E il cielo è illuminato di arancione
Nell’atrio ci sono luci soffuse e Jerry Lee Lewis che canta “Whole Lotta Shakin' Going On”. Giorgia affonda i piedi nella moquette dai peli alti e soffici e ogni passo le pare di farlo in mezzo al muschio in una foresta. Passa sotto rami di applique che le sfiorano i capelli, uccelletti alogeni a forma di lampadine la osservano muti.
C’è odore di Glade alla lavanda, alle pareti dipinti postmoderni a olio. Nelle tele ci sono linee che si inseguono, spirali di gialli e blu che si scontrano sfumando in arancioni sfocati, i vortici di colore sono in rilievo, come scolpiti dal pittore. Giorgia storce il naso, non li capisce, e quello che non capisce di solito la irrita. C’è anche un discreto caldo e Giorgia si leva il cappotto, lo tiene appeso all’avambraccio, il gomito ad angolo retto, salda nella mano sinistra dondola la borsa.
Sulla destra, finita la moquette, circondata da ficus avvolgenti, hanno incastrato un enorme bancone in marmo scuro. Dimora oltre il bancone una signorina sorridente, che quando la nota si sporge di qualche centimetro; il movimento le spettina una ciocca bionda, lei la riporta dietro l’orecchio, dice:
«Buonasera.»
Giorgia si poggia al bancone, è così freddo che sembra di ghiaccio, risponde:
«Buonasera.»
«Posso fare qualcosa per lei?» chiede la signorina. Ha un fastidioso accento dalle vocali strascicate che tenta di reprimere senza riuscirci. Giorgia alza l’indice.
«Momento» dice, fruga nella borsa, estrae un foglietto. «Sergej Ralenko» legge. Poi sorride.
«Vuole vedere il signor Ralenko?»
«Esatto.»
«Chi devo annunciare?»
Jerry Lee tace, anche Giorgia. I Beach Boys attaccano “Surf’s Up”.
«Non ho capito» dice la signorina.
«Non ho parlato» dice Giorgia.
«Devo sapere chi devo annunciare, mi serve il suo nome…»
«Dica al signor Ralenko che devo fare una consegna.»
La signorina smette di sorridere, tamburella con le unghie laccate sul marmo. Il bancone è nero e lucido, come una lapide. Giorgia si gratta il naso, si guarda intorno, i quadri postmoderni sono scarabocchi tristi.
«Ho ordini in merito, devo annunciare nome e cognome. Se si tratta di una consegna firmo io e porto tutto al signor Ralenko appena possibile.»
Giorgia poggia il cappotto sul bancone, tiene la mano sotto al naso, dice:
«Ha un fazzoleddo?»
«Scusi?»
«Un fazzoleddo, ber biagere…»
La signorina si scuote, cerca sotto al banco, gocce di sangue seguono le dita di Giorgia e la linea della mano, precipitano sul marmo, vermiglio su nero.
«Ecco» dice la signorina, in mano ha un fazzolettino bianco di carta, lo tiene pinzato tra pollice e indice. Giorgia lo afferra, si pulisce, tiene la testa piegata all’indietro, i quadri postmoderni visti al contrario fanno cagare come visti per il verso giusto. Quando le sembra tutto passato si raddrizza e fa due palline di carta, una per narice, e le usa come tappi antiepistassi.
Quando parla sembra lo scolo di un lavandino che risucchia l’acqua.
«Allora?» gorgoglia.
La signorina sta pulendo il bancone con un panno spuntato fuori dal nulla, chiede:
«Allora che?»
«Ho bisogno di vedere il signor Ralenko, devo fare questa consegna di persona.»
Giorgia si toglie una pallina dal naso, controlla con il polpastrello che non ci sia sangue nella narice.
«Sì, ho capito, ma mi serve il suo nome.»
Giorgia estrae la seconda pallina, una biglia rossa, dal naso non esce più nulla di liquido. Sorride, dice:
«Provi a chiamarlo lo stesso.»
La signorina ha l’aria di pensarci su per qualche istante, in realtà si controlla lo smalto sulle unghie.
«Va bene» dice, da sotto il banco fa comparire una cornetta, compone un numero di quattro cifre, attende. Giorgia giocherella con le palline di carta zuppe di sangue, non sa dove buttarle.
«Signor Ralenko?»
Silenzio.
«Sono Eva, dalla reception.»
Dalla cornetta solo un ronzio, Giorgia allunga il collo, non sente nulla.
«C’è qua una ragazzina… sì, non più di quindici anni… dice di avere una consegna da fare per lei. E di doverla fare di persona… non vuole dirmelo… non lo so, non me lo dice…»
Ronzio, Eva strizza gli occhi, squadra Giorgia, dice:
«Non mi pare… no, ha una borsa e un cappotto…»
Ronzio.
«Capelli scuri… occhi…»
Giorgia comincia a mangiarsi le unghie.
«Occhi grigi…»
Eva tappa la cornetta, chiede:
«Dove hai il pacco?»
Giorgia indica la borsa, Eva libera la cornetta.
«Ha il pacco nella borsetta.»
Ronzio, silenzio.
«Va bene.»
Eva fa sparire la cornetta, sorride, la ciocca bionda ha di nuovo lasciato l’orecchio e dondola precisa davanti agli occhi.
«Quattordicesimo piano, in fondo al corridoio, interno duecentoventi.»
«Grazie» dice Giorgia. Recupera il cappotto, raggiunge le porte lucide alla fine dell’androne, prima di chiamare l’ascensore fa cadere le palline insanguinate in un cestino.
Infine prende un lungo e meditato respiro.
C’è un tramonto che ti sorprende dalla vetrata. Di un bel color zucca, dietro ai palazzi, dietro le paraboliche, dietro le nuvole perenni. La luce ultima del sole accarezza le pareti dell’ufficio di Sergej Ralenko, dilata le ombre, fa pensare alla vita come a qualcosa che sfuma in una gran bellezza, in un’esplosione arancione; o almeno questo è quello che sta pensando Sergej.
Si sta pulendo i denti con uno stecchino mentre ha le gambe allungate sotto la scrivania e la città davanti a lui, distesa dietro le vetrate limpide, così pulite che sembrano fatte d’aria. Ruota sulla sedia da ufficio in pelle, che scricchiola, e con l’unico occhio, il superstite, come ama chiamarlo, scorre le pareti, le stampe appese, i trofei in bronzo con la guardia alta e i guantoni, residui di un’altra vita, le facce di Dimitri e Alexej. Si specchia nel coltello, ha il vizio stupido di controllarsi l’occhio in qualunque superficie riflettente, lo sta facendo anche ora, il suo bell’occhio azzurro.
«Quel tizio con il bar in via Togliatti» sta dicendo Dimitri, «quello con le orecchie enormi.»
Fa un gesto con le mani per indicare delle orecchie davvero grandi, dal coltello partono pezzetti di bistecca. La luce del tramonto gli ha colorato gli occhi di pece, scurissimi, ha le iridi spinose come un riccio di mare, dai riflessi amaranto.
Alexej sta tagliando una patata con aria assorta, dice:
«Non lo conosco.»
«Certo che lo conosci, guarda che lo abbiamo incrociato anche alla festa di Gerry. Ha delle orecchie del cazzo, non puoi non ricordarlo.»
«Non me lo ricordo.»
Alexej mastica la patata, con calma.
«Comunque, ti dicevo, me lo becco a casa di Susy.»
«Aspetta, aspetta...»
«Hai capito.»
«Cristo.»
Sergej si gratta la nuca, allontana il piatto dove ha lasciato qualche patata e l’osso della bistecca, dice:
«Spiega bene.»
Dimitri si pulisce le labbra, getta il tovagliolo sulla scrivania dove stanno mangiando, beve una lunga sorsata di vino così denso e scuro che sembra catrame.
«L’altra sera siamo andati a regolare i conti col figlio di Tommasi, ti ricordi?»
Sergej annuisce.
«E abbiamo fatto le cose alla svelta, io e Alexej.»
Alexej annuisce.
«Ecco, quindi, finito il lavoro, che penso? Penso: cazzo, mi sa che faccio un salto da Susy, le faccio una specie di sorpresa. Capito?»
«Sei un romanticone» dice Sergej.
«Senti la scena, capo. Ho le chiavi di casa di Susy, visto che la pago io tra le altre cose. Quindi, che penso? Penso: adesso neanche suono il campanello, entro senza dire nulla. E come giro la chiave sento un gran fracasso dentro l’appartamento, roba che sbatte in terra, rumori, che cazzo ne so.»
Alexej allontana il piatto dove ha mangiato, dice:
«Cristo santo.»
«Entro e mi ritrovo quel fottuto Dumbo tra i piedi. No, dico… avete idea di come ha le orecchie?»
«Ti ho detto che non lo conosco» dice Alexej.
«Adesso non lo riconosci di sicuro.»
Sergej socchiude l’unico occhio, si sistema la benda che gli nasconde l’orbita vuota, dice:
«Che cazzo vuol dire che non lo riconosce?»
«Non t’incazzare» borbotta Dimitri.
«Spiega bene.»
«Tu cosa avresti fatto, capo?»
«Ma che cazzo vuol dire cosa avrei fatto io. Cosa hai fatto tu, voglio sapere.»
«Be'… quelle orecchie erano davvero fastidiose…»
«Cristo santo» dice Alexej.
Sergej si alza, la camicia si tende sulle braccia robuste, chiede:
«E Susy?»
Il telefono squilla, due volte. Alla terza Sergej alza la cornetta, ma non ha smesso un secondo di guardare Dimitri.
«Pronto» dice.
Si passa il pollice sul collo, da una parte all’altra, fissando Dimitri, che deglutisce a vuoto.
«Sì, sono io.»
Alexej sbadiglia, si alza per cominciare a sparecchiare.
«Dica pure Eva, c’è gente per me?»
Anche Dimitri tenta di alzarsi, Sergej gli ordina con un gesto di rimanere seduto.
«Una ragazzina? E che vuole?»
Alexej sussurra:
«Chi è?»
Sergej alza le spalle, prende un altro stecchino e torna a pulirsi i denti.
«Come si chiama?»
Dimitri sbuffa, comincia a torturarsi i polsi.
«Ma per quale ditta consegna?»
Sergej si siede, la poltrona girevole si lamenta.
«La controlli, Eva, le sembra nascondere qualcosa?»
Alexej ha intanto finito di sparecchiare, ha raccolto le ossa in una bustina per il suo cane, ha buttato tutto il resto nel contenitore isotermico con cui aveva portato la cena.
«Ha qualcosa di sospetto con lei?»
Alexej si mette seduto nella poltrona all’angolo.
«Facciamo così, Eva: me la descriva, magari la conosco… mmmh… ho capito… le chieda di che pacco si tratta.»
Fuori il cielo è diventato viola, le luci della città sono tutte accese, Sergej butta lo stecchino nel cestino accanto alla scrivania.
«Va bene, la faccia salire, la teniamo sotto controllo dalla telecamera.»
Sergej ripone la cornetta, mette insieme i passi che lo separano dallo schermo che sta sopra la porta. In bianco e nero trasmette l’andito, un film muto degli anni Trenta. Anche Dimitri e Alexej lo raggiungono, gli si piazzano ai lati, impassibili, come due guardie a Buckingham Palace.
Aspettano.
Sullo schermo la porta dell’ascensore si apre, ne viene fuori una ragazzina in golfino e gonnellina scozzese, cappotto appeso al braccio, borsetta nell’altra mano, cappelli raccolti, passo svelto.
«Chi cazzo è?» chiede Alexej.
«Non ne ho idea» dice Sergej.
Dimitri si passa una mano sulla bocca, dice:
«Non male, però.»
«È una bambina, porca puttana» dice Sergej.
«È più alta di Alexej» dice Dimitri.
«Cristo santo» dice Alexej.
La ragazzina nello schermo si sta osservando in giro, fruga nella borsetta, tira fuori un biglietto. Sceglie una porta, suona.
«Cazzo fa?» chiede Alexej.
«Sssh» fa Dimitri, l’indice dritto davanti alle labbra.
La ragazzina nello schermo sbuffa, suona di nuovo, la porta si apre.
«È dal signor Monaco» dice Sergej.
«Ma non doveva venire qua?» chiede Alexej.
Sergej si gira, si sistema la benda, dice:
«Ma secondo te io che cazzo ne so?»
Il signor Monaco sta parlando, non si capisce nulla. Anche la ragazzina parla e sorride, allunga il braccio, il biglietto tra le dita. Il signor Monaco lo prende, lo controlla, fa una faccia stralunata, si sistema bene gli occhiali sul naso, la ragazzina ride. Il signor Monaco alza le spalle, la ragazzina ringrazia, il signor Monaco rientra in casa, chiude la porta.
Sergej si gratta la nuca, dice:
«Facciamo un gioco.»
Dall’ascensore si vede il parco e a ogni piano scalato un angolo di città che si rivela. Giorgia ha un occhio per il panorama e uno per le lucine con i numeri che indicano i piani. Al quattordicesimo si sistema i capelli e chiude gli occhi. Sente la porta che si apre con un sospiro. Riapre gli occhi e davanti a lei appare un andito ben illuminato e sgombro.
Sbarca dall’ascensore, controlla le porte. Due in un lato, una nell’altro, una davanti, alla fine, sulla targhetta enorme c’è scritto: duecentoventi. Sopra la porta brilla l’obiettivo di una telecamera. Giorgia si guarda intorno, fruga nella borsa e tira fuori un biglietto bianco. Suona alla porta che si trova subito alla sua sinistra. La targhetta recita: duecentodiciotto.
Aspetta.
Sbuffa.
Risuona.
Quando la porta si apre le si presenta di fronte un uomo in vestaglia, gli occhiali piantati sulla punta del naso, le lenti tonde e piccole come monetine da cinque centesimi.
«Mi scusi» dice Giorgia, e sfodera un tenero sorriso dai denti bianchi come confetti.
«Posso aiutarti?» chiede l’uomo.
«Mi chiamo Giorgia, e ho proprio bisogno del suo aiuto.»
«Del mio?»
«Sì, lei è il signor?»
«Eugenio Monaco. E tu?»
«Mi spiace, non glielo posso dire.»
Il signor Monaco ha un attimo di esitazione, poi scuote piano la testa e non dice nulla. Giorgia allunga il braccio, il biglietto tra le dita, dice:
«Signor Monaco, lo prenda, per favore.»
Il signor Monaco afferra il biglietto, lo esplora.
«È bianco» osserva.
Giorgia ride, dice:
«Lo so.»
Il signor Monaco si sistema gli occhiali, dà un’altra occhiata al biglietto.
«Cosa me ne faccio?» chiede.
«Lo deve tenere per mezz’ora, le chiedo questo favore. Solo questo, alla fine è solo un biglietto bianco.»
«Ma…»
«La prego. Tra mezz’ora ripasso e me lo ridà.»
Il signor Monaco annuisce, dice:
«Va bene.»
«La ringrazio davvero tanto. A dopo.»
«Arrivederci» dice il signor Monaco, rientra in casa e chiude piano la porta. Giorgia sospira, si schiarisce la voce, punta dritto all’interno duecentoventi. Attende qualche secondo, il tanto che il cuore rallenti di una decina di battiti.
Suona.
Ci sono dei passi pesanti, la porta che si apre e un uomo di statura bassa, dal sorriso mellifluo e con tutti e due gli occhi.
Giorgia ha un attimo di esitazione, dice:
«Devo aver sbagliato…»
«Non credo» dice l’uomo. «Lei sta cercando il signor Ralenko, per una consegna.»
Giorgia cerca di spiare oltre l’uomo, nella stanza.
«Io... sì, ho una cosa da dare al signor Ralenko.»
«Venga, allora. È dentro che l’aspetta.»
L’uomo si sposta, finisce di spalancare la porta. Giorgia fa un passo incerto, l’interno della stanza è poco illuminato, c’è odore di carne arrosto. Alle pareti ci sono parecchie stampe: c’è uno stabilimento balneare con tutti gli ombrelloni chiusi, uno stadio vuoto, un parco giochi senza bambini. Sono foto seppiate che mettono addosso parecchia malinconia. Sotto le stampe siede un uomo in una poltrona, in un angolo al buio. L’uomo ha i capelli raccolti in una coda, tiene gli occhi chiusi, come dormisse. Alla sua destra uno scaffale è pieno di trofei di pugilato e targhe. Oltre lo scaffale, davanti all’immensa vetrata che domina il parco e la città, una scrivania e un uomo oltre la scrivania, le mani giunte, le dita intrecciate. Una benda su un occhio.
In totale gli uomini sono tre: l’uomo basso che le ha aperto, l’uomo con la coda di cavallo che sembra dormire e Sergej Ralenko. Giorgia registra e finisce di entrare nella stanza.
Ralenko si alza, dice:
«Si accomodi» e indica una poltrona che sta davanti alla scrivania. Giorgia non si fa pregare, si getta sulla sedia, il cappotto sulle ginocchia. «Mi hanno detto che ha una cosa per me» aggiunge Ralenko. Giorgia annuisce, dice:
«Sta qua» e picchietta sulla borsa.
«Vorrei però avere il piacere di conoscere il suo nome, prima.»
Giorgia liscia il cappotto, deve calmarsi, si perde fuori dalla vetrata, segue un lungo filo illuminato dai lampioni che salta da un tetto a un altro, potrebbe essere una linea telefonica, ci cammina sopra come fosse un acrobata, un passetto alla volta, con calma, senza guardare giù.
«Lei non mi conosce» dice, «ma conosceva mio padre. Si chiamava Riccardo Amati.»
Lo dice mentre non guarda l’occhio di Ralenko, lo dice mentre sta ancora camminando sul filo.
Ralenko tossisce, sembra a disagio. Giorgia si aspettava una reazione diversa. Sente dei rumori anche dietro di lei, deve essere l’uomo che stava al buio, seduto in poltrona, che ora si è alzato. L’uomo basso è alla sua sinistra, sorride ancora.
«Ho capito» dice Ralenko. «Vorrei che quello che ha da darmi lo mettesse piano sul tavolo, senza fare movimenti bruschi.»
Giorgia apre la borsetta, il rumore della lampo si disegna nel silenzio e sembra il ronzare di un calabrone. Sul fondo della borsa giace il barattolo. Lancia un’occhiata dritta nell’unico occhio di Ralenko, nelle sue scure profondità. C’è qualcosa che non la convince in quello sguardo. Quando tira fuori il barattolo le è tutto chiaro. Dovrebbe essere azzurro, non nero.
«Gesù Cristo santissimo» dice la voce dell’uomo basso, dopo che Giorgia ha poggiato il barattolo sulla scrivania.
«E adesso, se non le spiace» dice Giorgia, «mi piacerebbe sapere dov’è il signor Ralenko. Quello vero.»
«Sono qua» dice Ralenko.
La figlia di Amati si volta e sorride, ha gli stessi occhi grigi del padre. Quel particolare avrebbe dovuto metterlo in allarme, ma era troppo distratto dalle stronzate di Dimitri.
«Le ho riportato il suo occhio» dice la ragazzina. Sulla scrivania un barattolo, dentro al barattolo, immerso in un liquido incolore, il suo occhio lo sta guardando. Il suo bell’occhio azzurro. D’istinto porta una mano all’orbita, la palpebra chiusa è morbida, moscia, come una tendina di seta.
Sergej fa il giro della scrivania, dice:
«Dimitri, dammi la benda.»
Dimitri si toglie la benda e non riesce a tenere l’occhio aperto, lacrima. Sergej copre l’orbita vuota, con l’occhio superstite fissa il barattolo.
«Questa adesso me la spieghi bene» dice.
La figlia di Amati sorride, ha dei denti perfetti, come li aveva quello stronzo del padre. Prima che lui glieli rompesse tutti, uno alla volta e senza fretta.
«Mio padre lo ha conservato proprio bene, non trova?»
La ragazzina fa ruotare il barattolo, e di nuovo gli occhi di Sergej si stanno fissando.
«Ti faccio estrarre tutti e due gli occhi, prima di farti a pezzetti piccoli» dice Sergej.
«Mio padre mi ha raccontato che il suo glielo ha cavato con un cucchiaio.»
«Ha usato un coltello.»
La ragazzina alza le spalle, continua a lisciare il cappotto, ogni tanto guarda fuori dalla vetrata.
«Comunque merito una ricompensa per averglielo riportato, non crede?»
Sergej vorrebbe ridere, ma proprio non gli viene. Invece si tocca il naso, dice:
«Guarda il mio naso.»
La figlia di Amati gli guarda il naso.
«Ho fatto il pugile per dieci anni, non noti nulla?»
La ragazzina scuote la testa. Il suo naso in effetti non ha nulla che non va.
«Nessuno è mai riuscito a romperlo, in dieci anni. Ero proprio bravo. Ho dovuto mollare la boxe quando tuo padre mi ha cavato l’occhio. Questo è stato il dolore più grande, più grande di quello fisico. L’ho cercato per tanti anni per fargliela pagare, e quando l’ho trovato, povero stronzo… tu c'eri Alexej?»
«Eccome.»
«Ci siamo divertiti?»
«Un mondo.»
Sergej si siede, dice:
«Dimitri, hai idea di chi sia il padre di questa bella signorina?»
Dimitri scuote la testa, fa un passo di lato.
«Ne ho sentito parlare, ma no, capo, non l'ho mai conosciuto» dice.
«Era il più grande esperto in esplosivi che io abbia mai conosciuto. Abbiamo fatto parecchie rapine insieme, tanti anni fa. Poi abbiamo, diciamo così, avuto un diverbio. Adesso è morto.»
La ragazzina dovrebbe essere terrorizzata, invece sorride, dice:
«Io le ho riportato il suo prezioso occhio, ora lei mi dà quello che è mio. Ovvero la parte di bottino che non ha mai spartito con mio padre.»
«Cristo santo» dice Alexej.
«Prima di entrare ho dato il mio nome al signor Monaco, il suo vicino. Gli ho detto che se entro mezz’ora non suonavo alla sua porta doveva chiamare la polizia. So che lo avete visto, ho notato la telecamera nel corridoio.»
Sergej cerca di non sembrare nervoso, ma il suo occhio nel barattolo che lo fissa lo mette a disagio.
«Mezz’ora?» chiede.
La ragazzina si controlla il polso, ha un piccolo orologio rosa.
«Sono già passati quindici minuti» dice.
«Potrei ordinare ora a Dimitri di andare a fare visita al signor Monaco, per cucirgli la bocca, cosa ne dici?»
«Dico che ormai è un rispettabile uomo d'affari, non so se sia conveniente avere dei diverbi con i vicini.»
«Va bene, va bene. Mettiamo il caso che io impazzisca e ti dia i soldi. Mettiamo pure questa eventualità. Sai bene che non arriveresti a domani anche se dovessi uscire intera dal palazzo, vero?»
«Intanto esco dal palazzo con i soldi, poi vediamo»
La ragazzina continua ad accarezzare il cappotto, come fosse un gattino.
«E sentiamo» dice Sergej, «sentiamo un po’: quanti sarebbero questi soldi che ti devo?»
La ragazzina fruga nella borsa, tira fuori un foglietto, lo poggia sulla scrivania. È la scrittura sghemba di Amati, Sergej la riconosce subito.
«Ai conti di mio padre» dice la ragazzina mentre picchietta con l’indice sul foglietto, «lei mi deve mezzo milione.»
«Ho capito. E come li vorresti? In contanti o ti posso staccare un assegno?»
Alexej ridacchia, scuote la testa.
«A dire il vero io so dell’esistenza di una cassetta di sicurezza alla stazione, dove lei ha nascosto dei soldi. Mi bastano una chiave e un numero.»
Sergej stende le mani sulla scrivania, ci sono delle briciole reduci della cena.
«E chi ti assicura che in quella cassetta ci sia mezzo milione?»
«Non importa, quello che c’è mi basterà.»
Sergej raccoglie le briciole, le getta nel cestino, si alza.
«Facciamo un gioco» dice. «Facciamo che io ti do per davvero quella chiave e il numero della cassetta…»
«Capo, non...» interviene Alexej, ma Sergej lo zittisce con una manata all’aria.
«Facciamo» continua, «che ti lasciamo uscire dal palazzo. Ma poi ti veniamo dietro.»
«Mi basta un’ora di vantaggio» dice la ragazza, «non chiedo di più.»
Stavolta Sergej riesce a ridere. E un po’ gli dispiace pure per quella ragazzina, comincia a stargli simpatica.
«Affare fatto.»
Ancora ridendo si inchina, apre l’ultimo cassetto della scrivania, estrae un plico sigillato.
«Qua dentro» dice, «ci sono la chiave e il numero della cassetta. Tanti auguri.»
La ragazzina si alza, prende il plico, lo infila nella borsa, dice:
«Si goda il suo occhio, è da tanto che non vi vedete, avrete tante cose da raccontarvi.»
A passi decisi esce e richiude la porta. I tre uomini la vedono sullo schermo suonare a casa del signor Monaco, recuperare il foglietto, ringraziare e sparire nell’ascensore.
«Quella è pazza» dice Dimitri.
«Una volta tanto hai ragione» dice Alexej.
Sergej si è di nuovo seduto in poltrona, l’ha girata verso la vetrata, osserva il parco, dice:
«Appena quella piccola stronza esce da qui, voi le andate dietro e me la riportate intera, senza farvi vedere da nessuno, ché ci voglio giocare un pochino. E visto che siete di passaggio suonate anche da Monaco e ditegli che lui oggi non ha visto e sentito nulla.»
Dimitri sorride, dice:
«Agli ordini, capo.»
«Hai poco da ridere tu, non abbiamo ancora finito io e te… spiega bene, non mi hai ancora detto di Susy…»
«Eccola là» dice Alexej.
La ragazzina sta attraversando il parco a passi svelti, non si è rimessa la giacca nonostante il freddo. Sceglie una panchina, si siede e guarda su, verso di loro. Dalla borsa tira fuori un lecca-lecca e se lo ficca in bocca.
«Ma che cazzo fa?» chiede Sergej.
La ragazzina sta accarezzando il giubbotto, quindi si ferma, infila una mano nella manica e sorride, la stecca del lecca-lecca come una sigaretta spenta.
Con la mano libera saluta.
«Cristo santo» dice Alexej.
Giorgia si lascia alle spalle l’interno duecentoventi, suona dal signor Monaco. Sente un pantofolare svelto e la porta che si apre.
«Eccomi qua» dice.
Il signor Monaco sorride.
«Ed ecco il tuo biglietto.»
«Non so come ringraziarla» dice Giorgia.
«Ma figurati. Buona serata.»
«Anche a lei.»
Il signor Monaco chiude la porta che ancora sta sorridendo, Giorgia spera che non gli succeda nulla di male. Sale in ascensore, non guarda il panorama, respira con calma.
Scende al piano terra, Eva è ancora dietro al bancone, Elvis sta cantando “Hound Dog”.
Attraversa l’atrio in apnea, saluta con la mano, Eva risponde:
«Arrivederci.»
Quando è fuori respira. Il parco è deserto, fa un freddo da congelare i pinguini, ma almeno si è placato il vento. Giorgia attraversa il prato e sceglie una panchina da cui si possa vedere il lato del palazzo dove si trova l’ufficio di Ralenko. Si siede, conta fino a quattordici e arriva alla vetrata giusta. Dalla borsa tira fuori un lecca-lecca, lo scarta e se lo infila in bocca. Suo padre glieli comprava sempre, ogni volta che tornava a casa ne aveva uno per lei, e sempre di un sapore diverso. Quello che ha in bocca ora sa di fragola.
Accarezza il giubbotto, infila la mano nella manica, dove ha cucito una tasca nascosta. Nella tasca il congegno per azionare il detonatore elettrico. Nel tappo del barattolo con l’occhio di Ralenko c’è nitromannite, basta una piccola scintilla. Nel barattolo l'occhio di Ralenko è immerso nell'astrolite G. Suo padre le ha insegnato tante cose parecchio utili.
Giorgia fa ciao con la mano.
E il cielo è illuminato d’arancione.
Si è dimenticata di tapparsi le orecchie, che ora fischiano. Raccoglie le sue cose, attorno a lei c’è polvere e allarmi di macchine che ululano e vetri e calcinacci.
Mentre si allontana succhia il lecca-lecca e assapora una breve epistassi. In bocca sapore di fragola e ferro.
Nell’atrio ci sono luci soffuse e Jerry Lee Lewis che canta “Whole Lotta Shakin' Going On”. Giorgia affonda i piedi nella moquette dai peli alti e soffici e ogni passo le pare di farlo in mezzo al muschio in una foresta. Passa sotto rami di applique che le sfiorano i capelli, uccelletti alogeni a forma di lampadine la osservano muti.
C’è odore di Glade alla lavanda, alle pareti dipinti postmoderni a olio. Nelle tele ci sono linee che si inseguono, spirali di gialli e blu che si scontrano sfumando in arancioni sfocati, i vortici di colore sono in rilievo, come scolpiti dal pittore. Giorgia storce il naso, non li capisce, e quello che non capisce di solito la irrita. C’è anche un discreto caldo e Giorgia si leva il cappotto, lo tiene appeso all’avambraccio, il gomito ad angolo retto, salda nella mano sinistra dondola la borsa.
Sulla destra, finita la moquette, circondata da ficus avvolgenti, hanno incastrato un enorme bancone in marmo scuro. Dimora oltre il bancone una signorina sorridente, che quando la nota si sporge di qualche centimetro; il movimento le spettina una ciocca bionda, lei la riporta dietro l’orecchio, dice:
«Buonasera.»
Giorgia si poggia al bancone, è così freddo che sembra di ghiaccio, risponde:
«Buonasera.»
«Posso fare qualcosa per lei?» chiede la signorina. Ha un fastidioso accento dalle vocali strascicate che tenta di reprimere senza riuscirci. Giorgia alza l’indice.
«Momento» dice, fruga nella borsa, estrae un foglietto. «Sergej Ralenko» legge. Poi sorride.
«Vuole vedere il signor Ralenko?»
«Esatto.»
«Chi devo annunciare?»
Jerry Lee tace, anche Giorgia. I Beach Boys attaccano “Surf’s Up”.
«Non ho capito» dice la signorina.
«Non ho parlato» dice Giorgia.
«Devo sapere chi devo annunciare, mi serve il suo nome…»
«Dica al signor Ralenko che devo fare una consegna.»
La signorina smette di sorridere, tamburella con le unghie laccate sul marmo. Il bancone è nero e lucido, come una lapide. Giorgia si gratta il naso, si guarda intorno, i quadri postmoderni sono scarabocchi tristi.
«Ho ordini in merito, devo annunciare nome e cognome. Se si tratta di una consegna firmo io e porto tutto al signor Ralenko appena possibile.»
Giorgia poggia il cappotto sul bancone, tiene la mano sotto al naso, dice:
«Ha un fazzoleddo?»
«Scusi?»
«Un fazzoleddo, ber biagere…»
La signorina si scuote, cerca sotto al banco, gocce di sangue seguono le dita di Giorgia e la linea della mano, precipitano sul marmo, vermiglio su nero.
«Ecco» dice la signorina, in mano ha un fazzolettino bianco di carta, lo tiene pinzato tra pollice e indice. Giorgia lo afferra, si pulisce, tiene la testa piegata all’indietro, i quadri postmoderni visti al contrario fanno cagare come visti per il verso giusto. Quando le sembra tutto passato si raddrizza e fa due palline di carta, una per narice, e le usa come tappi antiepistassi.
Quando parla sembra lo scolo di un lavandino che risucchia l’acqua.
«Allora?» gorgoglia.
La signorina sta pulendo il bancone con un panno spuntato fuori dal nulla, chiede:
«Allora che?»
«Ho bisogno di vedere il signor Ralenko, devo fare questa consegna di persona.»
Giorgia si toglie una pallina dal naso, controlla con il polpastrello che non ci sia sangue nella narice.
«Sì, ho capito, ma mi serve il suo nome.»
Giorgia estrae la seconda pallina, una biglia rossa, dal naso non esce più nulla di liquido. Sorride, dice:
«Provi a chiamarlo lo stesso.»
La signorina ha l’aria di pensarci su per qualche istante, in realtà si controlla lo smalto sulle unghie.
«Va bene» dice, da sotto il banco fa comparire una cornetta, compone un numero di quattro cifre, attende. Giorgia giocherella con le palline di carta zuppe di sangue, non sa dove buttarle.
«Signor Ralenko?»
Silenzio.
«Sono Eva, dalla reception.»
Dalla cornetta solo un ronzio, Giorgia allunga il collo, non sente nulla.
«C’è qua una ragazzina… sì, non più di quindici anni… dice di avere una consegna da fare per lei. E di doverla fare di persona… non vuole dirmelo… non lo so, non me lo dice…»
Ronzio, Eva strizza gli occhi, squadra Giorgia, dice:
«Non mi pare… no, ha una borsa e un cappotto…»
Ronzio.
«Capelli scuri… occhi…»
Giorgia comincia a mangiarsi le unghie.
«Occhi grigi…»
Eva tappa la cornetta, chiede:
«Dove hai il pacco?»
Giorgia indica la borsa, Eva libera la cornetta.
«Ha il pacco nella borsetta.»
Ronzio, silenzio.
«Va bene.»
Eva fa sparire la cornetta, sorride, la ciocca bionda ha di nuovo lasciato l’orecchio e dondola precisa davanti agli occhi.
«Quattordicesimo piano, in fondo al corridoio, interno duecentoventi.»
«Grazie» dice Giorgia. Recupera il cappotto, raggiunge le porte lucide alla fine dell’androne, prima di chiamare l’ascensore fa cadere le palline insanguinate in un cestino.
Infine prende un lungo e meditato respiro.
C’è un tramonto che ti sorprende dalla vetrata. Di un bel color zucca, dietro ai palazzi, dietro le paraboliche, dietro le nuvole perenni. La luce ultima del sole accarezza le pareti dell’ufficio di Sergej Ralenko, dilata le ombre, fa pensare alla vita come a qualcosa che sfuma in una gran bellezza, in un’esplosione arancione; o almeno questo è quello che sta pensando Sergej.
Si sta pulendo i denti con uno stecchino mentre ha le gambe allungate sotto la scrivania e la città davanti a lui, distesa dietro le vetrate limpide, così pulite che sembrano fatte d’aria. Ruota sulla sedia da ufficio in pelle, che scricchiola, e con l’unico occhio, il superstite, come ama chiamarlo, scorre le pareti, le stampe appese, i trofei in bronzo con la guardia alta e i guantoni, residui di un’altra vita, le facce di Dimitri e Alexej. Si specchia nel coltello, ha il vizio stupido di controllarsi l’occhio in qualunque superficie riflettente, lo sta facendo anche ora, il suo bell’occhio azzurro.
«Quel tizio con il bar in via Togliatti» sta dicendo Dimitri, «quello con le orecchie enormi.»
Fa un gesto con le mani per indicare delle orecchie davvero grandi, dal coltello partono pezzetti di bistecca. La luce del tramonto gli ha colorato gli occhi di pece, scurissimi, ha le iridi spinose come un riccio di mare, dai riflessi amaranto.
Alexej sta tagliando una patata con aria assorta, dice:
«Non lo conosco.»
«Certo che lo conosci, guarda che lo abbiamo incrociato anche alla festa di Gerry. Ha delle orecchie del cazzo, non puoi non ricordarlo.»
«Non me lo ricordo.»
Alexej mastica la patata, con calma.
«Comunque, ti dicevo, me lo becco a casa di Susy.»
«Aspetta, aspetta...»
«Hai capito.»
«Cristo.»
Sergej si gratta la nuca, allontana il piatto dove ha lasciato qualche patata e l’osso della bistecca, dice:
«Spiega bene.»
Dimitri si pulisce le labbra, getta il tovagliolo sulla scrivania dove stanno mangiando, beve una lunga sorsata di vino così denso e scuro che sembra catrame.
«L’altra sera siamo andati a regolare i conti col figlio di Tommasi, ti ricordi?»
Sergej annuisce.
«E abbiamo fatto le cose alla svelta, io e Alexej.»
Alexej annuisce.
«Ecco, quindi, finito il lavoro, che penso? Penso: cazzo, mi sa che faccio un salto da Susy, le faccio una specie di sorpresa. Capito?»
«Sei un romanticone» dice Sergej.
«Senti la scena, capo. Ho le chiavi di casa di Susy, visto che la pago io tra le altre cose. Quindi, che penso? Penso: adesso neanche suono il campanello, entro senza dire nulla. E come giro la chiave sento un gran fracasso dentro l’appartamento, roba che sbatte in terra, rumori, che cazzo ne so.»
Alexej allontana il piatto dove ha mangiato, dice:
«Cristo santo.»
«Entro e mi ritrovo quel fottuto Dumbo tra i piedi. No, dico… avete idea di come ha le orecchie?»
«Ti ho detto che non lo conosco» dice Alexej.
«Adesso non lo riconosci di sicuro.»
Sergej socchiude l’unico occhio, si sistema la benda che gli nasconde l’orbita vuota, dice:
«Che cazzo vuol dire che non lo riconosce?»
«Non t’incazzare» borbotta Dimitri.
«Spiega bene.»
«Tu cosa avresti fatto, capo?»
«Ma che cazzo vuol dire cosa avrei fatto io. Cosa hai fatto tu, voglio sapere.»
«Be'… quelle orecchie erano davvero fastidiose…»
«Cristo santo» dice Alexej.
Sergej si alza, la camicia si tende sulle braccia robuste, chiede:
«E Susy?»
Il telefono squilla, due volte. Alla terza Sergej alza la cornetta, ma non ha smesso un secondo di guardare Dimitri.
«Pronto» dice.
Si passa il pollice sul collo, da una parte all’altra, fissando Dimitri, che deglutisce a vuoto.
«Sì, sono io.»
Alexej sbadiglia, si alza per cominciare a sparecchiare.
«Dica pure Eva, c’è gente per me?»
Anche Dimitri tenta di alzarsi, Sergej gli ordina con un gesto di rimanere seduto.
«Una ragazzina? E che vuole?»
Alexej sussurra:
«Chi è?»
Sergej alza le spalle, prende un altro stecchino e torna a pulirsi i denti.
«Come si chiama?»
Dimitri sbuffa, comincia a torturarsi i polsi.
«Ma per quale ditta consegna?»
Sergej si siede, la poltrona girevole si lamenta.
«La controlli, Eva, le sembra nascondere qualcosa?»
Alexej ha intanto finito di sparecchiare, ha raccolto le ossa in una bustina per il suo cane, ha buttato tutto il resto nel contenitore isotermico con cui aveva portato la cena.
«Ha qualcosa di sospetto con lei?»
Alexej si mette seduto nella poltrona all’angolo.
«Facciamo così, Eva: me la descriva, magari la conosco… mmmh… ho capito… le chieda di che pacco si tratta.»
Fuori il cielo è diventato viola, le luci della città sono tutte accese, Sergej butta lo stecchino nel cestino accanto alla scrivania.
«Va bene, la faccia salire, la teniamo sotto controllo dalla telecamera.»
Sergej ripone la cornetta, mette insieme i passi che lo separano dallo schermo che sta sopra la porta. In bianco e nero trasmette l’andito, un film muto degli anni Trenta. Anche Dimitri e Alexej lo raggiungono, gli si piazzano ai lati, impassibili, come due guardie a Buckingham Palace.
Aspettano.
Sullo schermo la porta dell’ascensore si apre, ne viene fuori una ragazzina in golfino e gonnellina scozzese, cappotto appeso al braccio, borsetta nell’altra mano, cappelli raccolti, passo svelto.
«Chi cazzo è?» chiede Alexej.
«Non ne ho idea» dice Sergej.
Dimitri si passa una mano sulla bocca, dice:
«Non male, però.»
«È una bambina, porca puttana» dice Sergej.
«È più alta di Alexej» dice Dimitri.
«Cristo santo» dice Alexej.
La ragazzina nello schermo si sta osservando in giro, fruga nella borsetta, tira fuori un biglietto. Sceglie una porta, suona.
«Cazzo fa?» chiede Alexej.
«Sssh» fa Dimitri, l’indice dritto davanti alle labbra.
La ragazzina nello schermo sbuffa, suona di nuovo, la porta si apre.
«È dal signor Monaco» dice Sergej.
«Ma non doveva venire qua?» chiede Alexej.
Sergej si gira, si sistema la benda, dice:
«Ma secondo te io che cazzo ne so?»
Il signor Monaco sta parlando, non si capisce nulla. Anche la ragazzina parla e sorride, allunga il braccio, il biglietto tra le dita. Il signor Monaco lo prende, lo controlla, fa una faccia stralunata, si sistema bene gli occhiali sul naso, la ragazzina ride. Il signor Monaco alza le spalle, la ragazzina ringrazia, il signor Monaco rientra in casa, chiude la porta.
Sergej si gratta la nuca, dice:
«Facciamo un gioco.»
Dall’ascensore si vede il parco e a ogni piano scalato un angolo di città che si rivela. Giorgia ha un occhio per il panorama e uno per le lucine con i numeri che indicano i piani. Al quattordicesimo si sistema i capelli e chiude gli occhi. Sente la porta che si apre con un sospiro. Riapre gli occhi e davanti a lei appare un andito ben illuminato e sgombro.
Sbarca dall’ascensore, controlla le porte. Due in un lato, una nell’altro, una davanti, alla fine, sulla targhetta enorme c’è scritto: duecentoventi. Sopra la porta brilla l’obiettivo di una telecamera. Giorgia si guarda intorno, fruga nella borsa e tira fuori un biglietto bianco. Suona alla porta che si trova subito alla sua sinistra. La targhetta recita: duecentodiciotto.
Aspetta.
Sbuffa.
Risuona.
Quando la porta si apre le si presenta di fronte un uomo in vestaglia, gli occhiali piantati sulla punta del naso, le lenti tonde e piccole come monetine da cinque centesimi.
«Mi scusi» dice Giorgia, e sfodera un tenero sorriso dai denti bianchi come confetti.
«Posso aiutarti?» chiede l’uomo.
«Mi chiamo Giorgia, e ho proprio bisogno del suo aiuto.»
«Del mio?»
«Sì, lei è il signor?»
«Eugenio Monaco. E tu?»
«Mi spiace, non glielo posso dire.»
Il signor Monaco ha un attimo di esitazione, poi scuote piano la testa e non dice nulla. Giorgia allunga il braccio, il biglietto tra le dita, dice:
«Signor Monaco, lo prenda, per favore.»
Il signor Monaco afferra il biglietto, lo esplora.
«È bianco» osserva.
Giorgia ride, dice:
«Lo so.»
Il signor Monaco si sistema gli occhiali, dà un’altra occhiata al biglietto.
«Cosa me ne faccio?» chiede.
«Lo deve tenere per mezz’ora, le chiedo questo favore. Solo questo, alla fine è solo un biglietto bianco.»
«Ma…»
«La prego. Tra mezz’ora ripasso e me lo ridà.»
Il signor Monaco annuisce, dice:
«Va bene.»
«La ringrazio davvero tanto. A dopo.»
«Arrivederci» dice il signor Monaco, rientra in casa e chiude piano la porta. Giorgia sospira, si schiarisce la voce, punta dritto all’interno duecentoventi. Attende qualche secondo, il tanto che il cuore rallenti di una decina di battiti.
Suona.
Ci sono dei passi pesanti, la porta che si apre e un uomo di statura bassa, dal sorriso mellifluo e con tutti e due gli occhi.
Giorgia ha un attimo di esitazione, dice:
«Devo aver sbagliato…»
«Non credo» dice l’uomo. «Lei sta cercando il signor Ralenko, per una consegna.»
Giorgia cerca di spiare oltre l’uomo, nella stanza.
«Io... sì, ho una cosa da dare al signor Ralenko.»
«Venga, allora. È dentro che l’aspetta.»
L’uomo si sposta, finisce di spalancare la porta. Giorgia fa un passo incerto, l’interno della stanza è poco illuminato, c’è odore di carne arrosto. Alle pareti ci sono parecchie stampe: c’è uno stabilimento balneare con tutti gli ombrelloni chiusi, uno stadio vuoto, un parco giochi senza bambini. Sono foto seppiate che mettono addosso parecchia malinconia. Sotto le stampe siede un uomo in una poltrona, in un angolo al buio. L’uomo ha i capelli raccolti in una coda, tiene gli occhi chiusi, come dormisse. Alla sua destra uno scaffale è pieno di trofei di pugilato e targhe. Oltre lo scaffale, davanti all’immensa vetrata che domina il parco e la città, una scrivania e un uomo oltre la scrivania, le mani giunte, le dita intrecciate. Una benda su un occhio.
In totale gli uomini sono tre: l’uomo basso che le ha aperto, l’uomo con la coda di cavallo che sembra dormire e Sergej Ralenko. Giorgia registra e finisce di entrare nella stanza.
Ralenko si alza, dice:
«Si accomodi» e indica una poltrona che sta davanti alla scrivania. Giorgia non si fa pregare, si getta sulla sedia, il cappotto sulle ginocchia. «Mi hanno detto che ha una cosa per me» aggiunge Ralenko. Giorgia annuisce, dice:
«Sta qua» e picchietta sulla borsa.
«Vorrei però avere il piacere di conoscere il suo nome, prima.»
Giorgia liscia il cappotto, deve calmarsi, si perde fuori dalla vetrata, segue un lungo filo illuminato dai lampioni che salta da un tetto a un altro, potrebbe essere una linea telefonica, ci cammina sopra come fosse un acrobata, un passetto alla volta, con calma, senza guardare giù.
«Lei non mi conosce» dice, «ma conosceva mio padre. Si chiamava Riccardo Amati.»
Lo dice mentre non guarda l’occhio di Ralenko, lo dice mentre sta ancora camminando sul filo.
Ralenko tossisce, sembra a disagio. Giorgia si aspettava una reazione diversa. Sente dei rumori anche dietro di lei, deve essere l’uomo che stava al buio, seduto in poltrona, che ora si è alzato. L’uomo basso è alla sua sinistra, sorride ancora.
«Ho capito» dice Ralenko. «Vorrei che quello che ha da darmi lo mettesse piano sul tavolo, senza fare movimenti bruschi.»
Giorgia apre la borsetta, il rumore della lampo si disegna nel silenzio e sembra il ronzare di un calabrone. Sul fondo della borsa giace il barattolo. Lancia un’occhiata dritta nell’unico occhio di Ralenko, nelle sue scure profondità. C’è qualcosa che non la convince in quello sguardo. Quando tira fuori il barattolo le è tutto chiaro. Dovrebbe essere azzurro, non nero.
«Gesù Cristo santissimo» dice la voce dell’uomo basso, dopo che Giorgia ha poggiato il barattolo sulla scrivania.
«E adesso, se non le spiace» dice Giorgia, «mi piacerebbe sapere dov’è il signor Ralenko. Quello vero.»
«Sono qua» dice Ralenko.
La figlia di Amati si volta e sorride, ha gli stessi occhi grigi del padre. Quel particolare avrebbe dovuto metterlo in allarme, ma era troppo distratto dalle stronzate di Dimitri.
«Le ho riportato il suo occhio» dice la ragazzina. Sulla scrivania un barattolo, dentro al barattolo, immerso in un liquido incolore, il suo occhio lo sta guardando. Il suo bell’occhio azzurro. D’istinto porta una mano all’orbita, la palpebra chiusa è morbida, moscia, come una tendina di seta.
Sergej fa il giro della scrivania, dice:
«Dimitri, dammi la benda.»
Dimitri si toglie la benda e non riesce a tenere l’occhio aperto, lacrima. Sergej copre l’orbita vuota, con l’occhio superstite fissa il barattolo.
«Questa adesso me la spieghi bene» dice.
La figlia di Amati sorride, ha dei denti perfetti, come li aveva quello stronzo del padre. Prima che lui glieli rompesse tutti, uno alla volta e senza fretta.
«Mio padre lo ha conservato proprio bene, non trova?»
La ragazzina fa ruotare il barattolo, e di nuovo gli occhi di Sergej si stanno fissando.
«Ti faccio estrarre tutti e due gli occhi, prima di farti a pezzetti piccoli» dice Sergej.
«Mio padre mi ha raccontato che il suo glielo ha cavato con un cucchiaio.»
«Ha usato un coltello.»
La ragazzina alza le spalle, continua a lisciare il cappotto, ogni tanto guarda fuori dalla vetrata.
«Comunque merito una ricompensa per averglielo riportato, non crede?»
Sergej vorrebbe ridere, ma proprio non gli viene. Invece si tocca il naso, dice:
«Guarda il mio naso.»
La figlia di Amati gli guarda il naso.
«Ho fatto il pugile per dieci anni, non noti nulla?»
La ragazzina scuote la testa. Il suo naso in effetti non ha nulla che non va.
«Nessuno è mai riuscito a romperlo, in dieci anni. Ero proprio bravo. Ho dovuto mollare la boxe quando tuo padre mi ha cavato l’occhio. Questo è stato il dolore più grande, più grande di quello fisico. L’ho cercato per tanti anni per fargliela pagare, e quando l’ho trovato, povero stronzo… tu c'eri Alexej?»
«Eccome.»
«Ci siamo divertiti?»
«Un mondo.»
Sergej si siede, dice:
«Dimitri, hai idea di chi sia il padre di questa bella signorina?»
Dimitri scuote la testa, fa un passo di lato.
«Ne ho sentito parlare, ma no, capo, non l'ho mai conosciuto» dice.
«Era il più grande esperto in esplosivi che io abbia mai conosciuto. Abbiamo fatto parecchie rapine insieme, tanti anni fa. Poi abbiamo, diciamo così, avuto un diverbio. Adesso è morto.»
La ragazzina dovrebbe essere terrorizzata, invece sorride, dice:
«Io le ho riportato il suo prezioso occhio, ora lei mi dà quello che è mio. Ovvero la parte di bottino che non ha mai spartito con mio padre.»
«Cristo santo» dice Alexej.
«Prima di entrare ho dato il mio nome al signor Monaco, il suo vicino. Gli ho detto che se entro mezz’ora non suonavo alla sua porta doveva chiamare la polizia. So che lo avete visto, ho notato la telecamera nel corridoio.»
Sergej cerca di non sembrare nervoso, ma il suo occhio nel barattolo che lo fissa lo mette a disagio.
«Mezz’ora?» chiede.
La ragazzina si controlla il polso, ha un piccolo orologio rosa.
«Sono già passati quindici minuti» dice.
«Potrei ordinare ora a Dimitri di andare a fare visita al signor Monaco, per cucirgli la bocca, cosa ne dici?»
«Dico che ormai è un rispettabile uomo d'affari, non so se sia conveniente avere dei diverbi con i vicini.»
«Va bene, va bene. Mettiamo il caso che io impazzisca e ti dia i soldi. Mettiamo pure questa eventualità. Sai bene che non arriveresti a domani anche se dovessi uscire intera dal palazzo, vero?»
«Intanto esco dal palazzo con i soldi, poi vediamo»
La ragazzina continua ad accarezzare il cappotto, come fosse un gattino.
«E sentiamo» dice Sergej, «sentiamo un po’: quanti sarebbero questi soldi che ti devo?»
La ragazzina fruga nella borsa, tira fuori un foglietto, lo poggia sulla scrivania. È la scrittura sghemba di Amati, Sergej la riconosce subito.
«Ai conti di mio padre» dice la ragazzina mentre picchietta con l’indice sul foglietto, «lei mi deve mezzo milione.»
«Ho capito. E come li vorresti? In contanti o ti posso staccare un assegno?»
Alexej ridacchia, scuote la testa.
«A dire il vero io so dell’esistenza di una cassetta di sicurezza alla stazione, dove lei ha nascosto dei soldi. Mi bastano una chiave e un numero.»
Sergej stende le mani sulla scrivania, ci sono delle briciole reduci della cena.
«E chi ti assicura che in quella cassetta ci sia mezzo milione?»
«Non importa, quello che c’è mi basterà.»
Sergej raccoglie le briciole, le getta nel cestino, si alza.
«Facciamo un gioco» dice. «Facciamo che io ti do per davvero quella chiave e il numero della cassetta…»
«Capo, non...» interviene Alexej, ma Sergej lo zittisce con una manata all’aria.
«Facciamo» continua, «che ti lasciamo uscire dal palazzo. Ma poi ti veniamo dietro.»
«Mi basta un’ora di vantaggio» dice la ragazza, «non chiedo di più.»
Stavolta Sergej riesce a ridere. E un po’ gli dispiace pure per quella ragazzina, comincia a stargli simpatica.
«Affare fatto.»
Ancora ridendo si inchina, apre l’ultimo cassetto della scrivania, estrae un plico sigillato.
«Qua dentro» dice, «ci sono la chiave e il numero della cassetta. Tanti auguri.»
La ragazzina si alza, prende il plico, lo infila nella borsa, dice:
«Si goda il suo occhio, è da tanto che non vi vedete, avrete tante cose da raccontarvi.»
A passi decisi esce e richiude la porta. I tre uomini la vedono sullo schermo suonare a casa del signor Monaco, recuperare il foglietto, ringraziare e sparire nell’ascensore.
«Quella è pazza» dice Dimitri.
«Una volta tanto hai ragione» dice Alexej.
Sergej si è di nuovo seduto in poltrona, l’ha girata verso la vetrata, osserva il parco, dice:
«Appena quella piccola stronza esce da qui, voi le andate dietro e me la riportate intera, senza farvi vedere da nessuno, ché ci voglio giocare un pochino. E visto che siete di passaggio suonate anche da Monaco e ditegli che lui oggi non ha visto e sentito nulla.»
Dimitri sorride, dice:
«Agli ordini, capo.»
«Hai poco da ridere tu, non abbiamo ancora finito io e te… spiega bene, non mi hai ancora detto di Susy…»
«Eccola là» dice Alexej.
La ragazzina sta attraversando il parco a passi svelti, non si è rimessa la giacca nonostante il freddo. Sceglie una panchina, si siede e guarda su, verso di loro. Dalla borsa tira fuori un lecca-lecca e se lo ficca in bocca.
«Ma che cazzo fa?» chiede Sergej.
La ragazzina sta accarezzando il giubbotto, quindi si ferma, infila una mano nella manica e sorride, la stecca del lecca-lecca come una sigaretta spenta.
Con la mano libera saluta.
«Cristo santo» dice Alexej.
Giorgia si lascia alle spalle l’interno duecentoventi, suona dal signor Monaco. Sente un pantofolare svelto e la porta che si apre.
«Eccomi qua» dice.
Il signor Monaco sorride.
«Ed ecco il tuo biglietto.»
«Non so come ringraziarla» dice Giorgia.
«Ma figurati. Buona serata.»
«Anche a lei.»
Il signor Monaco chiude la porta che ancora sta sorridendo, Giorgia spera che non gli succeda nulla di male. Sale in ascensore, non guarda il panorama, respira con calma.
Scende al piano terra, Eva è ancora dietro al bancone, Elvis sta cantando “Hound Dog”.
Attraversa l’atrio in apnea, saluta con la mano, Eva risponde:
«Arrivederci.»
Quando è fuori respira. Il parco è deserto, fa un freddo da congelare i pinguini, ma almeno si è placato il vento. Giorgia attraversa il prato e sceglie una panchina da cui si possa vedere il lato del palazzo dove si trova l’ufficio di Ralenko. Si siede, conta fino a quattordici e arriva alla vetrata giusta. Dalla borsa tira fuori un lecca-lecca, lo scarta e se lo infila in bocca. Suo padre glieli comprava sempre, ogni volta che tornava a casa ne aveva uno per lei, e sempre di un sapore diverso. Quello che ha in bocca ora sa di fragola.
Accarezza il giubbotto, infila la mano nella manica, dove ha cucito una tasca nascosta. Nella tasca il congegno per azionare il detonatore elettrico. Nel tappo del barattolo con l’occhio di Ralenko c’è nitromannite, basta una piccola scintilla. Nel barattolo l'occhio di Ralenko è immerso nell'astrolite G. Suo padre le ha insegnato tante cose parecchio utili.
Giorgia fa ciao con la mano.
E il cielo è illuminato d’arancione.
Si è dimenticata di tapparsi le orecchie, che ora fischiano. Raccoglie le sue cose, attorno a lei c’è polvere e allarmi di macchine che ululano e vetri e calcinacci.
Mentre si allontana succhia il lecca-lecca e assapora una breve epistassi. In bocca sapore di fragola e ferro.