Finito il corso di aggiornamento sui DSA, giro per Milano senza meta. L’aereo per Palermo parte domani.
Mi diverto a sorridere ai passanti. Qui non sono abituati alla gente che sorride.
Lei invece risponde subito al mio sorriso. In verità, lo fa con tutti, da un manifesto elettorale. Bianca, sono più di vent’anni che non la vedo. Di lì a poco avrebbe avuto un incontro con gli elettori in un circolo ARCI, poco lontano.
Per uno che bighellona senza meta, equivale a un invito a nozze.
Smettetela di ridacchiare, so cosa vi passa per la mente. Curiosa associazione mentale: pensare alle nozze quando si rivede un vecchio amore.
La sala non è piena: la politica non tira più come una volta, e neanch’io son qui per quella. Mi siedo in quarta fila.
Sento arrivare la sua voce dietro di me e con questa un tuffo al cuore. Resisto alla tentazione di girarmi, non voglio essere riconosciuto o, peggio, non esserlo.
Si siede, sorridendo alla platea. Una compagna inizia a parlare.
Non vi posso nascondere proprio nulla; è chiaro da che parte sta Bianca e da che parte sto io.
Io sono stato sempre da una parte, questa; è la parte che si è spesso spostata e ora come ora non so bene dove sia.
Penso alla prima volta che Bianca mi prese la mano. Finita la riunione del collettivo universitario, si decise di andare in pizzeria. Vengo con te, disse, mentre mi avviavo alla macchina, e mi prese la mano. E con la mano si prese tutto il resto di me, per sempre.
Questo non ditelo in giro che ho due figlie, moglie e una reputazione di bravo insegante.
In pizzeria non arrivammo mai, andammo per i fatti nostri. E ci rimanemmo per tre anni. Poi, non so, non ho mai capito bene. Io rimasi solo con la mia matematica, a fare i calcoli della sua assenza. Ho preso anche il dottorato, ma il teorema di Bianca non l’ho mai capito.
Lo so che state pensando. Ero noioso: io, la matematica, la politica, la mamma vedova.
Si, le avevo presentato mia mamma. I suoi non li ho mai incontrati.
Pensate che volesse dire qualcosa? Non fate tanto i professori con me che insegno da tredici anni.
Mentre mi perdo in questi pensieri, le persone davanti a me si alzano. Maleducati e inopportuni, perché ora è come se stessi in prima fila.
Infatti, lei mi vede sorpresa. Sorride e fa un cenno di saluto. La sua voce si interrompe e riprende con un tono diverso, quasi commosso. Almeno, così mi sembra.
Sono fregato. La tentazione di andar via dura solo un attimo.
Nessun commento, per favore. Ho già a che fare con la mia coscienza.
Vivo come in sospeso l’ora successiva: non sento lei, non sento il dibattito. Ne ho sentiti tanti, sempre diversi, sempre dannatamente uguali. Vorrei che questo non-tempo continuasse per sempre.
“Senza barba, Arturo, quasi non ti riconoscevo”. Ci siamo seduti al tavolo del bar.
Me l’ero tagliata, quando ero guarito dalla malattia di lei, tentando di cambiare vita.
È un po’ più rotonda, ma questo la rende più accogliente. I suoi occhi sono rimasti speciali; il colore muta fra il castano e il verde, a seconda della luce, del suo umore o Dio sa cosa. La prendevo in giro perché quando era eccitata erano di un verde intenso.
“Tu mi voti, no?”
“Non posso. In Sicilia non ci.”
“Allora sei tornato! Tua mamma?”
Dopo vent’anni, certe domande sono pericolose. Non rispondo.
“Mi dispiace.”
Pone una mano sulla mia e la stringe leggermente. Ancora una volta. Sono proprio fottuto.
La guardo negli occhi; è una mia impressione o stanno virando verso il verde?
Le racconto cosa faccia nella vita e quel giorno a Milano.
So cosa vi state chiedendo. Mi costituisco: di moglie e figlie non ho parlato.
“Un insegnante? Che spreco, sei un genio.”
Un’altra che non ha capito, penso.
“Sei libero stasera? Ceniamo insieme? Così mi racconti tutto di te.”
Potevo dirle di no?
“Ora scappo. Ci vediamo alle nove, in albergo.”
Albergo che abbiamo scoperto di condividere.
Va a incontrare degli operai che lottano per conservare il posto di lavoro.
Chissà se quegli operai riusciranno a salvare la loro fabbrica, so che salvano la mia vita.
Torno di corsa in albergo, faccio la valigia. E fuggo via. Senza di loro non ce l’avrei fatta.
Fuggo in treno verso la Sicilia e la mia vita tranquilla.
Anche voi sorriderete, immaginando un corteo, stile anni settanta, in bianco e nero?
Gli operai di Bianca e i miei studenti gridano brandendo fieri il pugno chiuso:
“Operai, studenti uniti nella lotta, la vita di Arturo non si tocca”.
Mi diverto a sorridere ai passanti. Qui non sono abituati alla gente che sorride.
Lei invece risponde subito al mio sorriso. In verità, lo fa con tutti, da un manifesto elettorale. Bianca, sono più di vent’anni che non la vedo. Di lì a poco avrebbe avuto un incontro con gli elettori in un circolo ARCI, poco lontano.
Per uno che bighellona senza meta, equivale a un invito a nozze.
Smettetela di ridacchiare, so cosa vi passa per la mente. Curiosa associazione mentale: pensare alle nozze quando si rivede un vecchio amore.
La sala non è piena: la politica non tira più come una volta, e neanch’io son qui per quella. Mi siedo in quarta fila.
Sento arrivare la sua voce dietro di me e con questa un tuffo al cuore. Resisto alla tentazione di girarmi, non voglio essere riconosciuto o, peggio, non esserlo.
Si siede, sorridendo alla platea. Una compagna inizia a parlare.
Non vi posso nascondere proprio nulla; è chiaro da che parte sta Bianca e da che parte sto io.
Io sono stato sempre da una parte, questa; è la parte che si è spesso spostata e ora come ora non so bene dove sia.
Penso alla prima volta che Bianca mi prese la mano. Finita la riunione del collettivo universitario, si decise di andare in pizzeria. Vengo con te, disse, mentre mi avviavo alla macchina, e mi prese la mano. E con la mano si prese tutto il resto di me, per sempre.
Questo non ditelo in giro che ho due figlie, moglie e una reputazione di bravo insegante.
In pizzeria non arrivammo mai, andammo per i fatti nostri. E ci rimanemmo per tre anni. Poi, non so, non ho mai capito bene. Io rimasi solo con la mia matematica, a fare i calcoli della sua assenza. Ho preso anche il dottorato, ma il teorema di Bianca non l’ho mai capito.
Lo so che state pensando. Ero noioso: io, la matematica, la politica, la mamma vedova.
Si, le avevo presentato mia mamma. I suoi non li ho mai incontrati.
Pensate che volesse dire qualcosa? Non fate tanto i professori con me che insegno da tredici anni.
Mentre mi perdo in questi pensieri, le persone davanti a me si alzano. Maleducati e inopportuni, perché ora è come se stessi in prima fila.
Infatti, lei mi vede sorpresa. Sorride e fa un cenno di saluto. La sua voce si interrompe e riprende con un tono diverso, quasi commosso. Almeno, così mi sembra.
Sono fregato. La tentazione di andar via dura solo un attimo.
Nessun commento, per favore. Ho già a che fare con la mia coscienza.
Vivo come in sospeso l’ora successiva: non sento lei, non sento il dibattito. Ne ho sentiti tanti, sempre diversi, sempre dannatamente uguali. Vorrei che questo non-tempo continuasse per sempre.
“Senza barba, Arturo, quasi non ti riconoscevo”. Ci siamo seduti al tavolo del bar.
Me l’ero tagliata, quando ero guarito dalla malattia di lei, tentando di cambiare vita.
È un po’ più rotonda, ma questo la rende più accogliente. I suoi occhi sono rimasti speciali; il colore muta fra il castano e il verde, a seconda della luce, del suo umore o Dio sa cosa. La prendevo in giro perché quando era eccitata erano di un verde intenso.
“Tu mi voti, no?”
“Non posso. In Sicilia non ci.”
“Allora sei tornato! Tua mamma?”
Dopo vent’anni, certe domande sono pericolose. Non rispondo.
“Mi dispiace.”
Pone una mano sulla mia e la stringe leggermente. Ancora una volta. Sono proprio fottuto.
La guardo negli occhi; è una mia impressione o stanno virando verso il verde?
Le racconto cosa faccia nella vita e quel giorno a Milano.
So cosa vi state chiedendo. Mi costituisco: di moglie e figlie non ho parlato.
“Un insegnante? Che spreco, sei un genio.”
Un’altra che non ha capito, penso.
“Sei libero stasera? Ceniamo insieme? Così mi racconti tutto di te.”
Potevo dirle di no?
“Ora scappo. Ci vediamo alle nove, in albergo.”
Albergo che abbiamo scoperto di condividere.
Va a incontrare degli operai che lottano per conservare il posto di lavoro.
Chissà se quegli operai riusciranno a salvare la loro fabbrica, so che salvano la mia vita.
Torno di corsa in albergo, faccio la valigia. E fuggo via. Senza di loro non ce l’avrei fatta.
Fuggo in treno verso la Sicilia e la mia vita tranquilla.
Anche voi sorriderete, immaginando un corteo, stile anni settanta, in bianco e nero?
Gli operai di Bianca e i miei studenti gridano brandendo fieri il pugno chiuso:
“Operai, studenti uniti nella lotta, la vita di Arturo non si tocca”.