- Contesto:
- Vorrei presentare il racconto Nerdy per sempre ai curatori della seconda antologia LeiXLei ma mi è stato chiesto un grosso lavoro di riscrittura. Per chi non l'avesse mai letto o non lo ricordasse, il racconto è su SPS: https://scrittoripersempre.forumfree.it/?t=78154713
Intanto ho riscritto tutta la prima parte e adesso sto riscrivendo la seconda. Il racconto riscritto ha quasi raggiunto le trentamila battute per cui ho pensato di dividerlo in tre episodi:
1. Prologo: tutto ciò che non ho mai raccontato della protagonista
2. Festa: la festa, rivista e corretta
3. Appuntamento: l'appuntamento, rivisto e corretto.
Volevo capire con il vostro aiuto se sto andando nella direzione giusta.
Se fossimo stati solo noi avrei risposto: “Il Signore è grande!” Invece eravamo a casa dai cugini e preferii fare di sì con la testa, lasciando a loro l’incombenza di parlare.
Mamma non perse l’occasione per dire: «Blessing, fa’ sentire bene la tua voce.» Cavolo, avevo quindici anni e non la sopportavo quando mi trattava come una bambina; ma piuttosto che fare la figura di risponderle a tono davanti agli altri preferii stringere i denti e far finta di niente.
Per fortuna Zia Rebekah iniziò a sparecchiare e ne approfittai per alzarmi e aiutarla a lavare i piatti.
Mi chiamava Benedetta e le volevo bene anche per questo; mi facevo chiamare così anche dai vicini di casa e dai compagni di scuola, che poi in realtà mi chiamavano Benny quando andava bene. Altrimenti come soprannome mi beccavo Nerdy, perché una volta ero arrivata a scuola con una maglia oversize e una gonnellina plissettata che, insieme agli occhiali quadrati, mi avevano fatto sembrare Velma di Scooby-Doo in versione africana.
Io e zia parlavamo in italiano, anche perché spesso mi confidavo con lei e speravo così che i miei non capissero.
Arrivai presto al dunque, a voce bassa ma cinguettante: «Domenica pomeriggio vado a una festa con le mie compagne di classe.»
Sorrise e mi guardò: «Ma dai. E mamma? »
«Ha detto di sì.» risposi, quasi saltellando di felicità.
«E dove la fanno?»
«A Città Giardino.»
Zia Rebekah fece un’espressione incredula: «Ah, però; il quartiere dei ricchi!»
Non mi piacque la sua reazione e le feci il muso: «Zia!»
«E chi ci va? Li conosci?»
«Tutte le compagne di classe. I maschi no.» Lo dissi così, senza malizia.
Zia fece una faccia strana: «Ma che festa è, solo con le femmine?»
«Ma no; i maschi ci sono ma di un’altra scuola.»
«Ah! Meno male. Chissà che conosci un bravo ragazzo, allora.»
«Zia!» Girai la testa il meno possibile per scoprire se i miei avessero sentito. Sembravano ancora concentrati nei loro discorsi.
«Che c’è? Ormai hai l’età giusta per un fidanzatino.»
«Zia, per favore.» Con le mani feci il gesto di chiudere il discorso.
«Ma perché, ce l’hai già?»
Feci “Noo!” col labiale. Non capivo perché insistesse. Poi ad alta voce e giungendo le mani: «Basta.»
Alzò le spalle e cambiò discorso: «E come ci vuoi andare alla festa?»
«Non lo so… con papà?»
Rise. «Ma no, come ci vuoi andare vestita?»
Già, che scema! «Con la maglia e la gonna?» In realtà il look non era mai stato tra le mie priorità, ma avevo sentito le compagne parlare di abiti e camicie; mi era venuta l’agitazione perché non avevo nulla di quel genere in armadio.
Zia schioccò la lingua un paio di volte. «Ti sembrano cose adatte per una festa a Città Giardino? Io non voglio che la mia nipote preferita vada a una festa vestita come una stracciona!»
«Cosa dici!» Pensavo davvero che esagerasse.
«Sul serio! Sabato pomeriggio ti vengo a prendere e andiamo a comprare un bel vestito!»
Beh, la prospettiva di uscire a fare acquisti mi eccitava, però non mi sembrava educato farlo notare subito: «Ma no.»
«Non voglio sentire storie! Domenica devi essere sistemata per bene altrimenti ti diseredo! Perciò preparati, che domani andiamo in giro per negozi.»
Mi arresi senza altra resistenza. «Grazie, zia!»
Del resto, le uniche cose eleganti che avevo erano quelle per la funzione della domenica, che però erano troppo africane e mi sarei vergognata a morte di indossarle alla festa.
Zia mi portò in un negozio nigeriano talmente pieno di vestiti che non sapevo come muovermi. Cercavo di farmi più piccola che potevo e facevo un passo alla volta guardandomi intorno per paura di rovesciare qualcosa. Zia invece non si faceva problemi a spostare o contendere gli appendiabiti alle altre clienti. Dopo aver provato un casino di camicie senza che nessuna mi piacesse, ecco che trovai un abito arancione, senza scollo, sopra il ginocchio, che mi fece brillare gli occhi. In camerino mentre lo indossavo pregai che andasse bene e infatti mi stava da dio! Almeno finché non mi guardai di profilo.
Insomma, io mi vedevo il culo grosso con qualunque cosa e zia ebbe il suo da fare per convincermi che davvero quell’abito sembrava tagliato su misura per me. Invece io mi immaginavo alla festa sempre con le spalle al muro per non mostrare l’ingombrante dettaglio, se lo avessi indossato. Alla fine uscimmo dal negozio con un paio di décolleté nere semplici con tacco comodo, collant velati della serie “non fanno il culo, vero?” e una pochette antracite perché nera non c’era ma tanto non si nota. E, non era per niente scontato, anche l’abito arancione.
Zia volle farmi un’altra sorpresa: aveva prenotato dalla parrucchiera. Era una vita che tenevo i capelli lunghi; la mia più grande conquista? Durante le medie avevo ottenuto la grazia di non fare più le treccine. Da allora portavo sempre i capelli raccolti: una, due o tre code, a seconda di come mi girava quando li lavavo. Ma adesso? Era il momento di fare una pazzia? Be’ alla fine pensai alla reazione di mamma e papà, quindi niente stirature né colori; però feci un taglio corto.
Quando vidi il risultato mi sembrò perfino troppo corto. Alla parrucchiera dissi, quasi sottovoce, che mi piaceva ma con zia, mentre tornavamo a casa: «Io domani alla festa così non ci vado!»
«Ti conviene andarci, invece; perché lunedì dovrai comunque tornare a scuola.»
Volevo sprofondare! «Noo! Che ho fatto?»
«Allora?»
La peggior soluzione che mi venne in mente: «Mi presti la parrucca?» Che poi era un improbabile caschetto nero, ma qualunque cosa pur di coprire il disastro.
Zia rise.
Tirai su il cappuccio della felpa e mi affossai nel sedile della Ka rossa.
«Vedrai che domani ci saranno tanti cuori infranti. Fidati di me.»
«Non m’interessa!»
«Non t’interessa perché hai già un fidanzatino? Adesso me lo puoi dire.»
«No.»
«E allora perché?»
«Ma non lo so, non m’interessa!»
«Guarda che non c’è niente di male ad avere il fidanzatino alla tua età.»
Sbuffai. «Che scatole. Mi basta mamma per questi discorsi.»
Fece l’offesa. «Perché? Non vuoi parlare di queste cose anche con me?»
«Non voglio parlare di queste cose e basta. Mi dà fastidio.»
Zia sogghignò. «Fastidio? Mi sa che forse devi ancora crescere da questo punto di vista.»
Schioccai la lingua. «Sono grande, invece!»
Infatti sognavo già di dare il mio primo bacio e a volte ci stavo male per non averlo ancora dato. Pensai che forse ero fatta strana io, ma per il momento non avevo trovato nessuno che mi facesse battere il cuore.
A casa, chiusa la porta, con mamma che mi guardava come per capire cosa ci fosse sotto il cappuccio, scoprii la testa incassandomi nelle spalle.
Mamma non si mise a urlare; mi guardò a bocca aperta e disse: «Stai bene.»
Mio fratello James si mise a ridere; gli avrei tirato addosso quello che tenevo in mano, ma mamma gli gridò: «Ti faccio sputare l’inferno, buono a nulla! Mostra rispetto per tua sorella maggiore.»
James mi salutò, io lo benedii e lui sparì in camera sua.
Ripresi un po’ di coraggio.
Strano, ma anche papà non trovò niente da ridire. Mi prese solo un po’ in giro dicendo che avevo perso metà della testa per strada; che lì per lì ci rimasi male, ma almeno non si era arrabbiato.
Superai pure la prova della funzione evangelica: la figlia del pastore a certe cose non può sfuggire e mi trovai diversi minuti al centro dell’attenzione per via del nuovo taglio. Poi per fortuna tutti a casa propria, a parte Zia Rebekah e una sua amica che, anziché farsi i fatti loro, dopo pranzo decisero di aiutarmi con il trucco.
Mamma insisteva a dire: «Poco, che sei ancora una ragazzina.» E io ne avevo già abbastanza. Poi non sopportavo quando mi toccavano gli occhi ma dovevo restare ferma; una tortura!
In più non avevo gli occhiali; li portavo solo alla mattina a scuola ma poi al pomeriggio e alla domenica stavo senza, perché tanto da vicino ci vedevo bene lo stesso e da lontano era tutto solo un po’ annebbiato ma pazienza.
Insomma, quando alla fine indossai i collant velati e l’abito arancione sembravo davvero un’altra persona. Mi guardai allo specchio e pensai che stavo proprio bene. Magari se la natura mi avesse concesso un filo di culo in meno… non chiedevo poi molto, no?
Fu a quel punto che mio padre si rese davvero conto di ciò che mi era successo nelle ultime ventiquattro ore.
«Mamma di Blessing!» Quando la chiamava così era presagio di qualcosa di brutto e mi irrigidii. «Ma va bene così?»
«Sì, papà di Blessing. È una festa elegante.»
«E dov’è questa festa?» Terza volta che sentivo lo stesso discorso.
«A Città Giardino.»
«Ma ti devo accompagnare fino là?»
«No, l’appuntamento è davanti a scuola e poi andiamo tutte insieme con il papà di una.»
«Ma…»
«Papà, dai!»
«Blessing ha ragione,» intervenne mamma. «Sono giorni che parliamo di questa festa. Se avevi qualcosa da dire dovevi dirla prima. E adesso andate, che fate ritardo.»
Papà continuò con l’interrogatorio anche in auto. Cercai di mantenere la calma perché erano le cose che mi avevano chiesto già mamma e zia ed ero stufa di ripetere sempre le stesse risposte.
«Non mettermi giù proprio davanti scuola, per favore.»
«Va bene qui?»
«Sì, grazie.»
Ecco. Non so cosa possano aver pensato le mie compagne di classe nel vedere una ragazza nera vestita elegante scendere da una Mondeo panna, salutare dal finestrino il conducente e dirigersi verso di loro. All’inizio credevo che stessero guardando l’auto, così mi girai e feci cenno a papà di andare.
Poi fu evidente che mi stavano guardando in silenzio con sguardo interrogativo, come se davvero stessero guardando un’aliena. Per fortuna che i tacchi erano bassi perché mi tremavano le gambe e mi sembrava di dover inciampare a ogni passo.
«Ciao.» le salutai.
Cate fu la prima a sgranare gli occhi: «Oddio, ma sei la Nerdy?»
Feci di sì con la testa e, dopo un attimo di silenzio, le compagne si misero a parlare tutte insieme, senza neanche darmi il tempo di rispondere.
«Dove lo tenevi nascosto questo vestito? Ti fa un fisico… complimenti!»
«Di’ la verità: sei la sorella della Benny, non ci credo.»
«Cos’hai fatto ai capelli? Ti stanno da dio così corti.»
«Pure le décolleté col tacco.»
«E gli occhiali? Dove li hai lasciati?»
Ma davvero ero così diversa? Insomma, lì per lì fui felice del mio successo, ma l’agitazione aumentò anziché diminuire. Dubitai di me stessa chiedendomi se fosse tutto ok o se avessi esagerato con i cambiamenti e non spiccicai parola nel tragitto dalla scuola a Città Giardino.
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