Sono nato debole, sotto una pioggia funesta. Non emisi un lamento. Nessuno mi sentì piangere. Solo Thanatos mi sorrise subito. Pronto a pasteggiare con il mio esile corpo danzò intorno al mio letto.
Misteriosamente sono cresciuto ma ero sempre debole. Una debolezza sottile e insidiosa, in una pioggia di lacrime. Un’infermità del corpo e dell’anima.
Ho vissuto i primi anni da sepolto ancora in vita, prigioniero di un corpo debilitato. Ossa fragili. Busto stretto. Addome ampio. Gambe arcuate. Un corpo che agognava la morte e si aggrappava alla vita.
Ho imparato dai colori a sopravvivere. La prima volta che ne ebbi la conferma fu il giorno in cui mi spostarono in giardino. Mi stesero lì e poi se ne andarono. Io tenni gli occhi serrati per la troppa luce ma quando li riaprii l’infinità delle tinte che aveva la vegetazione mi travolse. Ovunque si posasse il mio sguardo era una festa di colori. Fui presto invaso da un senso di euforia e calore. Perfino la luce aveva un colore! Anzi non ne aveva uno erano tanti. Un mosaico di tinte senza fine. Tutti simili tra loro che si fondevano insieme di continuo. Quella cascata di tinte, tutte quelle sfumature mi invasero... Erano tanti... Troppi.
Iniziai a sudare. Segno della fatica e della mia malattia. Qualcuno mi riportò nel mio cubicolo. Stavo male nel corpo ma ero felice nell’anima. La polis brulicava di vita mentre io restavo nel mio anfratto con gli occhi colmi di tinte.
Ho imparato così che i colori che vedo sono come la mia vita. Un misto tra le gioie di sublime lucentezza e abissi oscuri angoscianti in continuo mutamento.
Allora decisi che avrei amato la vita come amavo i colori. Loro mi hanno ridato la forza per superare la mia infermità.
Ogni giorno, ogni notte in ogni istante ho amato i colori.
La mia vita e la mia morte. La mia malattia, la mia guarigione.
Il cibo è stato il mio primo pigmento. Non ho mai avuto tanto appetito, quindi spesso mi ritrovavo a mescolare le pietanze con l’acqua, poi a fatica mi spostavo verso la parete e rimanevo lì a tentare di riprodurre la varietà di toni che vedevo in giardino.
Le dita sono stati i miei primi pennelli. Esili. Esitanti. Le muovevo con gran fatica mescolando il cibo di continuo. I fiori. Le corolle e le foglie erano i miei soggetti preferiti.
Quella parete divenne il mio giardino. E quando non mi spostavano all’aria aperta rimanevo lì ammirando i colori cambiare a seconda della luce.
La pittura è diventata l’unica ragione per aspettare la divina Aurora. Aurora che sembrava non arrivare mai.
Ahimè quel pigmento si spense presto. I fiori sulla parete persero la lucentezza che io gli avevo donato, quindi anche il mio spirito divenne cupo.
Passai le giornate sul mio giaciglio. Immobile. In silenzio. Arrabbiato.
Mater era sempre con me. Con il suo volto assente. Le sue mani rigide. Mi fissava e non diceva nulla. All’ora dei pasti portava la scodella piena e non faceva domande quando se la riprendeva intatta. Albus era la sua tinta. Opaca e spenta.
Pater invece era come il color nigrum. Il bagliore della sua anima era scuro ma brillante.
Anche se non osava mai entrare nel mio cubicolo lo vedevo spesso osservare soddisfatto la parete. In quei momenti avrei voluto che mi dicesse qualcosa ma non lo faceva mai.
Io ero immobile senza forze. Avrei urlato se ne fossi stato capace.
Volevo il colore. La mia esistenza anelava la mia medicina.
Allora pregai intensamente Aprus. Signora delle corolle. Mi dissero che vegliava sui fiori in attesa della schiusa. Mi sollevai con fatica. Scesi dal mio giaciglio mentre il cubicolo vorticava intorno a me. Non riuscii a inginocchiarmi quindi mi buttai al suolo con la faccia schiacciata sul pavimento e le sottili braccia rivolte al cielo.
Le chiesi di schiudere i petali della mia anima, in cambio avrei onorato solo i suoi fiori con le mie tinte.
Rimasi lì a piangere ancora per molto. Ma quando il mio spirito stava per tornare presso gli Dei, Pater mi sollevò da terra. Mi caricò sulle spalle e mi portò nell’ officinae coriarorium.
Quella conceria era così piena di tinte e sfumature che appena varcata la soglia provai disagio e angoscia. Un’odore pungente mi fece lacrimare gli occhi. Mi sentivo assalito. Sudai. Come succedeva sempre quando mi affaticavo.
Volevano portarmi via ma io incominciai a indicare con il dito i colori. Lacrime di gioia rigarono il mio volto e per la prima volta mangiai con voracità il pasto che mi servirono.
Passai la giornata a chiedere il nome di ogni singola sfumatura ma mi resi conto che gli altri non vedevano le differenze che vedevo io. I miei occhi vedevano colori che nessuno vedeva. Erano solo miei e sarebbero stati il mio segreto.
Mi comprarono i primi pigmenti così passai interi pomeriggi in giardino tra gli alberi da frutto e i cespugli aromatici ma soprattutto assimilavo il colore di ogni singolo fiore. Tenevo strette nella mente le loro sfumature e poi quando venivo trasportato nel mio cubicolo riversavo tutto sulla parete.
È così che il mio giardino prese vita. I colori animarono lo spazio rendendomi vivo.
La pioggia era battente quando vidi per la prima volta delle persone entrare nel mio cubicolo in compagnia di pater.
Successe ancora. Questa volta ero in giardino e non venni invitato a partecipare.
Io non ero mai invitato. Quando poi la gente usciva dal mio spazio la rabbia mi faceva star male così da rendermi infermo per giorni.
Pater e Mater mi lasciavano solo sempre più spesso. Non dicevano nulla pur continuando i loro affari con le persone le cui vesti diventavano via via più ricche di sfumature e pregiate.
Ero intento ad offrire il mio pasto in offerta ad Aprus, quando i miei genitori entrarono nel cubicolo. Dissero le poche parole che avveravano ogni mio desiderio. Era giunto forse per me il momento di sbocciare?
Ruber. Auripigmentum. Cyaneus. Virdis. Purpureus.
Ora che i colori avevano un nome, quello divenne il mio nuovo linguaggio. Essere un apprendista parietarius mi permise di riempire la vita degli altri con le mie tinte. Mescolavo con le mani i pigmenti per creare le sfumature segrete. Quelle non avevano un nome ma donavano forza ai miei dipinti. Quella forza poi mi alimentava e mi sostentava.
Rimanevo però un giovane e debole disegnatore. Non vivevo con gli altri compagni. Oltre al giardino e al cubicolo ora venivo solo trasportato nelle domus. Mi posizionavano davanti alla parete e io non dovevo far altro che mischiare i pigmenti e dipingere i miei fiori.
Il mio mondo era tutto lì. Riempivo il mio corpo di quello.
Attraverso i miei occhi nutrivo il mio spirito.
Se divenni altro io non lo saprò mai. Gli occhi che si posavano su di me erano sempre compassionevoli e tristi. Eppure pater cominciò a sorridermi più spesso mentre mater indossava abiti più lussuosi. La sua espressione non mutò mai, eccetto quella volta in cui un lampo dorato le illuminò il viso.
Il giglio sacro a Giunone è candidus.
Aureus è invece il colore delle splendenti ginestre.
Il giacinto è laracinthinus.
Rosa...
Rosa perché non trovo la tinta che possa renderti onore?
La domus più bella della polis aspetta il mio tocco. Quella stanza da letto merita la tinta perfetta ma tu rosa non sembri averne.
Nei giardini le tue sfumature non sono mai come le immagino. Impasto con le dita la polvere di minium con gli altri pigmenti ma la tinta non è mai giusta.
Tornano i sudori. Tremano le membra. Le mani lavorano ma gli occhi non sono sazi.
Sono qui da giorni.
La stanchezza ha sgretolato, ha disintegrato la volontà di resistere.
Mi sono arreso al dolore.
Disperazione.
Una disperazione così intensa che nessun colore può descrivere.
Io non ho disegnato semplici fiori. Io ho ornato le pareti di questa polis con tutto me stesso perché sono fragile proprio come loro. Pieno di colore ma soffro al minimo tocco. Io ho narrato il dolore dipingendo corolle.
Ho pregato l’intero pantheon ma è giunto il momento di pregare te, Iride. Ancella di Giunone e messaggera di sventura.
Ti supplico di avvolgermi nella tua luce iridescente e scuotere il mio corpo stanco.
Porta un messaggio agli Dei e salvami. Liberami da questo fardello terreno e fa che di me rimanga polvere.
Oh Dei scuotete la terra!
La terra trema. Le pareti si incrinano. La gente urla. Un boato fa sussultare il cubicolo. Anche se sono stanco mi sollevo e con fatica mi trascino in giardino.
Gli Dei hanno ascoltato la mia supplica. È stato Vulcano il più tempestivo. Il monte si spacca e il colore divampa.
Negli occhi ho una tempesta di scintille ma la gioia invade il mio corpo malato.
Eccolo!
Il colore che andavo cercando è quello. Avvampa. Cambia e risplende.
Flammeum! Come il velo che indossano le spose. Oh monte stai forse annunciando le mie nozze con la vita?
No! Aspetta. Il bagliore è meno intenso. Ora il colore è diverso. Sei una tinta nuova, calda e vibrante. Finalmente riesco a vederti.
Pater! Mater! Venite. Correte. È apparso il colore. Venite a vedere! È quello il colore che cercavo. Svelti chiamate il patrizio. Che qualcuno mi porti nella sua camera. Ho bisogno di poco tempo, mischierò i pigmenti giusti e poi la luce potrà tornare nella mia vita.
Pater? Mater? Perché non rispondete? Dove siete? Vedete che sono in piedi. Le gambe tremano ma ora che vedo il colore tutto sarà diverso, potrò continuare a disegnare. Mangerò! Sì. Mangerò tutto quello che vorrete. Ma venite, presto!
Pater? Mater?
Una nuova scossa e dallo squarcio si eleva una nube. Si lancia in su come un altissimo tronco poi si apre in diversi rami. Sembra un pino funesto e cinereo.
Eccoli che tornano i sudori. Il morso allo stomaco mi sfianca. Il cielo si fa grigio. Il grigio divora ogni colore. Il fumo è denso. Mi lacrimano gli occhi.
Se solo vi avessi vicino. Se soltanto mi accarezzaste almeno una volta nella vita. Allora, solo allora allontanerei questo fumo grigio che invade e mi riempie. Potremmo essere felici insieme. Ma invece sono solo. Lo sono sempre stato ma credevo che in questo momento sareste stati con me. Invece siete andati via.
Sono il fiore che non è mai sbocciato, la corolla in attesa che la primavera giunga.
Ma rimarrò chiuso. I colori non ci sono più. La vita non c’è più. È giunta l’ora di lasciarsi divorare dal fumo grigio.