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Qui comincia l’avventura, nel lontano 2007
Dovrei andare a letto: sono decisamente fusa.
Il lavoro nobiliterà pure, ma dovrebbe avere una sorta di allarme e avvisarti quando stai arrivando a livello.
Invece il livello arriva, lo superi e mai nessuno che ti avvisi.
Oppure ti avvisa, ma piano piano, che ne senti solo una vaga eco e quando realizzi, ciao bella!
«Bene, Cocca: dopo pensieri come questi non dovresti aprire la posta elettronica, ma chiudere baracca e burattini e andare a dor-mi-re.»
Ogni tanto parlo con me stessa, l'amica immaginaria funziona sempre.
«Invece mi faccio del male e vado a vedere se qualcuno mi ha pensato.»
Le news delle case editrici, un po' di spam, mio marito che mi gira dei file divertenti.
Nient'altro.
Cosa mi aspetto?
Molto semplicemente che un piccolo, piccolo miracolo accada.
Beh, magari miracolo è una parola esagerata. Diciamo che una piccola botta di vita si materializzi, va bene? Sognare non è ancora proibito e sui sogni - quelli veri - la finanziaria non è ancora riuscita a metterci le tasse. Anzi, li alimenta per bene. Perquindi.
Perquindi un bel niente.
«La news che aspetti, cara Cocca, latita.»
È già passato un mese da quando ho deciso, almeno per una volta, di seguire l'istinto, senza pensarci troppo. Punto.
Però adesso ci penso ogni giorno, e ripensando a cosa ha scatenato il tutto, mi viene la tentazione di pensare di aver sbagliato alla grande.
Ma non me lo voglio permettere: per una volta voglio pensare – ribadisco il voglio – di aver fatto la cosa giusta.
O la meno sbagliata?
E se era meglio comportarsi da persona saggia e consapevole dei propri limiti?
E se, dopo aver cercato da sempre di non farlo, mi sono resa assurdamente ridicola?
E se magari è stata la scelta giusta?
Macchecavolo di confusione mi sto portando dietro! Roba da dover pagare il biglietto doppio per farci un giretto.
I pensieri, quando li lasci liberi, possono trasformarsi in armi pericolose. Associali ai ricordi e sono una calamità. Se poi il tutto accade in un periodo in cui stai cominciando a tracciare la riga per fare il conto della tua vita, apriti cielo. Disaster recovery. La traduzione non serve.
Ci pensavo giusto stamani in autobus, diretta in centro per l'ennesima riunione (crescete e moltiplicatevi, dice l'agenda).
Di solito quei venti minuti di frenate e rotonde con saltino mi rilassano: mi piace osservare le case, i palazzi, le villotte e immaginare come possono essere "dentro", decidere dove mi piacerebbe abitare, se in quella villetta liberty con la torretta così adatta ad uno studiolo, oppure in quell'appartamento ombreggiato dalle fronde di quei grandi alberi.
O magari in quei vecchi palazzi del centro storico, dove si può avere la sensazione che il tempo si sia fermato, dove le mura sono impregnate di vecchi odori di cera per mobili, di petrolio per le lampade. Di muffe antiche. Di passato che ha lasciato il segno.
Stamattina non funzionava. Per di più ho fatto l'errore di ascoltare le chiacchiere di due ragazze dall'aria sofisticata e con la puzza sotto al naso.
Una voleva "fare le sue esperienze, esponenziali al percorso di vita che la sua coscienza le stava dettando a gran voce" – non potrei giurare su tutte le parole, ma il non senso era lì, forse – l'altra voleva andare a vivere da sola, la famiglia le soffocava le aspirazioni (qui magari Pinkett potrebbe anche dire che ho il senso della frase), la madre le impone ruoli non suoi, per esempio rifarsi il letto e prepararsi la colazione.
Poi si è ricordata che per uscire con le amiche quel pomeriggio le serviva la camicia bianca con il bordino blu, e allora telefona alla "mamma", che – dal tono sempre più incavolato della leggiadra fanciulla – non ci pensava assolutamente a stirargliela.
«E' a casa tutto il giorno a non far niente, e non mi stira la camicia! Vedi perché me ne voglio andare!»
A questo punto, fossimo stati in un film, avrei preso il telefonino della leggiadra e lo avrei lanciato dal finestrino, dieci secondi di espressioni stupite e a seguire la borsettina firmata, alla prima fermata sgambetto. Eh, quando ci vuole, ci vorrebbe.
Invece ho preferito allontanarmi dalla tentazione vivente e mi sono lasciata andare ai ricordi, a quei ricordi che si stanno trasformando in delusioni, in occasioni mancate, in recriminazioni.
Contestazioni? Cosa vuoi contestare a due genitori che litigano di continuo? Che sei stufa? Che non vuoi comportarti da "grande"? Per poi sentirsi in colpa, visto che nonostante tutto si fanno in quattro per non farti mancare niente?
E le amiche? Sono diventata interessante quando hanno saputo che avevo il ragazzo, la prima compagna di scuola a sposarsi! La più bruttina, forse. Di sicuro non la più simpatica.
Parlare di ragazzi, di cinema, di fotoromanzi, di jeans di marca a me non interessava, quindi ero tagliata fuori. A me piaceva leggere, studiare non mi pesava e quella barriera tra me e loro forse me l'ero anche cercata, assumendo qualche volta assurdi atteggiamenti di superiorità, parlando solo di compiti in classe e di libri, per mascherare un'enorme insicurezza e solitudine.
Cosa potevo dire loro? Che non uscivo la domenica perché paventavo l'ennesimo litigio dei miei? Sai che risate! I libri - che non erano un alibi, ne ho letti davvero tanti in quegli anni - divennero la scusa per passare i pomeriggi sul divano o in giardino.
Poi il matrimonio, le responsabilità, il lavoro ecc. ecc. e i sogni sono rimasti sogni, senza neanche un cassetto dove poterli ritrovare.
Per fortuna è arrivata la mia fermata, e quel che ne consegue.
Attenzione ai marciapiedi pieni di buche, alle biciclette che si credono pedoni, ai pedoni che hanno il telefonino al posto del cervello, ad auto con tanti cavalli sotto al cofano e un asino al volante.
Non mi va neanche di dare un'occhiata alle vetrine, così eleganti e anonime in questa elegante e tutto sommato anonima città. Bellissima, ancora a misura d'uomo dicono.
Ma sarà vero?
Mi piace essere puntuale alle riunioni, se posso in anticipo. Ne approfitto per un salutino ai colleghi che sento svariate volte al giorno per telefono: una stretta di mano, una battuta, di sicuro mi porterò via qualche cosa di nuovo su cui lavorare.
«Ma come fai a stare dietro a tutto?»
«Senti, dobbiamo parlare di… ma prima ci sarebbe… prima di andar via ti fermi un attimino?»
Ma alla fine mi sento sempre "una di campagna", tagliata fuori dai giochi che danno visibilità, una che magari si saluta cordialmente o a cui dare un minimo di importanza così poi si dà da fare perché per un attimo la sua umanissima vanità è stata lusingata da un complimento, magari gratuito.
Mentre aspetto i colleghi lascio incautamente che questi pensieri prendano piede: sempre così, quando sono stanca, quando la tensione del lavoro comincia a spadroneggiare. Mi faccio del mobbing da sola. Da non crederci.
Ultimamente mi faccio troppo spesso domande sibilline e pericolose.
Blocco per gli appunti, biro, occhiali da lettura.
Nel kit di sopravvivenza c'è il solito assortimento di cose di chi sta fuori tutto il giorno.
Prova a scipparmi, se ci riesci: piombi lì sul marciapiede, mentre il motorino prosegue, solitario.
Da qualche mese anche LUI, IL libro.
Che storia! Aver letto centinaia di libri, tomi da 500 pagine, una miriade di personaggi che mi hanno fatto sognare e un libricino da 124 pagine mi ha stregato a tal punto che non solo lo porto con me sempre, ma l'ho riempito di frange colorate, sottolineature, evidenziato le frasi più belle, così secche e dure eppure così delicate.
Mai fatto prima, al massimo il libro del momento lo tenevo a portata di mano in cucina, sul comodino.
LUI sta assumendo un'aria simpaticamente vissuta: qua e là alcuni ritagli di giornale, un numero di telefono in un angolino, la foto di Lisa come segnalibro.
Arrivano gli altri e quel momento tutto per me finisce.
«Senti Cocca, la vogliamo dire tutta? Scrive bene, storie vere…»
«Ma mi sto illudendo che abbia il tempo di leggere il mio lavoro, vero?»
«Eh, sì. Temo tu ti stia illudendo. A parte il suo lavoro, che lo sai non ha orari da cartellino da timbrare, avrà una vita privata, i suoi impegni di scrittore che ce l'ha fatta. Magari pisola anche lui sul divano. Il tempo è quello che è per tutti.»
«Però…»
«Però, però: adesso sembri proprio una bambina a cui hanno promesso qualcosa, quel qualcosa tarda ad arrivare e sta cominciando a pensare che non arriverà più.»
Eh, già! L'incauta promessa!
Ma pensa te, da qualche mese faccio cose in cui non mi riconosco pienamente.
Ottobre 2006
Leggo un libro, QUEL libro! Comprato abbastanza per caso, assieme a quelli di due o tre autori mai sentiti, appuntati velocemente una domenica.
Lo rileggo. Subito. Difficile che rilegga un libro, magari qualcosa qua e là. Questo devo rileggerlo dalla prima all'ultima pagina.
In quelle 124 pagine passaggi esilaranti e dei gran magoni (nodi in gola con lacrime allegate) per frasi secche e dure eppure delicatissime.
Decido di raccogliere la sfida che l'autore lancia nella sua prefazione
"Quindi sappiatelo, e consideratemi pure presuntuoso, ma io non scrivo per voi. Scrivo per me e, al limite, per un'altra persona che può capire. Spero di conoscerla un giorno…"
e gli scrivo. Una settimana per mettere a punto una valanga di parole, quindici riletture, la lettera imbucata e la consapevolezza che l'impiegata delle poste non me l'avrebbe mai restituita.
Neanche pregandola in ginocchio.
Novembre.
La sua telefonata!
Un'emozione da gola secca, da frasi stupide e scontate, il suo "mi piace come scrivi, magari una letta al tuo romanzo ce la posso dare" mi manda definitivamente in tilt.
Meno male che ero seduta. Quella sera spezzatino bruciacchiato per cena.
E proprio quella sera il PC decide di dare forfait.
Il terrore di perdere tutto, l'affanno di rimetterlo in sesto, di finire quella storia complicata che non girava come volevo. Ma adesso gira, mannaggia se gira: deve girare, devo finirlo.
Il mio romanzo, a cui sto lavorando da un anno, che ho iniziato a scrivere senza nè arte né parte, partendo da una scena ben precisa, una situazione in cui erano concentrate tutte le sensazioni di quel periodo. Pagine e pagine di situazioni che si lasciavano costruire solo quando ogni tassello era a posto.
Il mio sogno, anzi il mio diario. Diario intimo di un'indagine banale.
Un giallo, che forse non smaschera un colpevole, ma le mie debolezze e i miei desideri di protezione e di chissà cos'altro. Un noir, per la cappa di inquietudine, di ansie che mi attanagliavano in quel periodo.
Una storia che si era fissata dentro di me nello spazio di un battito di ciglia, ma che era stato complicato far uscire e mettere in ordine.
Personaggi che si sono lasciati scoprire giorno dopo giorno, giocando a rimpiattino con la mia inesperienza, premiandomi quando finalmente imparavo qualcosa.
Ma il finale si faceva beffe di me, mi sfuggiva: un passo avanti e lui era due passi più in là.
Ma quella telefonata, e quel libro, quell'uomo dentro al libro, mi avevano dato la spinta giusta.
Adesso però devo trovare il coraggio di infilarlo in una busta, scrivere un indirizzo e spedirlo.
«Portarglielo no eh? Magari sarebbe stato più educato.»
«Già. Ma torniamo alla mancanza di coraggio, a quelle stramaledetta fissa sulla propria inadeguatezza, inferiorità. Sull'essere inopportuna. Sfacciata?»
«Ma te l'aveva proposto lui, mica glielo hai chiesto tu!»
«Ma davvero? Sai che non me n'ero accorta?»
Tre o quattro mesi dopo un collega mi porta un articolo. Vicino a Piacenza, mica tanto lontano quindi, è stato organizzato un seminario: alcuni sceneggiatori e scrittori mettono a disposizione la loro esperienza e un po' del loro tempo ad appassionati di giallo.
Ci sono anche loro, quei due scrittori mai sentiti prima e di cui avevo ormai letto tutto quello che ero riuscita a trovare, interviste comprese.
Da non crederci: neanche un attimo di esitazione e telefono subito per iscrivermi, così non avrò scuse per abbandonare.
Il seminario è di poche ore, giusto un'infarinatura, un'idea, ma va bene così.
Sono di campagna, ve l'ho detto.
Mi organizzo faticosamente per un giorno di ferie.
Auto lucida che sembra abbia appena staccato l'assegno per la concessionaria: non che serva avere l'auto sfavillante, ma una lavatina ci voleva. Mi disturbava andarci con l'auto sporca.
Maglietta nuova, felpina nuova e vai!
Sono di campagna, mi ripeto.
Venerdì. Il pomeriggio è diventato sera, il programma è stato stravolto dall'assenza di uno degli sceneggiatori e la parte che mi interessava viene spostata dopo cena.
Cena? Un gelato e un caffé!
Poca brigata, gente in gamba e io mi sono sentita viva, colorata.
Sono persone "importanti" dal mio punto di vista, ma alla mano, pazienti e disponibili.
Jeans, magliette, niente appunti e ottima dialettica. Ma soprattutto conoscono il mestiere e le insidie degli inizi, le fatiche e le delusioni. Le trappole.
Però ce l'hanno fatta. E sono lì a raccontarla.
Appunti su appunti, consigli e suggerimenti che sembrano tanto ovvii, ma sentiti raccontare hanno tutta un'altra valenza.
La sera è diventata notte. Poco traffico, la strada è nera, ma mi sento leggera, euforica, elettrizzata.
Patetica. Ma sono di campagna.
Sabato sera. Incontro con gli scrittori piacentini. Manca Lucarelli, sarà per un'altra serata. Però c'è Lacquaniti.
Sabato mattina ho trovato una sua mail, un invito all'incontro.
Ci salutiamo. È la prima volta che ci incontriamo. Una stretta di mano. "Piacere di conoscerla." "Ce l'ha fatta a venire." "Ma non ci davamo del tu?" "Oh sì, è vero."
Due secondi per un'impressione che mi rimarrà dentro forse per sempre.
Un uomo tutto d'un pezzo. Mi è passata davanti agli occhi l'immagine di un albero in mezzo alla campagna, di quelli un po' tozzi, ma forti e con radici profonde per reggere a venti e intemperie.
Una serata piacevole, interessante e con tanti altri spunti da annotare.
Poi, mentre il pubblico si prepara ad uscire curiosando tra i libri in vendita, scambiamo due chiacchiere, mi presenta pure la fidanzata a cui ha fatto leggere le mie riflessioni sulle cose che ha scritto.
«Le hai fatto leggere quelle robe lì? Ma dai!»
«Alle fidanzate è meglio non nascondere niente! Scusa…» Telefonino. Forse lavoro, chissà magari domani o dopodomani sarà sul giornale, pagina della cronaca, in conferenza stampa: ladri, spacciatori, violenze.
Beh, alla fine, proprio mentre fa capolino quel pizzico di imbarazzo normale in certe situazioni, acchiappo un po' di coraggio che passa di lì per caso, MOLTO per caso e gli allungo la busta con il mio TDR e con i CD della colonna sonora che avevo creato: un brano per ogni capitolo. Alan Parson Projet, Phil Collins, Brian Adams, Ligabue, Bolton..
«Bene, bene… mi vado subito a cercare il finale!» La voce è un po' metallica, strana.
«E no, non vale! Comunque, non lo troveresti facilmente!»
«Dici che è meglio leggerlo tutto? OK.»
La gente migra, arrivano persone a salutarlo, scambio due parole con alcune persone conosciute il giorno prima e poi, via, come una lepre.
La notte era tiepida, limpida e il giorno dopo ho cominciato ad aspettare.
Aspetta e spera.
Intanto comincio ad accorgermi di come mi sento vuota adesso che ho finito il romanzo.
I personaggi mi mancano. Le situazioni mi mancano.
Lo rileggo e mi accorgo che va sistemato per bene, ma non apporto modifiche: aspetto le sue dritte, sugli errori che sicuramente ci sono sulle metodologie di indagine, magari mi dirà che i poliziotti mica si possono comportare come mi sono inventata.
Rileggo i capitoli che mi avevano impegnato di più, che avevo limato e rilimato tante volte, scopro frasi che non ricordavo: mi piacciono, era proprio così che dovevano essere, ma me ne accorgo solo adesso.
Provo a leggerlo come se fosse uno dei tanti libri in attesa di lettura: non è poi malaccio, lascialo lì ancora un po’, fatti le ossa su qualcos'altro, poi lo riprendiamo, cosa dici?
Provo ad imbastire dell’altro, ogni notizia strana o pensiero vagante è buono per un tentativo e mi rendo conto che l'aver letto tanto non è poi così determinante per il "saper scrivere": certo aiuta, adesso leggo anche diversamente per imparare. Ma non basta.
Forse, con umiltà, sarebbe meglio imparare qualcosa su come costruire il proprio stile, su quali sono gli errori più frequenti, su come affinare la tecnica.
Parole, appunti del seminario, pensieri. Imparare.
Imparare. Bella parola.
Ma se sbaglio e nessuno mi corregge o mi indica la strada giusta, l'avventura tra i tasti che senso ha? Se davvero voglio provarci, anche verso gli altri, cara ragazza bisogna riprendere a studiare.
Autodidatta, sperimentazione, tentativo: quelle poche ore del seminario mi hanno dato una bella carica, certe sensazioni, idee che mi gironzolavano attorno sono state confermare anche da "professionisti".
Comandano i personaggi, finchè non li lascerete liberi di esprimersi le frasi non gireranno, la storia vi sembrerà assurda anche se ce l'avere tutta lì davanti!
Non tutto quello che finisce sulla carta serve, occorre avere il coraggio di scrivere e buttare, scrivere e limare.
Tecnica, serve anche quella. La spontaneità, ok. Lo stile, eccome. Ma bisogna curare il tutto, dargli il giusto equilibrio.
Solo che in città non trovo traccia di corsi di scrittura: ne avevano tenuto uno l'anno prima, ma con orari non proprio agevoli per chi abita fuori città.
Poi una sera trovo una mail dal sito OZOZ: la pubblicità di un corso di scrittura on line…
Che faccio? Mi informo?
Ultima modifica di Susanna il Sab Set 04, 2021 9:59 pm - modificato 1 volta.