Pettinengo 21 maggio 1968
Mamma carissima,
ti sento affaccendata in cucina a preparare la colazione e già mi arriva l’odore del caffè mentre, chiuso in bagno, sto tentando di scriverti una lettera d’addio e non so come cominciare. Ascolto Il gocciolare del rubinetto della vasca che papà non è stato in grado di riparare né di trovare un idraulico capace di sostituirlo. Per forza, oggi tutti vogliono fare gli impiegati e scovare un operaio diventa un’impresa.
Da alcuni minuti guardo il foglio bianco, mi mancano le parole perché non ne trovo di neutre che non ti facciano male; il foglio resta bianco e i minuti passano goccia a goccia.
Faccio fatica a scrivere perché sto pensando al percorso che mi aspetta quando uscirò di casa. E mi viene in mente la strada dei tessitori, di cui mi parlavi da bambino.
Ricordi la fiaba di Martino che ogni giorno si alzava all’alba e da Pettinengo, attraverso il sentiero dla turbin passando per il Santuario di Banchette e la frazione Romanina, raggiungeva la fabbrica? Mi raccontavi le sue avventure nel bosco e la meraviglia del telaio meccanico, più facile da manovrare di quello a mano. E io volevo diventare come Martino, ma quando lo dissi, mi guardasti con disappunto dicendomi: no, amore mio, tu farai l’impiegato.
Quanto sto per dirti è la fine del progetto che hai coltivato per me e di cui sei così fiera, certa ormai che l’obiettivo, a cui hai mirato con tutte le tue forze e tanti sacrifici, sia ormai raggiunto, ma non è così, mamma. Il posto fisso, la sicurezza dello stipendio di bancario è sempre stato il tuo sogno, non il mio.
No, non sognavo proprio di contare banconote e mettere bolli, non mi piace il lavoro allo sportello e neanche quello di contabile in amministrazione, chiuso in ufficio tutto il giorno. Eppure da due anni faccio questa vita da recluso. Sono passato dalla scuola alla banca, non appena conseguito il diploma di ragioniere. Una gran fortuna, eh?
Ho appena vent’anni, mamma, e già hai in mente un altro progetto per me, mi dispiace deluderti, ma ho un programma diverso.
Non ho intenzione di mettere su famiglia e sposare Rosetta, la tua candidata pura siccome un angelo, che al più si lascia toccare le tette e strilla come un’aquila se solo tento di metterle una mano tra le cosce.
Non voglio diventare come mio padre, non credo più alla sua falsa autorità, nei suoi occhi spenti leggo solo frustrazione e autocommiserazione nei tuoi. So che nascondi la pietà per te stessa approvandoti nello specchio che ti riflette con il cappotto di pelliccia o mentre dal balcone guardi soddisfatta la millecento nuova, parcheggiata in strada. Per te sono simboli dell’agiatezza raggiunta, per me sono solo cose di nessun valore.
Non vuoi vedere il fermento che agita il mondo, ti spaventa e storci il naso se ti capita tra le mani un giornale con le foto di quel che succede nelle università italiane, per non dire di quelle francesi o americane. Il tuo commento è sempre lo stesso: giovani scapestrati, la finiranno prima o poi!
Non è così; sono giovani che vogliono contare, che non si accontentano di adattarsi alla società, vogliono cambiarla.
Perdonami, mamma, se voglio essere protagonista della mia vita, se per la prima volta voglio essere io a decidere. L’ho fatto ieri: mi sono licenziato, ho deciso di unirmi a quei giovani. Come loro, ho abbastanza tempo anche per la galera, se sarà necessario, sono pronto a tutto: alla lotta, perfino alla violenza.
A te sembrerà una follia, per me è una scelta di libertà. Tra il ruolo di vittima e quello del carnefice preferisco la parte del boia.
Ma tu non puoi capire, perciò non pensare a me, rimani tranquilla in questa bolla di paese coi suoi quartieri sonnolenti, senza barricate, senza granate. Non temere: il fuoco risparmierà la millecento di papà, nessuno tirerà uova marce sulla tua pelliccia nuova.
Papà sembra felice quando firma cambiali, felice di possedere subito quello che pagherà a poco a poco; non capisce che è una trappola del sistema neocapitalistico per vendere e produrre sempre di più sulle spalle degli operai. Io detesto il consumismo perché ci permette di consumare anche quello di cui non abbiamo bisogno; non serve a noi, ma ai padroni.
Io vado via. Ti prego, mamma, non criticare quello che non puoi capire, non posso continuare a obbedirti, sono ormai oltre, al di là dei tuoi comandi, non seguirò la tua strada e se non puoi darmi una mano, almeno non intralciarmi, io seguirò un cammino diverso perché i tempi stanno cambiando.
Quando leggerai questa lettera, io sarò lontano e tu piangerai.
Non sai quanto mi dispiace darti questo dolore, ma devo seguire la mia strada come tutti gli altri giovani che vogliono avere un ruolo nella società, nella politica, nella cultura. Sono anni che la rivolta è iniziata e non solo il Italia, ma in tutto il mondo.
Tanto impulso creativo arriva anche qui. Non in paese. A Pettinengo o nei piccoli comuni tutti sembrano dormire, ma esperienze locali di impegno politico, come quelle di un giornalino studentesco, di movimenti progressisti o di rivolta, proliferano ovunque. La parola d’ordine è: studenti e operai uniti nella lotta. Questa è la novità. I collettivi operai- studenti e i contenuti di queste lotte, vengono adattati alle situazioni locali.
Povera mamma. Ti parlo di collettivi universitari e tu non sai nemmeno cosa siano e non sai che esiste il collettivo Valsessera. Cerco di dirtelo in poche parole: gli studenti si avvicinano alla politica e agli operai, le esperienze e le elaborazioni teoriche delle università incalzano in valle per rendere coscienti gli operai del loro potere e lottare per una organizzazione nuova, autonoma dal movimento operaio ufficiale.
L’operaio di oggi non è più il Martino della tua favola. Non più l’operaio di mestiere orgoglioso del suo lavoro; lo hanno svegliato le lotte degli operai tessili nel 1961. Sì, proprio qui, anche qui. Tre milioni di ore di sciopero, cortei e dimostrazioni, hanno fatto uscire la gente valsesserina dal sottosviluppo salariale, ma hanno suscitato la reazione imprenditoriale basata sullo sfruttamento della forza lavoro.
Lo chiamano rinnovamento tecnologico, ristrutturazione degli impianti: mescolano alla lana fibre artificiali, più resistenti e perciò adatte alla lavorazione veloce e quindi ci vogliono nuovi apparecchi di lavoro e nuovi accorgimenti per accrescere la produttività delle macchine tradizionali, aumentandone la velocità. Ne deriva l’espulsione di manodopera inadatta alle nuove mansioni, l’operaio viene controllato da cronometristi e analisti dei tempi di lavorazione, come i camici bianchi a Mirafiori controllano i tempi degli operai alla catena di montaggio. Produrre di più per consumare di più. I giovani operai del collettivo Valsessera si confrontano in fabbrica con questa realtà.
Ti chiederai perché ti racconto queste cose che a te non interessano. Per te, gli studenti devono studiare e gli operai lavorare e chi ha la fortuna di avere un posto fisso, magari in banca, deve tenerselo stretto e non occuparsi di politica, che è una cosa sporca, tanto il mondo va così ed è sempre stato così con chi sta sopra e comanda e chi sotto e obbedisce. E questo vale in famiglia, a scuola, in fabbrica e in ogni ambito della società.
Tu non ti poni domande, non sai perché c’è la guerra in Vietnam, anzi non sai nemmeno in quale parte del mondo si trova il Vietnam. A me rimbomba nella testa la canzone di Morandi C’era un ragazzo che come me… la sua chitarra non suona più ma uno strumento che sempre dà la stessa nota rta tatata… Tu non ti chiedi quante armi dovranno ancora sparare, prima dì essere bandite per sempre, non ti interessa sapere quanto può resistere un ghiacciaio prima di sciogliersi, inghiottito in mare.
Io me le sono poste queste domande; milioni di giovani se le stanno ponendo e le risposte sono nel vento; un vento che sta cambiando, sta soffiando a raffiche violente in tutto il mondo.
Mamma adorata, scrivo queste cose perché voglio convincerti che se lascio la banca e l’agiatezza di una di una vita borghese, il mio non è un colpo di testa. Al contrario, è una decisione sofferta e ponderata. Ho studiato molto, ho riflettuto molto e sono giunto alla conclusione, che tu non condividerai e forse nemmeno riuscirai a capire nonostante le mie tante parole. Il mondo sta cambiando, mamma, ma io non voglio stare a guardare. Voglio partecipare.
S’è fatto tardi; papà ha bussato alla porta del bagno: allora, che fai, non stai bene? Si è accorto che sono qui dentro da troppo tempo. Ho risposto che sto uscendo, ora piego questo foglio, appoggio le labbra alla carta per lasciarti un ultimo bacio e lo metto nel tuo cassetto dei cosmetici. È ora di andare, non sarò solo; mi aspettano i compagni.
Ciao mamma, ti voglio bene,
Enrico