Niccolò inserì la chiave nella serratura, girò la maniglia e sollevò la porta basculante. Davanti a lui, nascosto sotto il telo grigio, giaceva inerme un cadavere di lamiera. Scostò il telo, facendolo scivolare a terra, accanto agli pneumatici a fascia bianca. Il garage odorava di olio e polvere. Studiò la Chevrolet Bel Air del 1957, sentendosi un po' come il dottor Frankenstein davanti alla sua creatura. C’era ancora un bel po' di lavoro da fare per rimetterla su strada, ma intanto l’intervento all’impianto elettrico era stato archiviato con successo. Da un paio di settimane si stava occupando del motore, poi sarebbe toccato agli interni e infine alla verniciatura della carrozzeria. Appoggiò le mani sulla pinna posteriore destra, dove un’estesa macchia di ruggine troneggiava sotto la vernice scrostata. Squadrò i pezzi di ricambio accatastati contro la parete del garage assieme alle latte di vernice turchese: era materiale che aveva acquistato in gran parte suo padre, per lo più pezzi originali che costavano un occhio della testa.
Ma quello era il passatempo che il vecchio Tonino si era scelto per ingannare la vecchiaia.
«Quando lascerò l’officina, dovrò trovarmi qualcosa da fare, altrimenti creperò presto.» Queste erano state le sue parole, pronunciate qualche giorno prima di andare in pensione.
E così si era procurato a caro prezzo un rottame incidentato da un autodemolitore di sua conoscenza. La Bel Air era appartenuta a un tipo strano, un cabarettista di mezza tacca che girava in lungo e in largo l’Italia per i suoi spettacoli. Correva voce che il tizio fosse pure invischiato in una brutta storia di pedofilia, ma questo al vecchio non interessava. A lui importava solo del rottame e farlo tornare all’antico splendore.
Peccato che Tonino avesse potuto giocarci solo poche settimane.
Nonostante la buona volontà non era riuscito a sopravvivere più di tanto alla pensione: un brutto male se l’era portato via in meno di sei mesi.
Nel letto d’ospedale si era fatto giurare dal figlio che sarebbe stato lui a proseguire il lavoro. E Niccolò aveva giurato, aveva promesso che avrebbe lavorato alla Bel Air nei fine settimana e anche quando non si sentiva troppo stanco dal lavoro all’officina.
Un tonfo proveniente dal bagagliaio lo riscosse dai ricordi. Guardò il portabagagli, esitante, poi lo aprì. Un ratto enorme schizzò fuori dal vano, facendogli fare un saltello di lato.
«Merda» esclamò, guardandolo sfrecciare attraverso il cortile.
Lo seguì con lo sguardo, finché non lo vide sparire dentro una siepe.
Chiuse il baule, percependo un brivido ghiacciato accarezzargli la schiena, nonostante la calura di metà luglio.
Realizzò con stupore di non avere più voglia di lavorare alla Chevrolet: era come se un piccolo meccanismo dentro di lui si fosse inceppato, producendo un fastidioso lamento appena percepibile. Guardò il telo e lo lasciò lì per terra; ci avrebbe pensato più tardi, magari l’indomani mattina.
Chiuse il garage e attraversò il cortile interno piastrellato con sbeccate mattonelle rosse. Quasi tutto era rimasto immutato in quel luogo: il colore delle piastrelle, l’ombra perenne che il sole non riusciva a scalfire, l’aria stantia col lieve sentore d’immondizia, i balconi sommersi dai vasi con le erbe aromatiche. Solo i garage apparivano davvero cambiati rispetto a quand’era bambino, con le basculanti che avevano sostituito le vecchie saracinesche. Ricordò le infinite partite a pallone, il suo garage a fare da porta, il clangore della serranda a ogni gol. C’era qualcosa in quei ricordi che faceva male.
Alzò gli occhi al piccolo rettangolo di cielo sopra la testa, poi s’incamminò verso l’appartamento del terzo piano che divideva con sua madre.
Niccolò prende la palla, punta Tommaso, poi la scarica a Lucio che di piatto infila Simone. È gol, hanno vinto. L’ennesima botta contro la serranda del garage fa affacciare Achille Semprini, l’inquilino del secondo piano.
«Basta! Ve lo buco quel pallone. Ma è mai possibile che non siete capaci di giocare senza fare baccano?»
Si mettono a ridere, poi corrono verso la fontanella all’angolo del cortile. La prima bevuta tocca sempre a Simone, il più alto del gruppo. La sua altezza è anche la sua condanna, visto che per questo è costretto a stare sempre in porta. Simone si attacca alla cannella, come a volerla svuotare, poi mette il braccio sotto l’acqua fresca. Ha il gomito che perde sangue e non è una novità: il suo corpo è pieno di croste perché si tuffa come un pazzo per parare ogni pallone.
«Dai, abbiamo sete, marocchino» dice Lucio, mettendosi a ridere.
Lucio è magro, piccolino, occhi, capelli e carnagione scura, e dà del marocchino a tutti. Una volta Niccolò ha chiesto a suo padre che cosa significasse esattamente quella parola e lui gli ha risposto che quelli del nord chiamano così quelli del sud.
«Ma ti sei visto?» esclama Simone, schizzandolo con l’acqua.
Dopo la partita è d’obbligo la tappa al bar di Otello.
Ognuno ha il proprio gelato preferito: Niccolò prende sempre il Calippo alla Coca Cola, Lucio il Cucciolone, Tommaso il Piedone alla fragola e Simone il croccante col ripieno di amarena.
Niccolò ha soggezione di Otello, anche se non lo confesserebbe mai agli altri: ha il viso sempre rosso a causa del vino, i peli che gli spuntano dalle orecchie e dal naso e in estate sfoggia una collezione di canottiere tutte sbrindellate. Anche le ciabatte che porta hanno visto tempi migliori. Lui pensa che anche i suoi amici abbiano un po' paura del barista; forse pure loro hanno sentito dai genitori che picchia la moglie. Ma in fondo hanno solo nove anni e gli unici che possono avere il diritto di spaventarli sono zombi, vampiri e licantropi.
Licantropi. Magari tutti quei peli nelle orecchie…
All’improvviso Niccolò fa una faccia strana: ha mandato giù troppo in fretta un pezzo di Calippo e gli si è ghiacciato il cervello.
Gli amici ridono e lui dopo che gli è passato il mal di testa si unisce a loro.
«Dopo il gelato che si fa?» domanda Tommaso.
«Io e Niccolò abbiamo costruito un trampolino nel campo dietro al palazzone» dice Lucio. «Lo saltiamo con le bici e vediamo chi arriva più lontano.»
«Fico» esclamano all’unisono Simone e Tommaso.
La serata è calda e afosa. La scuola è terminata solo da una settimana e c’è tutta un’estate davanti per divertirsi.
«Hei, marocchini, qualcuno ha visto Berto?»
«Non può uscire, è a casa col mal di gola» risponde Tommaso.
Per i primi di agosto Niccolò era riuscito a sistemare anche il motore e aveva ipotizzato che prima della fine del mese la macchina sarebbe stata pronta. Con l’officina chiusa due settimane per le ferie di Ferragosto infatti, avrebbe avuto più tempo a disposizione.
Girò la chiave di accensione e diede gas, godendosi la musica del motore. Si gustò il rombo qualche istante, poi spense.
L’immagine di Berto gli passò davanti agli occhi, trapanandogli il cervello. Era parecchi giorni che non faceva che pensare a lui e alla sua sparizione di tanti anni prima.
Berto si era trasferito nel quartiere nel marzo del 1983 e si era integrato subito con loro. Abitava a neppure cinquanta metri dal palazzone, in una casetta a un piano che condivideva con la mamma e la nonna. Suo babbo non c’era più. Poi, nel cuore dell’estate, sparì nel nulla.
Niccolò scrollò la testa, quasi a voler scacciare un pensiero.
Si era sempre chiesto che fine avesse fatto. Una sera aveva ascoltato furtivamente i suoi genitori che discutevano di un possibile rapimento da parte degli zingari. Anche i genitori dei suoi amici parlavano di quella possibilità. Qualcun altro invece propendeva più per la versione del maniaco. Comunque sia, qualunque fosse stata la causa, col passare del tempo Niccolò si era convinto che l’amico di sicuro non aveva fatto una bella fine.
Scosse di nuovo la testa con un senso di fastidio.
«Meglio lavorare» borbottò.
Cominciò col levare l’imbottitura interna delle portiere, poi si occupò del grosso sedile posteriore. La tappezzeria grigio chiaro era sporca, usurata e odorava di muffa. Trafficò un po', riuscendo alla fine ad estrarlo dall’alloggio. Se possibile i sedili anteriori erano anche peggio, con grossi tagli e rattoppi che incidevano il tessuto. Armeggiò con bulloni e chiavi inglesi e provò a far scorrere il sedile del passeggero dal telaio, ma senza successo. Sembrava bloccato. Riprovò, strattonando e tirando, finché non rimase incastrato col braccio tra seduta e telaio. Tirò ancora, ma una fitta di dolore lo fece desistere.
«Merda!» imprecò. Non fece in tempo a finire la parola che la porta del garage iniziò ad abbassarsi. Disteso e semi bloccato non riuscì a vedere la basculante che scendeva, ma ne sentì il rumore e avvertì la luce del giorno che si andava spegnendo.
«Hei, chi c’è là?» ringhiò tra i denti, il buio che lo avvolgeva completamente. Una leggera inquietudine s’impadronì di lui.
«Che scherzi del cazzo.»
Col braccio libero trafficò con le tasche della tuta da lavoro alla ricerca dello smartphone. Se solo fosse stato in grado di raggiungerlo, avrebbe fatto un po' di luce con la torcia e magari sarebbe riuscito a liberarsi.
Con l’abilità di un contorsionista riuscì a infilare la mano sinistra nella tasca destra della tuta, arpionando con pollice e indice la parte superiore del cellulare. Lo sfilò con lentezza, cercando di non farlo cadere, ma all’ultimo gli scivolò di mano e andò a sbattere contro il pianale dell’auto. Nell’urto qualcosa si azionò nel telefonino e una musica bassa si diffuse nel garage.
Vamos a la playa
Todos con sombrero
El viento radioactivo
Despeina los cabellos
Riconobbe subito la canzone dei Righeira, tormentone dell’estate del 1983. Cominciò a sudare freddo. Si sentiva inquieto, a disagio: per il buio, ma anche per quella musica. Attivò la luce del telefono e si guardò attorno, per quello che gli consentivano i movimenti. Il fascio luminoso rischiarò l’abitacolo, generando un buio ancora più scuro fuori dal suo raggio di azione. Sembrava che le ombre fossero più consistenti, vive, pulsanti, pronte ad afferrarlo. Si schiarì la voce, come a darsi coraggio, per scardinare quella spiacevole suggestione, ma appena lo fece una cacofonia di voci riempì il garage e l’abitacolo.
Aiutami. Aiutalo. Aiutaci.
Aiutami. Aiutalo. Aiutaci.
Le voci parevano diverse, ma l’effetto ipnotico di quel mantra riconduceva il tutto a qualcosa di uniforme. Di unitario.
Aiutami. Aiutalo. Aiutaci.
Aiutami. Aiutalo. Aiutaci.
La cantilena si insinuò dentro di lui, cullata in lontananza dalle note dei Righeira.
Aiutami. Aiutalo. Aiutaci.
L’immagine di una maglietta dell’uomo ragno saturò la sua mente, rigenerando piano piano il ricordo.
Aiutami. Aiutalo. Aiutaci.
«No, no, no» sibilò Niccolò, scuotendo la testa.
Ma le immagini erano in evoluzione, si stavano formando, un puzzle in 3D impossibile da sgretolare.
Tirò ancora il braccio incastrato e questa volta si sfilò senza difficoltà. Puntò il fascio di luce del telefono contro la porta, spinse e l’aprì. Avvertiva un gran freddo nel corpo, nelle ossa, e un caldo infernale nella testa. Uscì all’aria aperta, respirando con la bocca spalancata, a grandi sorsate. Si guardò alle spalle: dietro di lui il garage era una pozza di luce, senza più angoli bui. Come in trance, fece scendere la basculante e tornò all’appartamento.
Barcollando.
Niccolò si alza sui pedali, poi si allontana per prendere la rincorsa più lunga della storia. All’angolo della via i ragazzi più grandi stanno facendo il filo a Chicca, la figlia del signor Semprini, il fora palloni.
Quando pensa di aver raggiunto la distanza giusta si ferma.
Sul terrazzo dell’attico, il matto in costume da bagno continua ad andare su e giù col binocolo in mano. Gli scappa da ridere ma si trattiene: vuole fare un salto da paura. Caccia un urlo e comincia a pedalare come un forsennato. Gambe e piedi spingono sui pedali come pistoni impazziti, quasi a volere tracciare solchi profondi nel terreno. Ormai è in prossimità del salto quando per la foga sbaglia un po' la traiettoria: la ruota della BMX non passa al centro dell’asse di legno, ma più esternamente. I mattoni e i sassi che fanno da base per il trampolino si spostano, cosicché lui rovina a terra in modo tragicomico. Nella caduta si ferisce il ginocchio raschiando contro la terra secca.
«Cavolo, ti sei fatto male?» domanda subito Lucio.
«Sto bene» rassicura tutti Niccolò, sputandosi sulle dita della mano destra e passandole sulla ferita sanguinante. Brucia.
Il trampolino è bastardo, ci sono passati tutti.
«Torno subito, mi vado a sciacquare alla cannella.»
Niccolò s’incammina, dà un’occhiata all’orologio e si ferma.
«Oh, ma Berto a che ora arriva? Sono già le nove passate.»
«È sempre in ritardo, quel marocchino» dice Lucio. Sorride.
«Va bè, lo vado a chiamare io» fa Niccolò, dirigendosi verso il cortile.
L’acqua gelata della fontanella lava via il sangue e placa un po' il dolore. Il getto gli inzuppa il calzino e la scarpa da tennis, ma non importa. Chiude l’acqua e si appresta a correre verso la casa di Berto, quando qualcosa lo blocca.
La serranda del suo garage è sollevata da terra, saranno sì e no un paio di centimetri, ma l’abitudine di perlustrare in modo maniacale la superficie alla ricerca di qualche monetina, gli ha fatto notare subito l’anomalia. Si avvicina alla saracinesca, pensa di bussare e chiedere chi c’è, poi si ferma. Una musica appena accennata proviene da dentro. Esita ancora, quindi s’inginocchia e, senza fare rumore, solleva la serranda quel tanto che basta per riuscire a intrufolarsi. Lo sportello posteriore della Fiat 128 è aperto, dei piedi che fuoriescono dall’abitacolo.
Si avvicina.
Per terra, accanto alla ruota, le ciabatte e la canottiera del suo papà, dei pantaloncini corti e una maglietta con l’immagine dell’uomo ragno. La luce interna della macchina riesce a illuminare solo un ristrettissimo spicchio dell’esterno, ma quelle ciabatte le riconoscerebbe ovunque, tante sono le volte che il babbo gliel’ ha suonate sul sedere.
Avanza di nuovo.
L’autoradio rigurgita le note di una nuova canzone. La riconosce subito, la passano sempre per radio: Vamos a la playa dei Righeira. Li ha visti anche in tv al Festivalbar.
Va ancora più avanti.
Ora può vedere tutto.
Suo babbo è nudo, sta sopra qualcuno che non riesce a riconoscere. Sembra un bambino. È nudo anche lui. E piagnucola.
Suo padre lo accarezza e gli dice di smettere, che non vuole fargli male.
«Shhh» dice. «Shhh, è tutto a posto.»
Lo bacia; sul viso, sul petto e ancora più giù.
Adesso riesce a vedere anche il bambino. Ha gli occhi chiusi e singhiozza. Si tratta di Berto.
Niccolò vorrebbe gridare, ma si trattiene. Inizia a scuotere la testa e piano piano indietreggia. Sente le gambe molli, incapaci di reggere il suo peso, ma resiste. Si abbassa ed esce dal garage. Si preoccupa anche di abbassare la serranda al livello iniziale. Appena fuori comincia a respirare a bocca aperta, l’aria sembra non arrivare ai polmoni. In un ultimo tentativo di resistenza cerca di correre verso il campo, verso gli amici, ma appena fuori dal cortile è costretto a fermarsi. Si appoggia con le mani contro il muro, vomita anche l’anima, poi perde i sensi.
Aveva chiamato i carabinieri, tra poco sarebbero stati lì.
Niccolò si affacciò al terrazzo e guardò giù. Il campo dove avevano costruito il trampolino e che nella sua fantasia di bimbo pareva stendersi all’infinito, non esisteva più da un pezzo. Al posto di erbacce, sassi e ramaglie, nel corso degli anni erano spuntati un parcheggio, i palazzi delle associazioni sindacali, una banca.
Tutto cambiato. Figurine nuove al posto delle vecchie.
Era ancora scosso per ciò che la memoria aveva riportato a galla. Come se non bastasse, i giorni successivi aveva consultato il web in cerca di notizie sul vecchio proprietario della Chevrolet, il cabarettista italoamericano Jerry Di Nunzio. Jerry non era un santo: risse, ubriachezza molesta, truffa e tentata estorsione. Su di lui pendeva anche un sospetto di pedofilia mai confermato.
Del presunto bambino abusato si erano perse le tracce.
Sparito. Come Berto.
Solo che Berto, adesso, era tornato.
Niccolò si guardò le mani: tremavano.
Aveva ragionato parecchio sull’esperienza avuta in garage: le voci, quelle richieste di aiuto, non potevano essere allucinazioni sensoriali, frutto della sua percezione alterata. Le aveva sentite davvero.
Così nella sua testa aveva preso forma un disegno e si era convinto che il corpo di Berto si potesse trovare lì, nell’autorimessa.
Ci aveva perso una giornata intera, ma alla fine l’aveva trovato.
Dietro l’armadietto metallico dove teneva tute da lavoro, scope e detersivi, l’intonaco presentava una tonalità più scura. Aveva rotto il muro in quel punto, scoprendo la nicchia in cui riposava il piccolo scheletro con la maglietta dell’uomo ragno.
Ma doveva fare ancora un’ultima cosa per mettere il punto su quella brutta storia.
Scese in garage, prese una mazza e iniziò a pestare: prima i finestrini, poi i fanali e le lamiere. Coriandoli di vetro andarono a depositarsi a terra.
Non era più in grado di poter esaudire la promessa fatta al padre.
Non più.