Mi chiamo Jan Van Riebeeck e in questi mesi che stanno per chiudere l'A.D. 1650 ho un mucchio di tempo da buttare.
La baleniera dove sono imbarcato come medico rolla al largo delle coste groenlandesi e sono sicuro che il capitano non abbia voglia di tornare in patria tanto presto. La caccia è andata male e metà dei barili che dovrebbero essere traboccanti d'olio sono vuoti. La maggior parte del tempo l'equipaggio lo passa allontanando i blocchi di ghiaccio che galleggiano attorno alla chiglia con lunghe aste dalla punta imbottita. Io invece, dato che non mi va di passeggiare sul ponte dove si congelano le lacrime, sto chiuso in infermeria e ho deciso di mettermi a scrivere.
Ho deciso che parlerò di me, ma per farlo racconterò la vita dell'uomo che mi ha cambiato.
Non ho mai voluto fare la fine di mio padre e passare tutta la vita ad amputare braccia e gambe di marinai luridi, ma prima di incontrare Miyamoto Musashi non avevo mai avuto l'intuizione giusta per provare a cambiare. Ora, invece, tra le mie carte, ho pronta la richiesta per intraprendere una spedizione in Africa, presso il Capo di Buona Speranza, indirizzata al Governatore generale della VOC Reyniersz.
Ho fiducia in me, nella mia idea.
Era il terzo anno dell'era Shoho. L'aprile dell'A.D. 1645. Ricordo bene che era primavera perché il glicine del santuario Yamadahiyoshi era in fiore e cascava dai pergolati, come un soffitto indaco. Soffiava una brezza dal mare e l'odore aspro delle alghe si mischiava a quello dei fiori. L'aria era così limpida che dal torii bianco che era l'ingresso al santuario si poteva vedere tutta la baia di Kumamoto, le spiagge di sabbia nera e il mare inquieto, e poi oltre, fino a scorgere le scogliere della penisola di Shimabara.
Conoscevo molto bene quelle zone del Giappone perché da diversi anni, in barba al kaikin e al suo divieto per gli occidentali di girare per il paese, lasciavo l'isola di Dejima, a Nagasaki, con la scusa di spedire a Edo dei trattati di chirurgia, godendo così di una certa libertà. Libertà che impegnavo in operazioni di contrabbando, facendomi pagare in argento la seta che importavo illegalmente da Tonchino. Un'attività, a dirla tutta, che più tardi mi costò l'allontanamento da quelle terre, ma di questo parlerò in seguito, perché nella disgrazia ho trovato forse la mia fortuna.
A Yamadahiyoshi mi recavo spesso per usufruire del servizio di spedizioni che i preti offrivano quando si spostavano con piccole carovane da un santuario Hiyoshi a un altro. Camminai in silenzio fino al chozuya per le abluzioni di rito. Mi bagnai le mani e il viso e rimasi a osservare le carpe nel laghetto e i meravigliosi komainu, i cani-leone a guardia del recinto sacro, scolpiti nella pietra. Fu allora che sentii del trambusto, inusuale per quel luogo di preghiera. Un vecchio samurai avanzava sotto al pergolato in fiore, così alto che i capelli, legati in una crocchia e ancora folti e crespi nonostante l'età, sfioravano i grappoli di glicine. Aveva l'hakama, i larghi calzoni per le arti marziali, legati al ginocchio, per non infastidirlo mentre camminava. Una macchia rossa sul viso, un eczema probabilmente, e un ghigno storto delle labbra, lo facevano assomigliare alla maschera di un demone. Chiunque lo vedesse si inchinava con rispetto e gli cedeva il passo. Ogni tanto tossiva, in maniera violenta, e si passava un fazzoletto sulle labbra.
Il vecchio mi raggiunse al chozuya, posò in terra il pacco che avrebbe dovuto spedire e cominciò a lavarsi. Faceva tutto con calma, ma si vedeva dalla tensione muscolare, dagli sguardi veloci, che era pronto a scattare in qualsiasi momento, come un animale selvatico. Quando finì si mise in attesa, con le braccia incrociate sulle spade che teneva alla cintola. Dopo un poco si avvicinò un prete.
"Musashi-sama sensei" disse "e Jan-sama, la carovana ha avuto dei ritardi, seguitemi, vi prego."
Annuii. Parlavo un discreto giapponese e quando il vecchio samurai lo capì sorrise e fece un cenno di approvazione col capo. Il prete ci condusse nella piccola anticamera del shamusho, gli uffici del santuario, una stanza che veniva usata per far attendere gli ospiti illustri. Era una sala fresca, spoglia, con dei tatami di stuoia sul pavimento. Il prete tenne le porte scorrevoli aperte e si congedò. Il vecchio si tolse le spade e si mise a sedere, con le gambe incrociate. Io lo imitai, anche se avevo sempre trovato quella posizione scomoda.
"Lei parla giapponese" disse. Non era una domanda. Come capii in seguito, non era uno che avesse domande da fare, perché viveva solo di certezze.
"Sono molti anni che ho il piacere di collaborare con i medici dello Shogun" spiegai, "ho imparato la vostra lingua da loro."
"Quei libri sono di medicina, quindi" disse.
"Fanno parte dell'accordo. Noi olandesi possiamo commerciare col Giappone in cambio di alcune nozioni di chirurgia e tecnica militare."
"Voi olandesi" bisbigliò il vecchio, "mi piacete. Gli altri non vogliono imparare, vogliono solo insegnare. Farci diventare come loro, cristiani e occidentali. Lei, ad esempio, non ha preteso che parlassi olandese per comunicare, ma ha avuto l'umiltà di imparare il giapponese."
Ero tentato di rispondere che in realtà del rispetto delle altre culture a noi olandesi non è che importasse molto; era più una questione pratica che ci muoveva, ma lasciai perdere.
"Vede" continuò il vecchio, indicando fuori dalla porta, "laggiù, si intravede Shimabara. Io ho combattuto là, contro i cristiani asserragliati nel castello di Hara. E sa chi venne ad aiutarci, bombardando il castello dal mare? Gli olandesi."
Il vecchio rise di gusto e si fermò solo quando un eccesso di tosse gli tolse il respiro.
"Gli olandesi" mormorò, "ci hanno aiutati a uccidere quasi trentamila cristiani. Ricordo che li decapitammo e che le teste rotolarono verso il mare. La schiuma delle onde divenne rossa. Una strage tremenda, ma necessaria, di cui gli unici responsabili sono stati i portoghesi e gli spagnoli. Gli olandesi lo hanno capito e ci hanno aiutato."
Anche su questo avrei avuto da obiettare, ma lo stupore di aver capito chi avevo davanti fu tale da farmi rimanere in silenzio. Conoscevo infatti solo un Musashi che aveva combattuto a Shimabara e che sapevo si era ritirato a vivere nella grotta Reigando, a Kumamoto.
"Lei è Musashi Miyamoto?" chiesi.
"Sono io" rispose.
Fu così che per puro caso rimasi da solo, in una stanza, per quasi quattro ore, con il maestro di spada più famoso di tutto il Giappone. Mi disse che era là, al santuario, per spedire al suo vecchio amico Kosuke Zushino una statuetta della dea Kwannon, che aveva appena scolpito. Me la mostrò. Il legno ancora profumava di resina. Era un lavoro magnifico, pieno di grazia ed equilibrio. Lo osservai estasiato. Mi spiegò che era arrivato a questa perfezione dopo lunghi anni di tentativi. Zushino era un togishi, un maestro affilatore di spade, che fuori dal suo negozio aveva fatto scrivere: qui si lucidano e si rimettono a nuovo le anime. Musashi lo aveva conosciuto qualche anno prima e rimase colpito da come Zushino fosse in sintonia con quello che anche lui pensava delle spade, che stavano col guerriero non per ferire, ma per preservare la propria umanità.
"A questo pensiero giunsi però dopo anni in cui avevo pensato il contrario" disse, scuotendo la testa.
Mi raccontò che da ragazzo era folle di rabbia, combatteva come un animale. Le persone avevano paura di lui, per la sua stazza, la macchia sulla faccia, i suoi capelli senza chommage, ma tenuti lunghi. Non si lavava, non curava la sua persona. Voleva distruggere il cielo e la terra, non aveva nessuna paura. Mi raccontò della sua vita e scoprii che avevamo delle cose in comune, come l'odio per il padre.
Il primo nome di Musashi era Takezo. Nacque a Miyamoto, in provincia. Suo padre, Munisai Shinmen, era un maestro di spada capace, ma non eccezionale. Un padre crudele, che ripudiò la moglie e si curò di lui solo quando notò il suo enorme potenziale. Takezo infatti crebbe più forte e selvaggio dei suoi coetanei. Il padre gli si riavvicinò, ma finì solo per umiliarlo con allenamenti estenuanti. Quando Munisai morì, l'unico rimpianto di Takezo fu quello di non essere mai riuscito a batterlo. Pazzo di rabbia contro il mondo si lanciò nell'impresa di voler diventare il più forte maestro di spada del Giappone, armato solo del suo istinto animale. A soli tredici anni vinse il suo primo duello, contro un samurai errante, Arima Kihei, tornato senza padrone dalla guerra di Corea. Takezo si sentì emarginato in una società che non tollerava l'eccezione né la bizzarria. A sedici anni combatté la più grande battaglia della storia del Giappone, a Sekigahara.
Ecco il racconto che mi fece della battaglia. Era il 21 ottobre del 1600.
"All'epoca ero ancora Takezo, il demone. Ero solo rabbia e istinto. A oggi non ho ancora capito come riuscii a scampare alla morte. Aveva piovuto per tutto il giorno e la notte. Avevo le vesti zuppe, ma non avevo freddo, perché il furore che portavo addosso in quel periodo mi scaldava le viscere. Non avevo un padrone da seguire, uno scopo, ero là solo per diventare un guerriero e scelsi di stare dalla parte dei Toyotomi quasi per caso. Avevo sedici anni, una spada, una placca di ferro sul petto. All'alba smise di piovere e si alzò una fitta nebbia. Ishida Mitsunari, il nostro comandante, ci fece marciare alla cieca e appostare sul fondo della valle. Il fiume Teradani era in piena e lo sentivo scorrere sulla sinistra. Quando la nebbia si dissolse, l'esercito di Ieyasu Tokugawa ci apparve davanti all'improvviso, brillante al sole con le armature bagnate. Alcuni di loro distavano da noi poche centinaia di metri. Ci fu un attimo di silenzio, poi le prime linee cominciarono la battaglia. Io scalpitavo nelle retrovie, aprendo e chiudendo la mano attorno all'elsa della spada, a ritmo del respiro. Mitsunari portò avanti i cannoni e ricacciò indietro alcune armate nemiche. Finalmente toccò a noi muoverci. Il terreno era talmente intriso d'acqua e ferito dai cavalli e dai samurai che lo avevano calpestato prima di noi che affondai nel fango fino al ginocchio. Mi muovevo come in sogno. Alzai la spada e cominciai a colpire, in estasi. Non durò molto, perché fu in quel momento che la carica degli uomini di Kobayakawa Hideaki ci colpì sul fianco. Hideaki era nostro alleato, ma tradì Mitsunari per vecchi dissapori personali. La forza del suo attacco, aumentata dalla velocità con cui i suoi uomini ci vennero addosso dal fianco del monte, ci sospinse verso il fiume. Io caddi in acqua, ma per fortuna ero leggero, vidi molti miei compagni morire affogati, spinti verso il fondo dal peso delle armature. Svenni, galleggiando tra i cadaveri. Maledetto Hideaki, il suo cambio di fazione portò alla vittoria dei Tokugawa e cambiò per sempre la storia del Giappone. La battaglia di tutte le battaglie decisa da un dispetto. Hideaki si pentì amaramente del suo gesto e morì due anni dopo, solo, folle e alcolizzato. Non ho certo pianto per lui."
Dopo Sekigahara i samurai finirono per conoscere la pace, ma se la guerra fu preclusa, la lotta divenne contro un nemico più temibile e sfuggente: se stessi. Molti samurai, come Musashi, divennero viandanti senza padrone, disoccupati. Ronin, letteralmente uomini onda, cioè agitati in ogni direzione.
Il suo percorso non fu solo quello del guerriero, ma anche quello dell'uomo, che deve regolare la sua anima e tenere a bada l'animale che ringhia dentro di lui. Takezo cambiò non solo nello spirito, ma anche nome, mutandolo in Musashi.
Negli anni del suo vagabondare vinse più di sessanta duelli, affinando la sua tecnica da autodidatta.
Dei suoi duelli più famosi si sente parlare ancora, come quando sfidò a Kyoto tutta la famiglia Yoshioka. Non volevano combattere contro uno sconosciuto, ma Musashi si ricordò che il padre Munisai aveva battuto, in passato, un componente della famiglia e sfruttò il ricordo dell'odiato genitore per provocarli. Armato solo di una spada di legno, un bokuto da allenamento, combatté contro tutti i fratelli Yoshioka. Fu la prima volta che studiò anche la psicologia dei suoi avversari, oltre che la loro tecnica, per riuscire a batterli. Contro i primi due fratelli arrivò infatti con più di tre ore di ritardo, destabilizzandoli, mentre con il terzo, che aveva solo dodici anni e che aveva preparato un imboscata, arrivò in forte anticipo, riuscendo a scoprire i sicari e uccidendo tutti.
Contro Shishido Baiken, maestro kusari gama, una falce attaccata una catena che bloccava la spada, Musashi riuscì a vincere usando sia la katana, che rimase incastrata, che la wakizashi, la spada corta. In quell'occasione nacque la tecnica regina della Niten ichi ryu, la scuola di Musashi: poiché l'uomo ha due mani, si servirà di due mani e due spade; lo scopo? La certezza del trionfo.
"Nell'alimentare lo spirito della vittoria si adoperi qualunque arma, di qualunque dimensione e qualsiasi espediente" disse. L'arte della sconfitta, tipica dei samurai, per Musashi non esiste, per lui non c'è onore senza vittoria.
L'ultimo duello, il più famoso, fu contro Sasaki Kojiro, detto Ganryu, il più forte spadaccino dell'ovest. Il duello si tenne in un'isola deserta, Funajima, al cospetto di Hosokawa Tadaoki e della sua corte. Musashi arrivò con più di otto ore di ritardo, disarmato. Durante il viaggio in barca modificò un remo, per farlo diventare un'arma. Ganryu lo accolse furioso, lanciò sulla spiaggia il fodero della sua spada, la famosa Monohoshi no sao, costruita duecento anni prima da Nagamitsu Bizen. Musashi saltò in mare, tenendo il remo nascosto sotto il pelo dell'acqua, per impedire al rivale di capire quanto fosse lungo. Si mise con il sole alle spalle, che stava ormai tramontando, una sagoma scura, enorme. Ganryu, accecato dal sole e dalla rabbia attaccò senza riflettere, da lontano, con il suo colpo più famoso, l'incrocio a coda di rondine, ma Musashi tirò fuori il remo dal mare, che era più lungo della spada dell'avversario, e con un salto lo colpì alla testa, uccidendolo.
Dopo quest'ultimo duello, che gli consegnò la gloria in tutto il paese, Musashi si ritirò e si dedicò all'arte della calligrafia, alla pittura, alla scultura e a insegnare.
"La gente del mondo sbaglia a osservare le cose e pensa che il vuoto sia ciò che non comprende, ma questo non è il vuoto autentico, è la confusione. Sviluppa una facoltà di giudizio intuitiva e cerca di comprendere tutte le cose, presta attenzione anche all'insignificante, pensa con profondità al mondo, e troverai la vittoria. Se si ha chiaro in mente qual è lo scopo della propria vita niente potrà impedire di perseguirlo" mi disse. Parole che per fortuna non ho mai dimenticato.
Quando la carovana arrivò consegnammo i nostri pacchi e ci salutammo. Seppi poi che solo due mesi dopo Musashi morì per una malattia ai polmoni. Quando spirò, mi dissero, ci fu un'esplosione in cielo e la notte si illuminò come fosse giorno.
Quella fu l'ultima volta che andai in Giappone, perché appena tornai a Tonchino fui accusato di contrabbando e rispedito in patria. Ma non la presi male. Cominciai davvero a guardare il mondo in modo diverso, ogni cosa era diventata un'opportunità, anche ciò che mi sembrava potesse segnare la fine di ogni mia speranza poteva invece essere l'inizio di qualcosa di grandioso. La nave partì da Batavia alla fine del 1648 e dopo una tempesta fummo costretti a fare una sosta al riparo nella baia della Tavola, nel sud dell'Africa. Mentre i marinai lavoravano alle riparazioni della nave e a caricare viveri e acqua, io mi misi a osservare l'oceano impetuoso dalla punta del Capo di Buona Speranza. Mia moglie si mise a leggere all'ombra di un albero, con una mano teneva il cappello e con l'altra il libro. Ricordo i capelli biondi sbatacchiati dal vento e le sue parole, in un raro momento che aveva alzato gli occhi dalle pagine.
"Cosa avrai da guardare tutto il tempo, non c'è nulla là in mezzo."
Il nulla, pensai, ma non è forse dove la gente vede vuoto e confusione, che l'uomo autentico deve riuscire a vedere un'opportunità? Una possibilità di vittoria? Sviluppa una facoltà di giudizio intuitiva e cerca di comprendere tutte le cose, presta attenzione anche all'insignificante, pensa con profondità al mondo, e troverai la vittoria. Così mi aveva detto Musashi. Osservai meglio, mi concentrai, cosa non capivo di quello che avevo davanti, di questa terra e questo mare selvaggio? Volsi il viso verso nord e notai che il moto ondoso andava scemando, compiva una spirale tornando verso sud e quasi scompariva nel punto in cui il nostro veliero era ormeggiato. Pensai agli indigeni, gente semplice, ma propensa al dialogo, non ostile. Pensai alle pellicce che indossavano, ai monili delle loro donne, doveva essere un territorio ricco di materie prime se persino loro, con la loro modesta tecnologia, riuscivano a estrarre l'oro dalle montagne. Misi ordine ai pensieri, vidi il futuro: un insediamento olandese, un nucleo abitativo, dei coloni. Le terre sembravano fertili, le navi della VOC avrebbero avuto un punto di sosta e rifornimenti organizzato, i coloni avrebbero potuto esplorare l'entroterra… le fantasie si rincorrevano nella mia testa, senza sosta alcuna. Rimasi a sorridere per non so quanto tempo, ebete, fissando il vuoto davanti a me. Vuoto che avevo imparato ormai a capire essere sempre pieno.
Tornato in Olanda accettai l'incarico su questa baleniera per non rimanere disoccupato, ma al contempo preparai una lettera ricca di buone argomentazioni per il Governatore Generale, un buon amico di mio padre. Nonostante tutto non mi dispiace usare il suo nome, anche se lo disprezzo, per ottenere un vantaggio. Anche questo è un insegnamento che ho appreso da Musashi: nella via della vittoria non esistono stratagemmi disonorevoli. Anche lui sfruttò il nome di suo padre per ottenere un duello contro gli Yoshioka, dopotutto.
Sento un grido, ora, devono aver avvistato una balena, finalmente. Meglio mi prepari, qualcuno potrebbe aver bisogno di me, tra non molto.