Episodio 1 - Susanna
Don Camillo, un’omonimia che comprende fisico e grinta, osserva con aria compiaciuta la sala della parrocchia, al cui ingresso campeggia uno striscione nuovo di zecca: “Pesca di beneficenza” e, più sotto, “entrata libera, uscita a pagamento”.
Un altro giorno avrebbe riso per questa trovata dei suoi ragazzi, ma non oggi: questa mattina tutto il paese ha dato l’addio ad Agnese, 84 anni, una vita spesa a lavorare e aiutare tutti: a curare orti e giardini, a spolverare e stirare, senza mai lamentarsi, col solo rimpianto di non aver avuto una famiglia sua.
Il prete l’ha affidata a quel Dio che, e non aveva scelta, adesso doveva occuparsi finalmente anche di lei: meglio sarebbe stato però se le avesse evitato quella stupida caduta dalla bicicletta, là sul vialetto che porta alla villa dell’avvocato Verdi.
Chissà perché stava andando così di fretta? In tanti l’avevano notata:
«Don Camillo, l’ho vista bene: piangeva e andava tutta a zigozago! Le ho urlato di fermarsi ma sa cosa mi ha detto? Remo Gatti, và cagher! Proprio così, lei che non dava dello stupido neanche a uno stupido.»
Il bussare alla porta distoglie il prete dai pensieri: sulla soglia c’è Stefano, il direttore della banca. Un bravo ragazzo, alla mano: in paese è benvoluto da tutti, sempre disponibile e gentile.
«Lo so, lo so: il conto è in rosso demonio!»
«No, don, solo arancione, ma con tutta ‘sta roba tornerà verde brillante.»
Stefano dà un’occhiata alla merce sugli scaffali:
«A casa di mia nonna c’era uno scatolone per la roba che era peccato buttare, da portare al prete per la fiera di San Martino.»
«Oh beh, è un classico. Qui c’è roba che da anni fa il giro del paese: parola delle mie donnette, che hanno una memoria! Sanno dirti…toh, di questa gondola, su quanti televisori è stata!»
«Eh, ma c’è anche del formaggio, stagionato.» In una cesta ci sono punte di Parmigiano, magari piccole, ma insomma.
«Anche l’assoluzione ha il suo prezzo! A certa gente fa più effetto questo che non preghiere recitate a tempo di record.»
I due se ne stanno un po’ in silenzio, poi don Camillo non resiste: è chiaro che qualcosa turba il ragazzo: «Di cosa mi vuoi parlare Stefano?»
Il salotto del prete, a prova di orecchie indiscrete, è un invito alle confidenze: mobili datati, tirati a lucido, tanti libri su vecchi scaffali e dalla finestra aperta entra il frinire delle cicale, ospiti del grande tiglio in cortile, la cui ombra arriva anche tra quelle mura fresche.
«Don, ti capita mai di aver voglia di mandare affanculo qualcuno? Ma di brutto.»
«Qualche volta lo faccio, sperando che il mio capo non senta! Siamo umani, caro mio.»
Stefano di alza e si affaccia alla finestra, con le mani in tasca: Don Camillo capisce al volo, è roba seria.
«Guarda che se piangi non perdi dei punti, anzi.»
«Lo so, ma è una storia… disgustosa. Anche di più, visto che riguarda Agnese.»
«Cosa?»
Stefano gli racconta la scena avvenuta in banca quel pomeriggio: una donna, scarmigliata e agitata, aveva chiesto del direttore, cui aveva allungato un paio di libretti di risparmio.
«Sono la nipote di Agnese Cotti. Voglio incassare questi libretti, erano della zia, mi servono per le spese del funerale. Poi lei mi deve dire anche se ci sono altri soldi. Sono l’unica erede, quindi è tutto mio.»
Stefano è ancora allibito:
«Capisci, don? Io so l’effetto dei soldi sulla gente, che ce ne siano o meno, ma cristo santo… scusa… tre ore prima questa stronza era in chiesa, ma aveva già fatto saltare cassetti e armadi. L’avrei insultata, ma mi sarei abbassato al suo livello.»
«Spese? Che spese? Agnese aveva pagato tutto da tempo. E tu cosa le hai detto?»
«Che non potevo dirle nulla, ed è vero, se non con una dichiarazione che fosse lei l’erede, meglio se redatta da un notaio, come da prassi. Basterebbe anche il Sindaco, ma se davvero le spetta qualcosa, glielo farò sudare.»
Don Camillo è scuro in volto: anche lui sa il male che fanno spesso i soldi sull’animo della gente.
«Detto tra noi», prosegue Stefano, «Agnese aveva una cassetta di sicurezza, dove teneva altri libretti e il testamento. Ogni mese sistemava i suoi conti, rileggeva il testamento e scriveva su un foglietto dove aveva nascosto i libretti in casa, poi mi abbracciava. E io lì come uno stupido, col groppo in gola… avrei dovuto dirle che le volevo bene.»
«Lo so, ma si pensa sempre di avere altre occasioni.»
«Sai cosa mi spiace? Che quando aprirà la cassetta, la nipote troverà il testamento, che non è registrato, e lo brucerà. E tu perderai un sacco di soldi. Eri tu l’erede. Solo tu.»
Don Camillo, senza parole, prende da un cassetto un mazzo di chiavi, una copia delle chiavi di casa di Agnese. Gliele aveva lasciate lei per sicurezza, dopo essere rimasta chiusa fuori un paio di volte.
«È questa la chiave?»
«Direi proprio di sì. Sai, il tuo capo comincia a piacermi. Vieni con me e niente ma.»
A casa di Agnese pare sia passato un uragano: Dina, la nipote, sta rileggendo una breve nota trovata nella tasca di un vecchio cappotto. Sul comò la foto di una donna, dallo sguardo severo.
Episodio 2 - CharAznable
«È inutile che mi guardi così. Non hai voluto darmi un po’ di soldi quando eri viva, adesso che sei morta me li prendo tutti. Mi piacerebbe solo capire dove hai messo quel maledetto testamento».
«Sei sicura che aveva fatto testamento?» da un ripostiglio esce la figura impolverata di Gianni, il figlio del fornaio.
«Più che sicura. Me l’aveva detto l’ultima volta che le ho chiesto dei soldi. “Da me non prenderai più un centesimo” mi aveva risposto, “ho già fatto testamento e a te non lascerò proprio nulla”.»
«Ma poteva farlo?»
«Non lo so, ma preferisco non rischiare. Stronza com’era quella vecchia mezza suora avrà lasciato tutto al suo amico prete. I miei soldi ai preti! Mi viene la pelle d’oca solo a pensarci.»
«E invece i suoi soldi dobbiamo goderceli noi! Ahahahahah.» esclama Gianni cercando di togliersi la polvere rimasta sulla felpa azzurra.
«I suoi soldi me li devo godere io dopo tutto quello che mi ha fatto passare. Dicono tutti che è una santa donna, ma non sanno quello che ho dovuto sopportare.»
«E io?»
«Tu avrai la tua parte solo se starai con me, sciocchino. Altrimenti…»
«Altrimenti?»
«Ora basta parlare. Fai andare le mani che dobbiamo cercare quel maledetto testamento».
«È giusta la cifra indicata sul testamento?» Don Camillo fissa sbalordito quel foglio a righe vergato con ordine dall’elegante scrittura di Agnese.
«Sì, giusta al centesimo. Tolti quei libretti di poco valore che ha riscosso la nipote. Poi c’è la casa in paese e altri due appartamenti in una palazzina nel centro della città.»
«Ma sono un sacco di soldi!» Il prete non si capacita che quella donnina umile e gentile possa aver lasciato un patrimonio così ingente.
«Sono un sacco di soldi sì. Capisci per quale motivo mi seccherebbe molto se dovessero realmente finire a quell’avvoltoio della nipote?»
Don Camillo sorride.
«La cosa ti diverte?»
«Mi diverte pensare alla faccia che farebbe la nipote se la “sua” eredità dovesse finire a un prete.»
Ripiega con cura il foglio mentre osserva la faccia perplessa dell’amico direttore.
«Ma davvero non hai capito chi è la nipote di Agnese?»
Episodio 3 - M. Mark o’Knee
L’atmosfera, nel salottino di Villa Verdi, è più cupa della tonaca del prete. Il funerale di Agnese, al quale hanno partecipato solo poche ore prima, e il fatto che la povera donna avesse avuto l’incidente proprio sul vialetto di casa loro hanno lasciato addosso a Dario Verdi e a sua moglie Veronica una cappa di tristezza e rabbia che non accenna a stemperarsi.
Veronica, ancora vestita a lutto, è seduta sul divano da quando ha rimesso piede in casa. I gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani a coprire il pallore del viso e gli occhi umidi, riesce a malapena a farfugliare Povera Agnese… Povera Agnese, incapace di togliersi dalla testa il volto tumefatto per la caduta e rigato di lacrime che si era trovata davanti quando, richiamata dalle grida, si era precipitata fuori.
Dario, invece, è rimasto in piedi e, l’immancabile sigaretta fra le dita, cammina avanti e indietro. Il tappeto ha già una specie di sentiero tracciato nella morbida lana. Fuma e sorseggia dal bicchiere nell’altra mano. Quattro passi, giravolta, quattro passi, giravolta, in silenzio, avvolto da volute grigie. Finché improvvisamente sbotta.
«Che idiota!» E scaglia il bicchiere nel vano del camino.
Veronica, risvegliata dal fracasso di vetri infranti, scatta in piedi e va ad abbracciare il marito, circondandolo da dietro con le braccia e appoggiandogli una guancia sulla schiena.
«Calmati, Dario… Non puoi fartene una colpa.»
«E invece sì, porco demonio! Per quale motivo pensi si sia precipitata qui, mezza accecata dalle lacrime, tanto da…? Qui. Da noi. Da noi che reputava suoi… Suoi… Amici.»
La donna coglie un fremito nelle spalle del marito. Lo fa voltare e lo fissa per un attimo negli occhi velati. Gli toglie la sigaretta dalle dita, spegnendola nel posacenere, e lo guida piano verso il divano. Il fremito ora si trasforma in un pianto smorzato, fatto di muco e singhiozzi, come quello di un bambino.
Veronica lascia che si sfoghi; poi gli porge il suo fazzoletto e riprende il discorso interrotto.
«Pensiamoci un attimo: dunque tu credi che Agnese, in qualche modo, abbia saputo che Dina si era rivolta a te per il testamento?»
«Certo che è così. Non può essere che così. Magari glielo ha detto proprio sua nipote, per farle rabbia. E io che ho fatto? Invece di rimandarla da dove è venuta, ho accettato! Che idiota. Che doppio idiota. Mi prenderei a sberle.»
E alza una mano verso il proprio viso, come se volesse darsela davvero, una sberla.
Veronica gli prende la mano fra le sue, prima che possa colpirsi.
«E io ti ripeto che non puoi – non devi – fartene una colpa. Non potevi rifiutarti di aiutarla. Semplicemente, non potevi. Per tutto l’affetto che hai sempre nutrito per sua madre, pace all’anima sua. Per l’affetto che, quando è morta Clotilde, nonostante tutto, hai riversato su sua figlia.»
Quasi nello stesso momento, alla banca, nell’ufficio del direttore, l’espressione di Stefano si è fatta ancora più perplessa: un punto interrogativo al posto della faccia.
«No, Don. Non ne ho la più pallida idea. Illuminami, per favore.»
«Hmm, sì, hai ragione. Certe beghe di paese non puoi conoscerle. È troppo poco tempo che sei qui.»
«Ma se siamo arrivati quasi insieme…»
«Sì, ma per un prete è diverso. È facile che alcune persone si sbottonino di più. Certamente di più che con un direttore di banca. Questioni di soldi a parte.»
«E allora?»
«Allora mi sa che dovrò raccontarti una storia.»
Agnese aveva una sorella maggiore di nome Clotilde che lavorava come domestica a Villa Verdi, negli anni in cui per “avvocato Verdi” si intendeva il vecchio Aurelio, il padre di Dario. Assumerla alla villa era stata quasi un’opera di carità cristiana, perché le due sorelle erano rimaste orfane e Clotilde doveva arrabattarsi per fare anche da madre ad Agnese.
La sorella maggiore era una bellissima ragazza: occhi e capelli neri come piume di corvo e forme prorompenti anche da sotto gli abiti castigati che indossava sia a servizio che nei rari momenti liberi. Erano in molti a farle la corte, ma Clotilde teneva tutti a debita distanza. Finché, una mattina, mentre faceva la spesa al mercato, capitò sotto gli occhi di Galeazzo Tinti, bello come il sole e fascista nell’anima, come suo padre e suo nonno lo erano stati prima di lui.
Bastò uno scambio di sguardi per far scoccare la scintilla. E il frutto di quella scintilla fu la piccola Dina. Che però non ha mai conosciuto suo padre: appena saputo che Clotilde era incinta, Galeazzo sparì dalla circolazione e l’ultimo avvistamento sembra sia stato in Sud America, non si sa bene se in Cile o Argentina.
Così quella povera figliola si ritrovò incastrata in un doppio ruolo di madre, dal quale non so come sarebbe uscita se non fosse stato per l’aiuto spassionato dell’avvocato Aurelio e di sua moglie.
«A volte, caro Stefano, sembra che il buon Dio – oppure il DNA, se preferisci – sia in vena di scherzi. Dina, in quanto a bellezza, ha ereditato poco dai genitori; ma in quanto a stronzaggine è il ritratto del padre: ribelle, un po’ vigliacca e agguerrita magnapreti.»
Episodio 4 - Gimbo
Don Camillo e Stefano si allontanano dalla banca, camminando a passo spedito per le vie del paese, diretti verso la casa di Agnese. Il sole del tardo pomeriggio filtra tra le fronde dei platani, proiettando ombre tremolanti sulla strada; tuttavia, la bellezza della giornata passa inosservata ai due uomini, entrambi assorti nei loro pensieri. L’aria è fresca, e il cielo sopra di loro sembra quasi voler sdrammatizzare l’intricata situazione che li attende. Il testamento, ripiegato con cura, sventola appena nella tasca della giacca di Stefano, mosso da un leggero vento autunnale.
Quando arrivano, trovano la porta della casa socchiusa. Don Camillo, dopo un profondo sospiro, spinge appena l’uscio, facendolo cigolare. La scena che li accoglie è desolante: cassetti rovesciati, vestiti sparsi dappertutto, perfino le mensole svuotate. È evidente che Dina e il suo compagno Gianni non abbiano avuto scrupoli nel cercare di recuperare ogni possibile tesoro.
«Che vergogna» sussurra Stefano, scuotendo la testa. «Questa non è la ricerca di un testamento, è sciacallaggio.»
«Ma guarda che bel comitato d’accoglienza!» esclama Don Camillo a voce alta e ferma, facendo trasalire i due giovani, che fino a quel momento non si erano accorti della loro presenza.
«Cosa ci fate qui? Questa è casa mia!» esclama Dina con una nota di stizza, mentre stringe un pacchetto di lettere ingiallite, come fossero la prova tangibile del suo diritto.
Stefano, con un’occhiata decisa, replica: «In realtà, nessuna di queste cose ti appartiene finché il testamento non sarà letto e rispettato.»
Dina ricambia lo sguardo con disprezzo. «Testamento? Oh, no, sono l’unica parente. Non c’è niente che possiate dire o fare per cambiare questo fatto. Mia zia non ha mai alzato un dito per aiutarmi, e ora mi prendo ciò che mi spetta.»
Don Camillo la osserva con fermezza, e la sua voce è calma ma autorevole: «Agnese ha sempre pensato agli altri, Dina. Non ha mai voluto molto per sé e di sicuro aveva un progetto anche per te.»
Gianni, fino a quel momento silenzioso, sogghigna e interviene con sarcasmo. «Siete proprio dei santi, voi due. Ma lasciateci almeno frugare in pace. Agnese aveva risparmiato un bel po’ e non vedo cosa ci sia di male a cercare di prenderci ciò che ci spetta.»
Dina scoppia a ridere, amara. «Eh sì! Ha pure lavorato gratis per tutti, tranne che per me.»
Stefano si avvicina di un passo, trattenendo a stento il disappunto. «Forse non hai mai cercato davvero di capire chi fosse Agnese e cosa tenesse nascosto.»
Dina sembra realizzare qualcosa; mette la mano in tasca ed estrae la nota stropicciata trovata nel vecchio cappotto della zia. Le sue mani tremano mentre la legge e la sua voce è un sussurro mentre pronuncia le parole di Agnese:
“Non importa quanto cerchi, il segreto è sempre stato lì dove non vuoi guardare.”
Gianni si avvicina per sbirciare, ma Dina lo ferma, alla ricerca del significato più profondo. Perplessa, si guarda intorno e gli occhi le cadono su un vecchio quadro, rovesciato nel caos. È il ritratto di suo padre, Galeazzo Tinti. Sin da bambina, Dina aveva provato fastidio per quel volto che le era sempre sembrato lontano e inespressivo, quasi un’ombra che Agnese teneva solo per dovere.
Stavolta, tuttavia, un pensiero le balena in mente. Con mani incerte, afferra il quadro e lo solleva, rigirandolo per esaminarlo meglio. La cornice è pesante e, toccandola, sente un angolo leggermente cedevole. Solleva il bordo con cautela, scoprendo un piccolo scomparto nascosto. All’interno, trova una busta di carta ingiallita.
Con il fiato sospeso, la estrae e, dopo un attimo di esitazione, apre e legge a voce alta:
“Cara Dina, se stai leggendo queste parole significa che hai trovato il coraggio di guardare il passato negli occhi. Quello che lascio alla parrocchia è il frutto del mio lavoro e del rispetto per la mia storia. Ma non ho dimenticato le radici della nostra famiglia. Ricordati da dove vieni: questa è la tua vera eredità.”
Un silenzio cala nella stanza e la testa di Dina si abbassa, mentre gli occhi tradiscono un dubbio che prima non aveva mai provato.
Don Camillo si avvicina, il suo tono più morbido ma fermo: «Agnese ti ha lasciato qualcosa di prezioso. Il vero tesoro non è mai stato nascosto tra queste mura, né nelle cose che puoi toccare con mano.»
Dina resta immobile, con la lettera stretta tra le dita e un’espressione assorta sul volto, come se qualcosa dentro di lei fosse cambiato. Poi, con uno scatto improvviso, esclama esultante: «Ha ragione la zia! Ho tutti i diritti per chiedere l’eredità dei Tinti! Gianni, vieni, dobbiamo correre subito da Dario.»
Don Camillo e Stefano si guardano per un istante. La loro espressione è un misto di rassegnazione e sconforto; non era questo l’insegnamento sperato. Stefano scuote appena la testa, posando infine una mano sulla spalla di Don Camillo. Quest’ultimo abbozza un sorriso incerto, sperando che forse un giorno Dina comprenderà. Per ora, tuttavia, sanno di aver evitato ulteriori danni nella casa di Agnese.
Episodio 5 – Albemasia
Veronica, seduta in corridoio, non perde d’occhio lo studio di Dario, dove da un’ora il marito è rinchiuso con Dina.
La sera prima Dina si è presentata in compagnia di Gianni, quell’uomo orribile, ma Dario li ha rispediti a casa. Lei, però, è tornata in mattinata da sola e Dario non ha più potuto procrastinare il momento della verità.
Quando finalmente vede la maniglia della porta abbassarsi, Veronica scatta in piedi.
«Dimmi una cosa Dina», sente il marito domandare alla donna. «Hai raccontato a tua zia che io e te avevamo parlato del suo testamento?»
«Le ho detto che avrei impugnato quel pezzo di carta a costo di rimetterci tutto quello che avevo. E che tu mi avresti aiutata», risponde Dina con una smorfia di amarezza, più che di rabbia. Poi se ne va senza salutare.
Veronica si avvicina a Dario posandogli una mano sul braccio.
«Glielo hai detto?», chiede. Dario annuisce.
«Le hai detto anche che Gioia…?» Dario fa no con la testa, poi gira su se stesso e torna a rinchiudersi nello studio.
Dina si aggira da ore per le strade del paese, incurante degli sguardi della gente. È talmente sconvolta, che non scorge nemmeno la figura di Don Camillo, fermo all’incrocio in sella alla bicicletta, che la osserva perplesso.
Dopo quel colloquio, si sta insinuando in lei il dubbio che Agnese si sia lanciata a rompicollo da Dario proprio a causa della sua minaccia di impugnare il testamento.
Ma questo non è l’unico motivo della sua inquietudine; Dina non si capacita del fatto che nessuno le abbia mai rivelato di avere una sorella. Già, perché, stando a quanto ha appena saputo, parecchio tempo dopo la sua nascita suo padre è tornato in Italia in compagnia di una moglie giovane e incinta. Ma se l’è goduta ben poco, perché, dopo aver dilapidato quasi tutto il patrimonio di famiglia, lei ha piantato in asso figlia e marito e a lui non è restato altro che attaccarsi alla bottiglia, che in breve lo ha portato alla tomba. Così a Villa Tinti è rimasta solo la figlia. Sua sorella Gioia, appunto.
All’improvviso Dina prende una decisione: sfumato anche il sogno dell’eredità paterna, vuole incontrare questa Gioia che ha avuto la fortuna di godersela grazie ai soldi dei Tinti, finché quel fesso di loro padre non se li è sputtanati tutti.
E così si fionda in stazione senza pensarci troppo. Per un attimo la sfiora l’idea di avvertire Gianni, ma quel pensiero evapora alla stessa velocità in cui le è venuto e in men che non si dica Dina si ritrova in viaggio sul locale delle due.
Via dei Tigli è una salita in fondo al paese e in cima campeggia una vecchia villa con l’intonaco scrostato. In passato deve essere stata una bella dimora, immagina Dina, ma ora sembra quasi disabitata. Si avvicina alla cancellata mezza arrugginita, cercando di scrutare all’interno attraverso la siepe incolta.
«Ciao, hai una caramella?» una voce alle sue spalle la fa sobbalzare. Dina si volta di scatto e vede una figura che pare essersi materializzata dal nulla. Una donna bassa, piuttosto in carne e dall’età indefinita le sorride a pochi centimetri dal viso. Dina non può non notare il taglio degli occhi. Sindrome di Down, pensa.
«Una caramella? No, non ce l’ho», risponde prima di tornare a scrutare in giardino, leggermente infastidita da quella presenza. Poi ci ripensa e le chiede: «Sai se ci abita qualcuno?»
L’altra si limita a fissarla e a sorriderle: Dina non riesce a distogliere lo sguardo da quel viso che irradia serenità. La cosa più curiosa è che a sorridere in quel volto tondo e pacioso sono soprattutto gli occhi.
All’improvviso la donna prende la mano di Dina nella sua; lei non si ritrae, anzi si abbandona a quella stretta calda e morbida, mentre la donna si avvicina al cancello, apre i battenti appena accostati e conduce Dina con sé nel giardino.
«Vieni,» le dice in tono rassicurante «io so chi abita qui», e fa una risatina. «A proposito, come ti chiami? Io sono Gioia».
Ma Dina non è sorpresa; è come se in cuor suo lo sapesse già.
«Già», gli fa eco l’altro mentre mescola le carte. «A proposito, poi che fine ha fatto Dina?» domanda distogliendo lo sguardo dal mazzo.
«Ma come, non lo sai?» lo stuzzica Don Camillo. «Si è trasferita a Villa Tinti».
«In che senso?» balbetta Stefano.
Così il prete aggiorna il giovane sull’incontro tra Dina e Gioia, la sorellastra, e sul fatto che Dina ha cominciato ad andarla a trovare tutte le settimane, finché poi ha deciso di stabilirsi alla Villa con lei.
«Almeno», aggiunge Don Camillo ingollando un sorso di tè freddo «ha smesso di dannarsi l’anima per la storia del testamento della zia».
«Già», chiosa Stefano facendo l’occhiolino. «Villa Tinti è pur sempre una gran bella sistemazione».
«E poi, se pensi che chi trova un amico trova un tesoro, Dina ha trovato addirittura una sorella!»
«Beh», conclude l’altro. «Una villa e un tesoro in un colpo solo: Dina è proprio cascata in piedi!»
Don Camillo, un’omonimia che comprende fisico e grinta, osserva con aria compiaciuta la sala della parrocchia, al cui ingresso campeggia uno striscione nuovo di zecca: “Pesca di beneficenza” e, più sotto, “entrata libera, uscita a pagamento”.
Un altro giorno avrebbe riso per questa trovata dei suoi ragazzi, ma non oggi: questa mattina tutto il paese ha dato l’addio ad Agnese, 84 anni, una vita spesa a lavorare e aiutare tutti: a curare orti e giardini, a spolverare e stirare, senza mai lamentarsi, col solo rimpianto di non aver avuto una famiglia sua.
Il prete l’ha affidata a quel Dio che, e non aveva scelta, adesso doveva occuparsi finalmente anche di lei: meglio sarebbe stato però se le avesse evitato quella stupida caduta dalla bicicletta, là sul vialetto che porta alla villa dell’avvocato Verdi.
Chissà perché stava andando così di fretta? In tanti l’avevano notata:
«Don Camillo, l’ho vista bene: piangeva e andava tutta a zigozago! Le ho urlato di fermarsi ma sa cosa mi ha detto? Remo Gatti, và cagher! Proprio così, lei che non dava dello stupido neanche a uno stupido.»
Il bussare alla porta distoglie il prete dai pensieri: sulla soglia c’è Stefano, il direttore della banca. Un bravo ragazzo, alla mano: in paese è benvoluto da tutti, sempre disponibile e gentile.
«Lo so, lo so: il conto è in rosso demonio!»
«No, don, solo arancione, ma con tutta ‘sta roba tornerà verde brillante.»
Stefano dà un’occhiata alla merce sugli scaffali:
«A casa di mia nonna c’era uno scatolone per la roba che era peccato buttare, da portare al prete per la fiera di San Martino.»
«Oh beh, è un classico. Qui c’è roba che da anni fa il giro del paese: parola delle mie donnette, che hanno una memoria! Sanno dirti…toh, di questa gondola, su quanti televisori è stata!»
«Eh, ma c’è anche del formaggio, stagionato.» In una cesta ci sono punte di Parmigiano, magari piccole, ma insomma.
«Anche l’assoluzione ha il suo prezzo! A certa gente fa più effetto questo che non preghiere recitate a tempo di record.»
I due se ne stanno un po’ in silenzio, poi don Camillo non resiste: è chiaro che qualcosa turba il ragazzo: «Di cosa mi vuoi parlare Stefano?»
Il salotto del prete, a prova di orecchie indiscrete, è un invito alle confidenze: mobili datati, tirati a lucido, tanti libri su vecchi scaffali e dalla finestra aperta entra il frinire delle cicale, ospiti del grande tiglio in cortile, la cui ombra arriva anche tra quelle mura fresche.
«Don, ti capita mai di aver voglia di mandare affanculo qualcuno? Ma di brutto.»
«Qualche volta lo faccio, sperando che il mio capo non senta! Siamo umani, caro mio.»
Stefano di alza e si affaccia alla finestra, con le mani in tasca: Don Camillo capisce al volo, è roba seria.
«Guarda che se piangi non perdi dei punti, anzi.»
«Lo so, ma è una storia… disgustosa. Anche di più, visto che riguarda Agnese.»
«Cosa?»
Stefano gli racconta la scena avvenuta in banca quel pomeriggio: una donna, scarmigliata e agitata, aveva chiesto del direttore, cui aveva allungato un paio di libretti di risparmio.
«Sono la nipote di Agnese Cotti. Voglio incassare questi libretti, erano della zia, mi servono per le spese del funerale. Poi lei mi deve dire anche se ci sono altri soldi. Sono l’unica erede, quindi è tutto mio.»
Stefano è ancora allibito:
«Capisci, don? Io so l’effetto dei soldi sulla gente, che ce ne siano o meno, ma cristo santo… scusa… tre ore prima questa stronza era in chiesa, ma aveva già fatto saltare cassetti e armadi. L’avrei insultata, ma mi sarei abbassato al suo livello.»
«Spese? Che spese? Agnese aveva pagato tutto da tempo. E tu cosa le hai detto?»
«Che non potevo dirle nulla, ed è vero, se non con una dichiarazione che fosse lei l’erede, meglio se redatta da un notaio, come da prassi. Basterebbe anche il Sindaco, ma se davvero le spetta qualcosa, glielo farò sudare.»
Don Camillo è scuro in volto: anche lui sa il male che fanno spesso i soldi sull’animo della gente.
«Detto tra noi», prosegue Stefano, «Agnese aveva una cassetta di sicurezza, dove teneva altri libretti e il testamento. Ogni mese sistemava i suoi conti, rileggeva il testamento e scriveva su un foglietto dove aveva nascosto i libretti in casa, poi mi abbracciava. E io lì come uno stupido, col groppo in gola… avrei dovuto dirle che le volevo bene.»
«Lo so, ma si pensa sempre di avere altre occasioni.»
«Sai cosa mi spiace? Che quando aprirà la cassetta, la nipote troverà il testamento, che non è registrato, e lo brucerà. E tu perderai un sacco di soldi. Eri tu l’erede. Solo tu.»
Don Camillo, senza parole, prende da un cassetto un mazzo di chiavi, una copia delle chiavi di casa di Agnese. Gliele aveva lasciate lei per sicurezza, dopo essere rimasta chiusa fuori un paio di volte.
«È questa la chiave?»
«Direi proprio di sì. Sai, il tuo capo comincia a piacermi. Vieni con me e niente ma.»
A casa di Agnese pare sia passato un uragano: Dina, la nipote, sta rileggendo una breve nota trovata nella tasca di un vecchio cappotto. Sul comò la foto di una donna, dallo sguardo severo.
Episodio 2 - CharAznable
«È inutile che mi guardi così. Non hai voluto darmi un po’ di soldi quando eri viva, adesso che sei morta me li prendo tutti. Mi piacerebbe solo capire dove hai messo quel maledetto testamento».
«Sei sicura che aveva fatto testamento?» da un ripostiglio esce la figura impolverata di Gianni, il figlio del fornaio.
«Più che sicura. Me l’aveva detto l’ultima volta che le ho chiesto dei soldi. “Da me non prenderai più un centesimo” mi aveva risposto, “ho già fatto testamento e a te non lascerò proprio nulla”.»
«Ma poteva farlo?»
«Non lo so, ma preferisco non rischiare. Stronza com’era quella vecchia mezza suora avrà lasciato tutto al suo amico prete. I miei soldi ai preti! Mi viene la pelle d’oca solo a pensarci.»
«E invece i suoi soldi dobbiamo goderceli noi! Ahahahahah.» esclama Gianni cercando di togliersi la polvere rimasta sulla felpa azzurra.
«I suoi soldi me li devo godere io dopo tutto quello che mi ha fatto passare. Dicono tutti che è una santa donna, ma non sanno quello che ho dovuto sopportare.»
«E io?»
«Tu avrai la tua parte solo se starai con me, sciocchino. Altrimenti…»
«Altrimenti?»
«Ora basta parlare. Fai andare le mani che dobbiamo cercare quel maledetto testamento».
«È giusta la cifra indicata sul testamento?» Don Camillo fissa sbalordito quel foglio a righe vergato con ordine dall’elegante scrittura di Agnese.
«Sì, giusta al centesimo. Tolti quei libretti di poco valore che ha riscosso la nipote. Poi c’è la casa in paese e altri due appartamenti in una palazzina nel centro della città.»
«Ma sono un sacco di soldi!» Il prete non si capacita che quella donnina umile e gentile possa aver lasciato un patrimonio così ingente.
«Sono un sacco di soldi sì. Capisci per quale motivo mi seccherebbe molto se dovessero realmente finire a quell’avvoltoio della nipote?»
Don Camillo sorride.
«La cosa ti diverte?»
«Mi diverte pensare alla faccia che farebbe la nipote se la “sua” eredità dovesse finire a un prete.»
Ripiega con cura il foglio mentre osserva la faccia perplessa dell’amico direttore.
«Ma davvero non hai capito chi è la nipote di Agnese?»
Episodio 3 - M. Mark o’Knee
L’atmosfera, nel salottino di Villa Verdi, è più cupa della tonaca del prete. Il funerale di Agnese, al quale hanno partecipato solo poche ore prima, e il fatto che la povera donna avesse avuto l’incidente proprio sul vialetto di casa loro hanno lasciato addosso a Dario Verdi e a sua moglie Veronica una cappa di tristezza e rabbia che non accenna a stemperarsi.
Veronica, ancora vestita a lutto, è seduta sul divano da quando ha rimesso piede in casa. I gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani a coprire il pallore del viso e gli occhi umidi, riesce a malapena a farfugliare Povera Agnese… Povera Agnese, incapace di togliersi dalla testa il volto tumefatto per la caduta e rigato di lacrime che si era trovata davanti quando, richiamata dalle grida, si era precipitata fuori.
Dario, invece, è rimasto in piedi e, l’immancabile sigaretta fra le dita, cammina avanti e indietro. Il tappeto ha già una specie di sentiero tracciato nella morbida lana. Fuma e sorseggia dal bicchiere nell’altra mano. Quattro passi, giravolta, quattro passi, giravolta, in silenzio, avvolto da volute grigie. Finché improvvisamente sbotta.
«Che idiota!» E scaglia il bicchiere nel vano del camino.
Veronica, risvegliata dal fracasso di vetri infranti, scatta in piedi e va ad abbracciare il marito, circondandolo da dietro con le braccia e appoggiandogli una guancia sulla schiena.
«Calmati, Dario… Non puoi fartene una colpa.»
«E invece sì, porco demonio! Per quale motivo pensi si sia precipitata qui, mezza accecata dalle lacrime, tanto da…? Qui. Da noi. Da noi che reputava suoi… Suoi… Amici.»
La donna coglie un fremito nelle spalle del marito. Lo fa voltare e lo fissa per un attimo negli occhi velati. Gli toglie la sigaretta dalle dita, spegnendola nel posacenere, e lo guida piano verso il divano. Il fremito ora si trasforma in un pianto smorzato, fatto di muco e singhiozzi, come quello di un bambino.
Veronica lascia che si sfoghi; poi gli porge il suo fazzoletto e riprende il discorso interrotto.
«Pensiamoci un attimo: dunque tu credi che Agnese, in qualche modo, abbia saputo che Dina si era rivolta a te per il testamento?»
«Certo che è così. Non può essere che così. Magari glielo ha detto proprio sua nipote, per farle rabbia. E io che ho fatto? Invece di rimandarla da dove è venuta, ho accettato! Che idiota. Che doppio idiota. Mi prenderei a sberle.»
E alza una mano verso il proprio viso, come se volesse darsela davvero, una sberla.
Veronica gli prende la mano fra le sue, prima che possa colpirsi.
«E io ti ripeto che non puoi – non devi – fartene una colpa. Non potevi rifiutarti di aiutarla. Semplicemente, non potevi. Per tutto l’affetto che hai sempre nutrito per sua madre, pace all’anima sua. Per l’affetto che, quando è morta Clotilde, nonostante tutto, hai riversato su sua figlia.»
Quasi nello stesso momento, alla banca, nell’ufficio del direttore, l’espressione di Stefano si è fatta ancora più perplessa: un punto interrogativo al posto della faccia.
«No, Don. Non ne ho la più pallida idea. Illuminami, per favore.»
«Hmm, sì, hai ragione. Certe beghe di paese non puoi conoscerle. È troppo poco tempo che sei qui.»
«Ma se siamo arrivati quasi insieme…»
«Sì, ma per un prete è diverso. È facile che alcune persone si sbottonino di più. Certamente di più che con un direttore di banca. Questioni di soldi a parte.»
«E allora?»
«Allora mi sa che dovrò raccontarti una storia.»
Agnese aveva una sorella maggiore di nome Clotilde che lavorava come domestica a Villa Verdi, negli anni in cui per “avvocato Verdi” si intendeva il vecchio Aurelio, il padre di Dario. Assumerla alla villa era stata quasi un’opera di carità cristiana, perché le due sorelle erano rimaste orfane e Clotilde doveva arrabattarsi per fare anche da madre ad Agnese.
La sorella maggiore era una bellissima ragazza: occhi e capelli neri come piume di corvo e forme prorompenti anche da sotto gli abiti castigati che indossava sia a servizio che nei rari momenti liberi. Erano in molti a farle la corte, ma Clotilde teneva tutti a debita distanza. Finché, una mattina, mentre faceva la spesa al mercato, capitò sotto gli occhi di Galeazzo Tinti, bello come il sole e fascista nell’anima, come suo padre e suo nonno lo erano stati prima di lui.
Bastò uno scambio di sguardi per far scoccare la scintilla. E il frutto di quella scintilla fu la piccola Dina. Che però non ha mai conosciuto suo padre: appena saputo che Clotilde era incinta, Galeazzo sparì dalla circolazione e l’ultimo avvistamento sembra sia stato in Sud America, non si sa bene se in Cile o Argentina.
Così quella povera figliola si ritrovò incastrata in un doppio ruolo di madre, dal quale non so come sarebbe uscita se non fosse stato per l’aiuto spassionato dell’avvocato Aurelio e di sua moglie.
«A volte, caro Stefano, sembra che il buon Dio – oppure il DNA, se preferisci – sia in vena di scherzi. Dina, in quanto a bellezza, ha ereditato poco dai genitori; ma in quanto a stronzaggine è il ritratto del padre: ribelle, un po’ vigliacca e agguerrita magnapreti.»
Episodio 4 - Gimbo
Don Camillo e Stefano si allontanano dalla banca, camminando a passo spedito per le vie del paese, diretti verso la casa di Agnese. Il sole del tardo pomeriggio filtra tra le fronde dei platani, proiettando ombre tremolanti sulla strada; tuttavia, la bellezza della giornata passa inosservata ai due uomini, entrambi assorti nei loro pensieri. L’aria è fresca, e il cielo sopra di loro sembra quasi voler sdrammatizzare l’intricata situazione che li attende. Il testamento, ripiegato con cura, sventola appena nella tasca della giacca di Stefano, mosso da un leggero vento autunnale.
Quando arrivano, trovano la porta della casa socchiusa. Don Camillo, dopo un profondo sospiro, spinge appena l’uscio, facendolo cigolare. La scena che li accoglie è desolante: cassetti rovesciati, vestiti sparsi dappertutto, perfino le mensole svuotate. È evidente che Dina e il suo compagno Gianni non abbiano avuto scrupoli nel cercare di recuperare ogni possibile tesoro.
«Che vergogna» sussurra Stefano, scuotendo la testa. «Questa non è la ricerca di un testamento, è sciacallaggio.»
«Ma guarda che bel comitato d’accoglienza!» esclama Don Camillo a voce alta e ferma, facendo trasalire i due giovani, che fino a quel momento non si erano accorti della loro presenza.
«Cosa ci fate qui? Questa è casa mia!» esclama Dina con una nota di stizza, mentre stringe un pacchetto di lettere ingiallite, come fossero la prova tangibile del suo diritto.
Stefano, con un’occhiata decisa, replica: «In realtà, nessuna di queste cose ti appartiene finché il testamento non sarà letto e rispettato.»
Dina ricambia lo sguardo con disprezzo. «Testamento? Oh, no, sono l’unica parente. Non c’è niente che possiate dire o fare per cambiare questo fatto. Mia zia non ha mai alzato un dito per aiutarmi, e ora mi prendo ciò che mi spetta.»
Don Camillo la osserva con fermezza, e la sua voce è calma ma autorevole: «Agnese ha sempre pensato agli altri, Dina. Non ha mai voluto molto per sé e di sicuro aveva un progetto anche per te.»
Gianni, fino a quel momento silenzioso, sogghigna e interviene con sarcasmo. «Siete proprio dei santi, voi due. Ma lasciateci almeno frugare in pace. Agnese aveva risparmiato un bel po’ e non vedo cosa ci sia di male a cercare di prenderci ciò che ci spetta.»
Dina scoppia a ridere, amara. «Eh sì! Ha pure lavorato gratis per tutti, tranne che per me.»
Stefano si avvicina di un passo, trattenendo a stento il disappunto. «Forse non hai mai cercato davvero di capire chi fosse Agnese e cosa tenesse nascosto.»
Dina sembra realizzare qualcosa; mette la mano in tasca ed estrae la nota stropicciata trovata nel vecchio cappotto della zia. Le sue mani tremano mentre la legge e la sua voce è un sussurro mentre pronuncia le parole di Agnese:
“Non importa quanto cerchi, il segreto è sempre stato lì dove non vuoi guardare.”
Gianni si avvicina per sbirciare, ma Dina lo ferma, alla ricerca del significato più profondo. Perplessa, si guarda intorno e gli occhi le cadono su un vecchio quadro, rovesciato nel caos. È il ritratto di suo padre, Galeazzo Tinti. Sin da bambina, Dina aveva provato fastidio per quel volto che le era sempre sembrato lontano e inespressivo, quasi un’ombra che Agnese teneva solo per dovere.
Stavolta, tuttavia, un pensiero le balena in mente. Con mani incerte, afferra il quadro e lo solleva, rigirandolo per esaminarlo meglio. La cornice è pesante e, toccandola, sente un angolo leggermente cedevole. Solleva il bordo con cautela, scoprendo un piccolo scomparto nascosto. All’interno, trova una busta di carta ingiallita.
Con il fiato sospeso, la estrae e, dopo un attimo di esitazione, apre e legge a voce alta:
“Cara Dina, se stai leggendo queste parole significa che hai trovato il coraggio di guardare il passato negli occhi. Quello che lascio alla parrocchia è il frutto del mio lavoro e del rispetto per la mia storia. Ma non ho dimenticato le radici della nostra famiglia. Ricordati da dove vieni: questa è la tua vera eredità.”
Un silenzio cala nella stanza e la testa di Dina si abbassa, mentre gli occhi tradiscono un dubbio che prima non aveva mai provato.
Don Camillo si avvicina, il suo tono più morbido ma fermo: «Agnese ti ha lasciato qualcosa di prezioso. Il vero tesoro non è mai stato nascosto tra queste mura, né nelle cose che puoi toccare con mano.»
Dina resta immobile, con la lettera stretta tra le dita e un’espressione assorta sul volto, come se qualcosa dentro di lei fosse cambiato. Poi, con uno scatto improvviso, esclama esultante: «Ha ragione la zia! Ho tutti i diritti per chiedere l’eredità dei Tinti! Gianni, vieni, dobbiamo correre subito da Dario.»
Don Camillo e Stefano si guardano per un istante. La loro espressione è un misto di rassegnazione e sconforto; non era questo l’insegnamento sperato. Stefano scuote appena la testa, posando infine una mano sulla spalla di Don Camillo. Quest’ultimo abbozza un sorriso incerto, sperando che forse un giorno Dina comprenderà. Per ora, tuttavia, sanno di aver evitato ulteriori danni nella casa di Agnese.
Episodio 5 – Albemasia
Veronica, seduta in corridoio, non perde d’occhio lo studio di Dario, dove da un’ora il marito è rinchiuso con Dina.
La sera prima Dina si è presentata in compagnia di Gianni, quell’uomo orribile, ma Dario li ha rispediti a casa. Lei, però, è tornata in mattinata da sola e Dario non ha più potuto procrastinare il momento della verità.
Quando finalmente vede la maniglia della porta abbassarsi, Veronica scatta in piedi.
«Dimmi una cosa Dina», sente il marito domandare alla donna. «Hai raccontato a tua zia che io e te avevamo parlato del suo testamento?»
«Le ho detto che avrei impugnato quel pezzo di carta a costo di rimetterci tutto quello che avevo. E che tu mi avresti aiutata», risponde Dina con una smorfia di amarezza, più che di rabbia. Poi se ne va senza salutare.
Veronica si avvicina a Dario posandogli una mano sul braccio.
«Glielo hai detto?», chiede. Dario annuisce.
«Le hai detto anche che Gioia…?» Dario fa no con la testa, poi gira su se stesso e torna a rinchiudersi nello studio.
Dina si aggira da ore per le strade del paese, incurante degli sguardi della gente. È talmente sconvolta, che non scorge nemmeno la figura di Don Camillo, fermo all’incrocio in sella alla bicicletta, che la osserva perplesso.
Dopo quel colloquio, si sta insinuando in lei il dubbio che Agnese si sia lanciata a rompicollo da Dario proprio a causa della sua minaccia di impugnare il testamento.
Ma questo non è l’unico motivo della sua inquietudine; Dina non si capacita del fatto che nessuno le abbia mai rivelato di avere una sorella. Già, perché, stando a quanto ha appena saputo, parecchio tempo dopo la sua nascita suo padre è tornato in Italia in compagnia di una moglie giovane e incinta. Ma se l’è goduta ben poco, perché, dopo aver dilapidato quasi tutto il patrimonio di famiglia, lei ha piantato in asso figlia e marito e a lui non è restato altro che attaccarsi alla bottiglia, che in breve lo ha portato alla tomba. Così a Villa Tinti è rimasta solo la figlia. Sua sorella Gioia, appunto.
All’improvviso Dina prende una decisione: sfumato anche il sogno dell’eredità paterna, vuole incontrare questa Gioia che ha avuto la fortuna di godersela grazie ai soldi dei Tinti, finché quel fesso di loro padre non se li è sputtanati tutti.
E così si fionda in stazione senza pensarci troppo. Per un attimo la sfiora l’idea di avvertire Gianni, ma quel pensiero evapora alla stessa velocità in cui le è venuto e in men che non si dica Dina si ritrova in viaggio sul locale delle due.
Via dei Tigli è una salita in fondo al paese e in cima campeggia una vecchia villa con l’intonaco scrostato. In passato deve essere stata una bella dimora, immagina Dina, ma ora sembra quasi disabitata. Si avvicina alla cancellata mezza arrugginita, cercando di scrutare all’interno attraverso la siepe incolta.
«Ciao, hai una caramella?» una voce alle sue spalle la fa sobbalzare. Dina si volta di scatto e vede una figura che pare essersi materializzata dal nulla. Una donna bassa, piuttosto in carne e dall’età indefinita le sorride a pochi centimetri dal viso. Dina non può non notare il taglio degli occhi. Sindrome di Down, pensa.
«Una caramella? No, non ce l’ho», risponde prima di tornare a scrutare in giardino, leggermente infastidita da quella presenza. Poi ci ripensa e le chiede: «Sai se ci abita qualcuno?»
L’altra si limita a fissarla e a sorriderle: Dina non riesce a distogliere lo sguardo da quel viso che irradia serenità. La cosa più curiosa è che a sorridere in quel volto tondo e pacioso sono soprattutto gli occhi.
All’improvviso la donna prende la mano di Dina nella sua; lei non si ritrae, anzi si abbandona a quella stretta calda e morbida, mentre la donna si avvicina al cancello, apre i battenti appena accostati e conduce Dina con sé nel giardino.
«Vieni,» le dice in tono rassicurante «io so chi abita qui», e fa una risatina. «A proposito, come ti chiami? Io sono Gioia».
Ma Dina non è sorpresa; è come se in cuor suo lo sapesse già.
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«Se penso che è già passato un anno dalla morte della povera Agnese», sospira Don Camillo seduto a un tavolino del bar dell’oratorio, in compagnia di Stefano.«Già», gli fa eco l’altro mentre mescola le carte. «A proposito, poi che fine ha fatto Dina?» domanda distogliendo lo sguardo dal mazzo.
«Ma come, non lo sai?» lo stuzzica Don Camillo. «Si è trasferita a Villa Tinti».
«In che senso?» balbetta Stefano.
Così il prete aggiorna il giovane sull’incontro tra Dina e Gioia, la sorellastra, e sul fatto che Dina ha cominciato ad andarla a trovare tutte le settimane, finché poi ha deciso di stabilirsi alla Villa con lei.
«Almeno», aggiunge Don Camillo ingollando un sorso di tè freddo «ha smesso di dannarsi l’anima per la storia del testamento della zia».
«Già», chiosa Stefano facendo l’occhiolino. «Villa Tinti è pur sempre una gran bella sistemazione».
«E poi, se pensi che chi trova un amico trova un tesoro, Dina ha trovato addirittura una sorella!»
«Beh», conclude l’altro. «Una villa e un tesoro in un colpo solo: Dina è proprio cascata in piedi!»