lo sposo lo stesso” hai detto sedendoti sulle sue ginocchia e guardandoli fisso negli occhi.
Lo hai sposato in una piccola località del Trentino, lontano dal clamore e dalla folla mediatica che in quei giorni aveva occhi e cuore solo per Paolo Rossi e per i suoi gol e che chissà quanto avrebbe ricamato attorno alla storia della giovane infermiera che sposava il famoso e attempato Generale.
Perché il vostro era un amore vero, puro, profondo che rifuggiva dalla notorietà per rifugiarsi dentro i vostri cuori.
Perché nei vostri cuori c’era sovrabbondanza di tutto il bene che avevate da donare e avete donato fino all’ultimo respiro.
L’ultimo respiro che vi ha colti abbracciati in un’anonima via di Palermo, nello stretto abitacolo della tua auto crivellata dai colpi.
Un abbraccio, il più splendido gesto di amore, come ultimo tentativo di protezione dalla cattiveria di un piccolo e gretto mondo di uomini chiusi e malvagi.
Uomini che non hanno saputo trovare nei loro cuori nemmeno una minima parte di quell’amore così bello di cui tu Emanuela sei stata una delle massime espressioni umane sulla Terra.
Ed è proprio abbracciati che voglio immaginarvi ora, accarezzati dallo splendido sorriso di Dio; e io oggi, davanti a questa immensa folla riunita per darvi l’ultimo saluto, ti chiedo di guardarmi sempre da lassù e di darmi la capacità di essere, per quanto piccolo e indegno, un messaggero dell’amore vero quanto lo sei stata tu.