Mi sento molto fortunato perché dipingo, e perché farlo è il mio lavoro.
Non sono bastate una lunga depressione e un paio di malattie quasi mortali a farmi perdere il gusto della vita. Se cerco nei miei dipinti, trovo il panorama desolante di tutte le tristezze passate. Ecco perché ci vado con i piedi di piombo a cogliere significati. Ogni volta che mi addormento ho paura di smettere di respirare, non mi fido troppo del mio sonno. Mi sta venendo la stessa zoppia che aveva mio padre negli ultimi anni di vita. A ricordare bene, nemmeno zoppicava, camminava con il busto piegato a sinistra dopo una caduta. Mia madre non lo voleva più nel letto, per qualche vecchio rancore, e perché russava troppo forte.
Lui, tutte le sere, se ne andava a dormire nella mia vecchia cameretta, dove c’era il mio ritratto da militare e una scrivania di legno impellicciato con in bella mostra il mio passato scolastico, sulla quale nessuno poggiava un foglio da anni.
Lo so che sto dando un’immagine triste del mio passato, ma così era e io non ho più voglia di raccontare falsità.
Più di una volta papà era caduto dal letto con la rete smollata, e quando, pure in piena notte, mia madre mi chiamava, correvo a sollevare il suo corpo assente e obeso e a rimettergli la testa sul cuscino. Lo sanno tutti come vanno a finire queste cose, qualche acciacco si mischia al diabete, alla pressione alta, e nella coppia anziana uno diventa l’infermiere dell’altro. Quanto è ripugnante la vecchiaia!
Ma voglio raccontare una cosa bella, o almeno che a me è sembrata bella.
Non mi importava che il vecchio proprietario di quella casa si fosse suicidato per debiti, l’unica possibilità di fuggire agli strozzini era quella e lui l’aveva usata. Una specie di eroe al rovescio, e i suoi figli, incompatibili con quella storia, vendevano il suo appartamento al piano terra con giardino per quattro soldi, pur di liberarsene.
Io non sono mai stato capace di fare affari, tutt’altro, mi volevo solo allontanare da mia madre che per troppo amore e troppa vecchiaia mi trattava come un bambino. Povera mamma.
Gettare un ponte tra la mia vecchia vita e quell’appartamento con giardino non serviva a niente e così ricominciavo da capo, che quando uno dice che ha ‘ricominciato da capo’, significa che è solo come un cane.
Seduto davanti a una delle mie tele in giardino, il primo barlume di vita condominiale l’ho avuto con la signora del piano di sopra, dopo che aveva annaffiato me, prato, e panni stesi.
Ho urlato così forte che mi sono spaventato.
Ho visto sporgersi dalla ringhiera del balcone una testolina rossa che urlava un: ‘Che guaio ho combinato, pensavo fosse disabitato.’
Bagnato come un uccellino, mi sono sorbito le sue spiegazioni senza aver chiesto spiegazioni.
Con una asciugamano sulla spalla, la radiolina portatile in mano che sibila fuori stazione, le dico che purtroppo non è disabitato, e se sarebbe riuscita mai a perdonarmi.
Non percepisce la mia ironia, ma si affretta a promettere di ripassare il mio bucato nella sua lavatrice.
Abbassando la voce, le ho detto che non avrei mai ‘affidato’ le mie mutande ‘inaffidabili’ a una sconosciuta.
Il suo viso, da lontano, mi ricorda le facce intagliate nelle zucche arancioni di Halloween.
Occhietti spiritati sbucano fuori da due fessure. Il naso, talmente piccolo, non appare, le orecchie pure spariscono sotto i capelli che hanno consistenza e colore del pelo di una pannocchia di mais.
Però dentro la zucca c’è luce. Voglio dire che tutto sommato è più quella luce interiore che la fa somigliare a una zucca illuminata, e non lo dico per bontà.
La visione è talmente strana e bella che ci resto male.
L’intera gamma delle mie perplessità si fa viva quando mi accorgo, nei giorni successivi, che la sua testolina appare e scompare tutto il giorno sul balcone a osservare il mio giardino. In uno sviluppo dell’azione, che si rivelerà piuttosto comico, le prometto di fare un piano a piedi per portarle una busta con le mie mutande da risciacquare.
Quando suono alla sua porta di sera, la busta di plastica scrocchia e non riesce a nascondere la bottiglia di brandy, souvenir di una vacanza recente in Spagna, e una piccola rosa bianca, spaventata dalla siccità del mio giardino.
Lei mi fa capire che non sopporta gli attacchi esagerati e che se volevo un rimborso in denaro per quel guaio con la biancheria stesa, non avrebbe avuto problemi a darmelo. Forse lo dice perché sono poco presentabile, vestito da far schifo con la solita camicia di jeans e i soliti pantaloni di jeans, pure stropicciati. Più che un artista visionario sembro uno spaccalegna smarrito nel bosco.
Per non agevolare la morte delle buone maniere, pentita per la sua durezza, produce con voce flebile e melodiosa l’invito a bere insieme un bicchiere di quel brandy e a mangiucchiare semini e mandorle italiane. Non mi capitava spesso di fare una cena decente, ma quella che si prospettava a base di bruscolini, mi appariva come una riunione tra criceti ambosessi, e sarei fuggito ancor prima di entrare.
Giorgia aveva la gonna corta che mostrava le gambe belle. E per come era lei fisicamente mi aspettavo paesaggi esotici, nudi, o almeno vedute più azzardate.
Invece le sue pareti sono tappezzate da oblò di icone sacre e visioni di presepi natalizi illuminati.
Viste da vicino, delicate e commoventi Madonnine con il Bambinello in braccio, si guadagnano comunque la mia approvazione artistica.
Ignorando il panico chimico dei miei polmoni, rimango accanto al racconto della semplice di Giorgia, al suo fumo di tre sigarette, alla sua ossessione religiosa, alle sue gambe accavallate, per almeno un paio di ore. Scopro che fa l’infermiera in un ospedale grande, pure famoso.
Proprio sotto c’è il mio giardino che conosce a memoria, e lei, dopo un finto sguardo fugace, si ripromette di aiutarmi a metterlo in sesto, se mi fa piacere.
Ci salutiamo con garbo e distanza, per timidezza non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello di darle un bacio sulla guancia.
Due giorni dopo le mostro un suo ritratto veloce, fatto soprattutto per scherzare sulla sua passione per le madonnine. Il suo viso appare radioso, è vestita di bianco e celeste.
La sua commozione straziante alla vista del ritratto mi fa pentire di averglielo mostrato, e l’unica cosa che riesco a dire è che ancora non è finito.
Lei si mette a togliere le erbette infestanti del prato con esagerata devozione, intorno al ritratto ancora fresco sul cavalletto, fa diventare lucida pure l’erba.
Da quel giorno, non sono più solo a riempire la lavastoviglie, a mettere in frigo i cubetti di plastica per il ghiaccio da mettere nel brandy che beviamo tutte le sere, a bere caffè.
Dopo lo scarno territorio umano, Giorgia si dedica all’esplorazione della camera da letto, e io mi sento un vermetto senza tempie a guardare il suo viso floscio di nuove lacrime quando con una scusa provo a riconquistare una sera in libertà. Affiora, spaventosamente rapida, la sua paura di essere abbandonata.
Quando le chiedo informazioni sull’inquilino precedente, arrossisce, si accende una sigaretta, si accosta a me con una confidenza senza precedenti. Ma non credo che abbia cose da farsi perdonare.
Ogni volta scopro una seconda, una terza Giorgia.
Comunque, per usare le feroci parole di mia madre, far entrare una donna in casa era stato solo ‘gusto mio.’
Un giorno la ‘quarta Giorgia’, dopo aver tolto i guanti di due ore di giardinaggio, mette le mani poco pulite sulla mia bocca prima di baciarla con affettuoso furore, sussurrando a me che non avevo toccato un filo d’erba, che sono buono, bello e bravo come Gesù.
Io non ci provo nemmeno a ridere, sarebbe stata una catastrofe, si sarebbe offesa da morire.
Zitto, mi tengo tra le labbra il sapore del caucciù dei suoi guanti da giardinaggio, e penso che una donna così un Gesù se lo sarebbe proprio meritato per come era ingenua e dolce.
Barcollante, disidratata e stanca, dopo aver sistemato tutta la casa si tuffa sul mio letto e guarda distrattamente la tv incassata nel mobile bar di legno, mentre mastica mentine.
Non me la sento di definirla un caso clinico, piuttosto di avere molte tenebre nascoste nel suo cervello, sì.
Settembre millenovecentottantadue, la luce del lungo tramonto ostacola la luce della mia tv che trasmette la prima puntata del Maurizio Costanzo Show in diretta dal Teatro Parioli. Lei implora il mio dovere di starle accanto visto che c’è tra gli invitati quell’attore comico che piace a tutt’e due.
Quando le chiedo come mai sia così radiosa per una cavolata simile, lei risponde con voce esperta e professionale che non è una cavolata il Maurizio Costanzo Show, ma qualcosa di epocale per la nostra tv.
Comincio a pensare che tutto il suo trasporto per ogni banale avvenimento possa dipendere dai suoi problemi riproduttivi, perché è più facile che io sbatta la faccia su un muro che lei rimanga incinta, anche se avevamo preso a fare l’amore con trasporto e passione, tutte le sere.
Quando, da bambino, chiedevo contento a mia madre come mai la nostra cagnetta meticcia aspettasse continuamente dei cuccioli, con formidabile asciuttezza rispondeva che tutti i cagnolini che passavano nel parco la baciavano perché era tanto dolce.
Io mi facevo bastare quella risposta e felice non chiedevo più niente a nessuno. Non mi riesce, ora, di capire tutte le difficoltà ad avere quello che Giorgia e io desideriamo tanto. Mi viene voglia di contattare uno specialista. Per lei e per me.
Mentre i suoi piedi nudi combaciano con la risacca pelosa del tappeto accanto al letto, penso improvvisamente che non le avrei fatto più dire che non esisteva un uomo capace di volerle bene. Nel suo ritratto avevo temporeggiato sulle sue imperfezioni, le avevo perfino accentuate. Le guance scavate, gli occhi infossati, il sorriso con i denti scuri di nicotina, e quell’accenno di lampi di vene varicose sulle gambe. Mi vergogno se ora penso a quanto siano perfette quelle imperfezioni che avevo dipinto.
Sento lo stesso indolenzimento alla schiena che mi veniva durante le gite scolastiche, a forza di modificarlo. Sento la stessa timidezza e paura.
La sua maglietta celeste sembra una pozzanghera tra le mie ginocchia, mentre la osservo. Mentre aggiusto il vecchio dipinto. I suoi lineamenti nel ritratto sono diventati amorevoli e materni.
Senza scadere troppo nei sentimentalismi, mi piacerebbe vederla sommersa da tanti bambini che saltano sul prato. Mi piacerebbe vederla ciabattare per casa con le mani sui fianchi eternamente incinta.
Mi piacerebbe vederla lavare piatti sporchi di minestrina e biberon ancora zuppi di latte in polvere.
Mi piacerebbe vederla con la maglia spiegazzata, tirata sopra i gomiti ruvidi.
Mi piacerebbe vederla più grassa, con i capelli arruffati, e gli zigomi rossi di felicità.
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