Levar pretese di italica conquista in terra di Messico. Parole belle, cariche di speranza e di alti ideali. Parole che io, prof. Italo Franceschini, mi prefiggo di riportare a caratteri alti e sonanti sulle principali testate giornalistiche della gloriosa nazione che il fato mi diede per natali.
Questo mio resoconto vuol tener fede alle parole gentilmente elargite dal mio protettore, nonché parente, omonimo Balbo:
«Professor Franceschini, affido a voi e alla vostra squadra un compito della massima importanza nella terra del Messico. Restate colà per tutto il tempo necessario, fin quando non troverete notizie certe della conquista italica secondo le ardimentose teorie del Prof. Costante Fieracci. Non vi mancherà il sostegno della nazione, né la massima riconoscenza del Duce».
[…]
Oggi, 31 agosto 1939 (anno XVII E.F.), i rifornimenti richiesti non ci sono ancora pervenuti, sicché temo che le barbare genti locali ne facciano incetta. Taccia pure quella sozza malelingua del nostro soldato Guidobaldo Balducci, il quale suole ripetere:
«Ci hanno mandati qui per staccarci dall’Italia, siamo il peggio del peggio del peggio. Non ci ripescheranno mai più, potete starne certi!»
Non è dello stesso avviso l’altro mio stimato e insigne compagno di avventura, il preclaro Dott. Costante Fieracci, storico di fama internazionale, primo nella sua disciplina per la sensazionale scoperta che gli antichi nostri predecessori romani già solevano sollazzarsi con bibite fresche a base di anice. E alle insistenti voci secondo le quali egli fu cacciato dall’Istituto Luce a seguito di un modestissimo supplemento sul costo delle sue ricerche (appena dieci miliardi di lire, nemmeno il doppio della direttissima Bologna-Firenze), egli risponde con un fiero e italico:
«Me ne frego!»
Parole gettate al vento da detrattori e socialisti, in quanto ora il Prof. Fieracci è a capo della spedizione per la rivendicazione italica sul Messico, della quale ho l’onore di far parte. La motivazione ufficiale recita:
“Pare che il nostro compatriota, il ciabattino Modestino de’Scalzis, abbia seguito il conquistatore spagnolo Hernan Cortés nella sua missione. Di lui si sono perse le tracce: gli spagnoli lo vollero morto ma un’antica leggenda tribale lo designerebbe come primo imperatore del Messico”.
Parole all’apparenza scarne e prive di fondamento ma che, data l’altissima mente che le ha partorite e le prodigiose mani che le hanno rese imperiture nero su bianco, lasciano poco spazio all’immaginazione.
Non voglio mancar di modestia, ma la mia partecipazione alla missione è di gran lunga la scelta migliore che i gerarchi potessero effettuare in materia. Non posso mentire sul fatto che la mia ridente fama sia dovuta all’idea di inserire, all’interno delle mie lezioni di italiano presso il Regio Liceo di Aosta, due ore aggiuntive obbligatorie di dileggio alla letteratura francese (il peggio che possa esistere per immelansire i cuori e ammollarli verso sentimenti contrari alla supremazia della razza italica). Grazie a ciò, il mio augusto protettore Balbo mi ha concesso, al fine di partecipare alla spedizione, di anticipare di quattro anni l’uscita dal bel mondo dell’insegnamento; ora sono qui, in lapis e ossa, in vece addetto stampa: quando il prestigio italico chiama, io rispondo senza esitazioni con un perentorio e risoluto: «Presente!»
[…]
Raggiungiamo la meta in mattinata, allo stremo delle provviste ma speranzosi, una volta tornati nella sospirata Patria, di poter festeggiare con frizzanti moscati piemontesi (ben altro sapore, rispetto alle marniche sciampagne!) e autarchiche cozze di terra napoletana (a cui qualche detrattore preferisce addirittura le modeste e volgari ostriche d’oltralpe: qual cibo barbaro!), raffinatezze impreziosite dalle sicure lodi e ed energiche strette di mano da parte del Duce (il quale, secondo i rozzi galli già citati, figurerebbe combattente meno fiero di quell’ingrato nanetto còrso: quanta ignominia!).
Il grande complesso di Chichén Itzà, dove il Fieracci conta di trovare le spoglie memori del nostro illustre predecessore in esplorazione, si staglia davanti a noi senza garbo, sgraziatamente, manco fosse stato mal disegnato dallo stesso architetto di Versailles. Penetriamo all’interno del Caracol in cerca di qualche indizio supplementare.
L’ingresso, buio e triste quanto una notte senza luna a Parigi, ci conduce in un antro. La prima trappola di quel primitivo luogo ci viene tese pochi metri oltre, peggio che se l’avesse congegnata un malandrino marsigliese. La porta d’ingresso, che avevamo trovato tanto spalancata da risultare invisibile, ripiomba nella sua sede, lasciandoci in una lunga galleria completamente isolati.
Il disfattismo del Balducci si palesa in men che non si dica, più codardo delle guardie della Bastiglia il giorno dell’ingloriosa rivoluzione:
«Ecco professore, siamo chiusi dentro, non ci verranno nemmeno a cercare!»
Quell’odiosa erre moscia (francese pure quella, ca vans sa dir) me lo rende ancor più repellente:
«E’ così che ti hanno insegnato a pugnare? Anche nelle tenebre un milite italico deve rappresentare degnamente la sua stirpe! Su, corri, vile effeminato, e cerca immediatamente un’uscita per gli illustri uomini d’ingegno che indegnamente accompagni!»
«E come faccio, se non si vede nulla?»
In effetti, per quanto proveniente da una mente meschina e disonesta, non so proprio come controbattere all’osservazione. Propongo dunque di usare un acciarino per diradare le tenebre che ci avvolgono. Il vile Balducci, per puro spirito di contestazione, ben presto mi contraddice:
«Ma che cosa dici, dai! Ma non senti che puzza c’è qui? Mi sa che qualcuno ha scorreggiato di brutto! Se accendiamo una fiamma, qui scoppia tutto!»
È meglio indagare: il temibile gas petano, che promettenti risultati ha fornito nella sostituzione del gassogeno sulle nostre potenti e leggiadre littorine, potrebbe rivelarsi un bel grattacapo.
«Balducci, cosa hai mangiato ieri sera?»
«Niente, come al solito! Fra poco mi mangerò anche le suole delle scarpe, dalla fame che c’ho! Ti vuoi rendere conto che qui non c’è più nulla da mangiare?»
«Mi scusi esimio Dott. Fieracci, posso avere l’ardimento di chiederle se ieri sera ha desinato e quali deliziose pietanze ha preferito per la sua dieta?»
«Pasta e fagioli!»
«Ottima scelta! Cibo sano e nutriente, gradito a tutti i sudditi di Sua Maestà, dal contadino al gerarca, dal soldato semplice al generale!»
Non oso pensare che le mefitiche esalazioni provengano dal suo augusto deretano ma molti indizi me lo lasciano supporre. Forse è meglio attendere che si diradi il pericoloso gas, la cui inspirazione mi provoca conati peggiori che se avessi di fronte una fetta di camembert.
«Aspettate, ho qui una torcia elettrica!»
«E chi te l’ha mai data, soldato? Tali strumenti di alta tecnologia non dovrebbero finire nelle mani di rozzi volgari come te, ma solo di grandi scienziati e uomini illuminati che, proprio in quanto tali, dovrebbero…»
«Va bene, se ci tieni tanto prendila pure!”
«Ma come ti permetti di darmi del tu? Solo un fiero e italico “voi” si addice a persone del calibro mio e del celeberrimo dottore in storia qui presente!»
Non ho mai usato una torcia elettrica ma la grande facilità di accensione e conduzione della stessa, che non necessita né di fiamma né di combustibile, me la fanno già preferire alla lampada ad olio. Non mi stupisco peraltro che il vero motore di tale prodigio, la pila elettrica, provenga da quel grande genio tutto italiano di Alessandro Volta: al diavolo quegli scettici mangiarane! Le loro ottusa mente, abituata nei secoli a modeste stregonerie, dubitò persino che potesse esistere la forza elettrica, almeno fin quando il grande comasco non ne dimostrò pubblicamente la potenza di fronte a quel nanerottolo ulceroso del Bonaparte.
Un lungo corridoio, forse esplorato per la prima volta, ci inghiotte. Ci spostiamo più avanti, nella speranza che l’involontaria flatulenza smetta di perseguitarci. Dopo venti passi troviamo una porta sul nostro fianco destro. Dopo altri venti una seconda. Quale scegliere?
Propongo uno dei metodi scientifici più utilizzati in questi casi, figlio di studi minuziosissimi e calcoli che da soli potrebbero occupare intere pagine nelle più importanti riviste autarchiche di settore. Metodo davvero accurato e senza possibilità di errore, scevro di qualsivoglia ingerenza di spannometria proveniente dal modesto stato che ci contende le Alpi Marittime:
«Signori, esimi colleghi! Non dobbiamo brancolare nelle tenebre! Proporrei una bella conta.»
L’indegno fante che ci accompagna, sicuramente in vena di dileggi, inizia a canzonarci:
«Ambarabbà, ciccì coccò, tre civette sul comò, che facevano l’amore con la figlia del dottore…»
Non posso trattenermi dal fargli le mie rimostranze per quell’oscena canzoncina:
«Ma come ti permetti, ignobile e sozzo soldato! Ti degraderei all’istante se non fossi già all’infimo grado della gerarchia militare! Come puoi accostare l’augusta e virginea figlia del qui presente dottor Fieracci all’amoreggiamento con un mite animale notturno? Nemmeno in Francia, nei peggiori luoghi di perdizione come il Moulin Rouge, ho mai visto una simile promiscuità sessuale!»
«Vabbè, non ti scaldare, professore! Proviamo con questa: sotto il ponte di Baracca c’è Pierin che fa la cacca, la fa dura…»
Tuonai peggio di come farebbe il Duce se si osasse paragonare la papale San Pietro alla provinciale Notre Dames de Paris:
«Ancora? Adesso te la prendi con l’aviazione e col suo degnissimo asso? Hai forse invidia per non essere stato ammesso a tale corpo della nostra sfavillante e sicuramente vittoriosa milizia? È ora che qualcuno te lo dica, ragazzo! Hai l’onore di far parte del regio esercito solo perché le madri come la tua non hanno mai generato, quando era necessario, i sessanta milioni di baionette che la patria gli chiede! Sei figlio unico scommetto, famiglia degenere…»
Nel frattempo, in barba alle nostre accese discussioni, quella mente eccelsa e preclara del dottor Fierucci, con un’illuminazione degna del Vate, si appoggia ad una porta e questa vi si schiude. L’ambiente è ampio e ben luminoso: potrebbe essere la chiave di volta per levarci da quel maledetto corridoio e ritrovare alfine l’ambìto tesoro. L’emozione del nostro scienziato e provetto esploratore è incontenibile:
«Che bello, sono così contento di uscire da qui che farei gli scalini a due a due!»
Meglio controllare bene, per assicurarsi che la cosa sia fattibile.
«Mi dispiace deludervi, gentile professore, ma i gradini mi paiono dispari, non credo che potrà farli a due a due.»
«E allora a tre a tre!»
Il tono piccato mi fa intuire che forse le mie conoscenze di matematica non sono così avanzate come le sue, ma trovo anche qui argomento di cui discutere fra galantuomini delle massime scienze.
«Se non ho contato male, i gradini mi paiono diciassette. Dunque, secondo l’ancestrale regola del tre, di ignoto scopritore sicuramente di italica stirpe… diciassette… uno più sette fa otto, asino cotto…»
Interruzione del Balducci:
«Professore, ti pare il momento di perdere tempo? Ma che, non sai nemmeno contare? Comunque diciassette è numero primo!”
«Silenzio, come osi interrompere i miei calcoli!? Proprio tu, indegno soldato, che se non ci fosse stato il Duce a darti un’istruzione conteresti ancora con le dita, come fanno i francesi! Dunque, riprendiamo, otto diviso tre fa due, con resto di due. Dottor Fierucci, mi tiene lei il resto di due?»
È in questo momento che l’esimio collega, economo di parole quanto incisivo, ci pregia di una delle sue grandi perle di conoscenza:
«Il milite ha ragione, diciassette è effettivamente un numero primo e non credo di poter effettuare un balzo da diciassette scalini. Credo che sarebbe meglio trovare una scala parallela con un numero pari di scalini.»
«E poi il diciassette porta sfiga!» Ecco come una semplice chiosa, profferita da una voce tanto volgare e sgraziata da dubitare che fosse italica, sia in grado di rovinare una delle più chiare e nitide lezioni sulla matematica che mai ebbi modo di udire in tutta la mia vita. E poi, di che ha da lamentarsi l’infido Balducci? Ancora vi è in Italia traccia di superstizione, come se non bastassero la fede in Santa Romana Chiesa e nel suo pio e devoto fedele Benito Mussolini? Mi vien persino il dubbio che quel trascurabile individuo sia stato istruito d’Oltralpe, dove ancora oggi si eleva al grado di eroina quella perversa di Giovanna d’Arco, strega meschina che soleva giacere con Satanasso in persona.
Ma ecco che, quasi rendendosi conto di una forza maligna che aleggia su di noi, il nostro preclaro professore sfoggia un altro suggerimento che potrebbe rivelarsi risolutivo per noi, per l’intera spedizione, per l’Italia e per il mondo intero.
«Ho con me una mappa del Caracol, forse potremmo controllare lì.»
Non ho intenzione di sprecare carta e lapis per trascrivere le urla e le starnazzate di quell’oca senza testa del Balducci, vieppiù se si considera che erano profferite contro la grandissima ed eccelsa mente poco sopra descritta, con il pretestuoso intento di denigrarlo, rinfacciandogli che la suddetta cartina sarebbe potuta tornare utile qualche istante prima.
L’ira è così accesa che il Balducci si permette di frugare personalmente nello zaino in Lanital (materiale autarchico ad elevata resistenza e compatibile con qualsiasi clima) in cerca di ciò che ritiene la nostra unica ancora di salvezza.
Ne estrae una rivista nella quale campeggiano una serie di uomini nudi, con attributi tanto fieri e gagliardi da non dubitare essere di robusta e sana razza italica, tanto che mi vien oggi da complimentarmi al sano nutrimento che i seni materni hanno profferto per poterli avvantaggiare con tanta baldanza e ariana potenza sessuale.
«Dottore, che schifo… Ma cos’è, invertito? Busone?»
«Balducci, se non la smetti di schernire in questo modo l’uomo che ci ha onorati di presenziare alla più grande scoperta di tutti i tempi, giuro che ti porterò in cima alle scale e da lì ti butterò giù! Non vedi questi superbi esemplari di maschio ariano della Penisola? Si tratta sicuramente di un catalogo di generi per corrispondenza, per dar felici nozze alla figliola del dottore con un robusto giovanotto atto alla prosecuzione della razza superiore…»
Ammetto di lasciarmi anch’io stesso abbindolare dal membro nella fotografia che, penzolando a mo’ di battacchio, pare una nuova Colonna Traiana piantata in mezzo alle gambe del giovane. Vorrei vedere un catalogo del genere per le molli e piagnucolose sgualdrinelle nizzarde o lionesi, con pagine ricolme unicamente di corpi striminziti e membri flosci, capaci a malapena di generare una progenie ottusa e malaticcia!
Conveniamo infine di percorrere i gradini a uno a uno, diciassette per la precisione. In cima alla scala, in un'altra anticamera angusta e alquanto malfatta, con la volta pericolante e un tanfo di muffa tanto acre da lasciarci rimpiangere la mefitica scia intestinale incontrata poco fa.
Ci troviamo dinnanzi una porta di primitiva e barbarica fattura, tanto sgangherata che persino quello smidollato scansafatiche del Balducci, i cui geni sicuramente transalpini hanno dotato di un fisico smunto e di un’indole pusillanime, riesce a sfondare.
Il tonfo assordante rimbomba quanto il fuoco di cento battaglie condotte dal Duce in persona: la tomba del nostro quadricentenario predecessore, il superbo esploratore Modestino de’Scalzis, sulle cui tracce siamo da giorni ad imitazione di un italico segugio, è davanti a noi.
Grande è il nostro disappunto quando notiamo che il magnifico antenato fu ritratto con le ruvide e sgraziate fattezze azteche. Errore più che perdonabile, peraltro, dati gli enormi tributi in oro e pietre che circondano il rude sarcofago. Non possiamo del resto supporre che si tratti di altro personaggio, dato il certo indizio che ci guida alla scoperta del primo imperatore europeo in terra del Messico:
“De’Scalzis: tutta la gran corte indo-americia portò i suoi tesori ai suoi piedi”, da interpretare in lingua corrente, secondo il mio personale e autorevole ammodernamento, come “la corte azteca porta ai piedi del de’Scalzis i propri tesori”, in segno di schietto tributo al grande regnante.
Il profetico dottore, colmo di gioia, non riesce a reggere al vanto della sua gloriosa scoperta, si commuove e piange come fosse al cospetto di Sua Altezza Reale in persona.
Ma quello sciocco fantuccio che ci accompagna non resiste alla tentazione di rovinare la solennità del momento: la sua lingua è inopportuna, manco fosse in bocca alla più laida cortigiana di Maria Antonietta.
«Ehi, professoroni, ma non vedete che De’Scalzis è scritto su questa statua qua, con in mano un paio di sandali?»
La magnanimità del mio mentore Fieracci raggiunge l’apoteosi: chi potrebbe immaginarsi che tanto buon cuore si nasconda dietro un aspetto così austero e a cotanto contegno nel parlare? Si alza in piedi, di scatto, si avvicina anch’egli alla statua e finisce per lodare quell’immonda creatura subumana che ci ha tediato fino ad ora, ricompensandola immeritatamente per i miserevoli servigi che talvolta si è degnato di portarci:
«Balducci, lei è un genio! Nell’imperfetto italiano con cui è scritto il messaggio, la locuzione suo non è attribuita alle opere della corte azteca, bensì alle opere del de’Scalzis stesso. Sicché la frase sarebbe da intendere come “Tutta la corte porta ai propri piedi le opere di de’Scalzis”, ovvero sandali e scarpe! Festeggiamo con le poche derrate ancora a disposizione: non abbiamo scoperto il primo imperatore europeo in terra d’America, bensì il primo calzolaio europeo dell’Imperatore in terra d’America!»
Indietreggio, studio la statua e trovo una piccola nota, pare il testamento spirituale dell’ingegnoso antenato. Mi appresto a prendere nota:
“Ringrazio con viva forza il benefattore che mi concesse di traversar lo Oceano: l’augustissimo Re Francesco I, re di Francia.”
PS: Meglio rimuovere la targhetta e nasconderla alla vista di altri storici e scienziati, sempre ammesso che quei due cialtroni trovino il modo di uscire da qui!