«No, te lo dico, che io questo po’ po’ di giardino… non se ne parla! Poi magari ci offrirà due soldi, la vecchiaccia, anzi scusa, la contessa.»
«Certo, perché a due soldi ora come ora ci sputi sopra, come con l’affitto.»
Dino e Leo, recenti disoccupati senza famiglia in cerca di un lavoro light, furono accolti all’entrata della villa da quella che avrebbero scoperto di lì a poco essere la governante e che, dopo averli squadrati per bene, li accompagnò al cospetto della vecchiaccia.
Donna Matilde, come si presentò, cercava personale per la tenuta, più precisamente uno o due factotum per i lavori in villa, tipo lavare i vetri, pulire i tappeti… l’immondizia. Bassa manovalanza insomma.
Quando si parlò di soldi, e non erano due soldi, i ragazzi si informarono sul giardino: «No, a quello ci pensa un’impresa, salvo un piccolo giardino proprio dietro la villa, ma è poca roba. Per due giovanotti è una passeggiata.»
L’elenco delle mansioni giornaliere consegnato dalla governante andò in pareggio col vitto e l’alloggio, un paio di stanze in mansarda. Un giorno libero la settimana, ma meglio di niente, quindi firmarono il contratto. Alla fine del primo mese, con la paga in tasca, concordarono di aver fatto un affare: lavoro ce n’era, ma in due si andava di lusso. Se poi ci si mettevano di buona lena, prima o poi avrebbero potuto permettersi uno scooter per qualche giro in città.
«Certo che di gente strana ce n’è un botto. Guarda qui,» disse un giorno Leo mentre raccoglievano le foglie nel giardino privatissimo di donna Matilde «in memoria di Fred, di Giko, di Rock...»
«Saranno i cani che ha avuto. Se tanto mi dà tanto, per come tratta quel botolo di Dick, una tomba è il meno. Che roba! Ognuno col suo bell’albero.»
«Sarà per le pisciatine. Urca, adesso mi scappa: io scelgo quello là.»
Nel giardino c’erano infatti una quindicina di alberi, alcuni piuttosto vecchi, altri più giovani, ognuno dedicato a un quattrozampe. I due videro spesso la padrona passeggiare sul vialetto e fermarsi accanto a quei piccoli tumuli, a volte ridacchiando, a volte con l’atteggiamento di chi sta rimproverando.
Qualche mese dopo Dino dovette assentarsi per alcune settimane: una sorta di viaggio premio, per accompagnare donna Matilde prima alle terme e poi in una clinica per non ben specificate cure mediche. Se si aspettava un po’ di tempo per sé, andò deluso: la donna aveva sempre un sacco di impegni, tanto che Dino riuscì a parlare con Leo solo un paio di volte, per pochi minuti.
Al ritorno trovò Leo in uno stato pietoso: dimagrito, pallido e soprattutto spaventatissimo.
Quando furono soli, balbettando sottovoce e guardandosi in giro con aria guardinga, Leo implorò l’amico di portarlo via, anzi, dovevano scappare entrambi.
«Dobbiamo andarcene, stanotte. Lasciamo qui tutto…»
«Ma si può sapere cosa è successo? Cazzo, sembri uno uscito da un campo di concentramento.»
«Queste sono pazze! Pazze da legare. Se…se…senti, un giorno Dick è scappato nel giardino di dietro e ha cominciato a scavare sotto all’albero più piccolo. Sembrava indemoniato. La governante se n’è accorta, si è incazzata con me, come fosse colpa mia. Poi…» adesso era stravolto, «poi mi ha messo un collare, come un cane, mi ha fatto tornare in giardino, a quattro zampe, e costretto a sistemare la terra, raspando con mani e piedi, e anche col naso.»
Leo piangeva, scosso dai singhiozzi quasi non riusciva a respirare, finì per graffiarsi le braccia tanto era disperato.
«Cristo! E tu non hai fatto niente?»
«E come? È forte quella, sai? Molto forte. Mi strattonava, pensavo di soffocare. E non è tutto: da quel giorno quando la incontro, devo mettermi a quattro zampe, uggiolare… mangio nella ciotola, ma cibo per cani. E se non faccio i lavori come vuole lei, prende un giornale arrotolato e, guarda qua che lividi.»
Abbassando lo sguardo, confidò all’amico che anche per i suoi bisogni doveva comportarsi come un cane.
Dino era senza parole: non era un tipo da smancerie o roba simile, ma quella notte lasciò che Leo dormisse con lui. Lo sentì piangere e tremare nel sonno e quando suonò la sveglia lo vide scattare, vestirsi in fretta e… mettersi un collare al collo, con tanto di guinzaglio prima di uscire.
Dino cercò di rincorrerlo ma si trovò la porta sbarrata dalla governante, con un altro collare e un altro guinzaglio:
«Questa è la tua nuova divisa: penso che quello sporcapercasa ti abbia detto come vanno le cose adesso. La bella vita è finita, mio caro. Da oggi ti chiami Babbeo, non è un gran nome per un cane, ma per un bastardo come te va più che bene. Lui si chiama Pepe, come quello che gli metterò in culo se non mi obbedirà. E vale anche per te. Capito?»
A sancire le nuove regole ci pensarono un frustino e l’impaccio di camminare a quattro zampe. Anche Dino finì per dimagrire: il cibo non era certo adatto ai due ragazzi, bastava giusto per dare loro l’energia per svolgere i lavori assegnati; inoltre portavano sempre il collare e col guinzaglio lungo, fissato a dei ganci presenti nelle stanze, in modo che potessero svolgere le loro mansioni.
Nei giorni in cui i giardinieri erano presenti in villa, i due venivano chiusi nello scantinato, dove adesso dormivano: i letti erano stati sostituiti da scomode brandine, con vecchie coperte che appena bastavano per tenerli un po’ al caldo.
Quando trovavano il coraggio di guardarsi negli occhi, vedevano il vuoto: erano annichiliti, non potevano comunicare con nessuno, nessuno li avrebbe mai cercati, senza una famiglia o amici che si preoccupassero per la loro assenza.
Il primo a morire fu Leo: si strozzò mentre era in giardino, girando attorno a uno degli alberi finchè ebbe catena, sotto gli occhi della governante che tenne a distanza Dino, che cercava di aiutare l’amico.
Dino fu costretto a scavare la fossa per Leo, a mani nude, spingendone poi il corpo con mento e le spalle.
Il giorno dopo piantumò un nuovo albero, a cui dovette fissare una nuova targhetta.
Tempo una settimana, dalla finestrella della cantina, vide arrivare un ragazzo che a passo spedito risalì il vialetto. Aveva solo uno zaino. Come Dino e Leo.