Una scogliera. Una scogliera alta e diritta, che all'improvviso finisce, sembra impossibile, ma finisce, cadendo a picco dentro il mare e infrangendosi in un’eterna, spumeggiante onda candida.
Un faro. Un faro bianco, che all'improvviso si illumina e questo sì, non solo è possibile ma anche necessario, si illumina in mezzo ad una distesa di trifoglio scintillante di rugiada, per poi spegnersi ed accendersi di nuovo, senza sosta.
Questa è casa mia.
In questo luogo magico, io credo.
Un puntino color rame. Un puntino che si muove verso di me e va trasformandosi prima in una macchia, poi in un mantello e, quando è abbastanza vicino, in un mantello fulvo di lana grezza con dentro una donna. Una giovane donna bellissima con una massa di capelli rosso fuoco, indisciplinatamente lunghi, che si accendono nel vento, e occhi verdi come solo la luce del nord può creare.
Questa è Elan.
In questa donna, fiore delicato di questa terra, io credo.
Si siede in mezzo all'erba, incurante dell’umidità, accanto a me, come fa inconsapevole ogni domenica mattina. Sussurra i suoi sogni nel vento, in modo che nessuno possa sentirla. Non sorride, mai, Elan: è convinta di non averne il diritto.
Lei, al contrario di me, non crede più.
“Troppo bella, sei, e la bellezza porta sfortuna”, le ha ripetuto sua madre sin da piccolina, e poi finchè ha avuto la forza di farlo.
“Che Dio ci scampi, questa ragazza non ci porterà altro che disgrazie”, ha detto e ridetto con ammirevole costanza suo padre, prima di morire d’alcool, la sua vera croce, cui si è inchiodato da solo senza nemmeno accorgersene.
Al momento, Elan non può dire che non avessero ragione.
“Non farti troppo notare”, la ammonisce ogni giorno il suo capo, “i clienti combinano già abbastanza guai da soli”. Suo marito, del suo aspetto, non ha mai parlato: è il motivo per cui l’ha sposato, nella speranza di potersi affrancare dal binomio fascino/sciagura. Ma questo silenzio è ormai fin troppo eloquente, colmo di gelosia e di risentimento. Il suo sguardo ferisce più delle parole, accusandola di essere l’origine dei suoi personali fallimenti e della sua esistenza insignificante.
Vorrebbe lasciarlo, vorrebbe mollare anche il lavoro giù al pub, vorrebbe cambiare tutto tranne la scogliera, il faro, questo prato verdissimo e se stessa, perché intimamente sa di meritare di più di un’etichetta appiccicatale addosso per ignoranza, invidia o timore.
Ma ha paura, troppa. Paura di non farcela, paura di soffrire ancora, e di più. Ha il terrore di scoprire che fortuna e sfortuna non esistono.
Questa sera sarà grande festa, anche se lei dovrà lavorare. Le mani sottili di Elan ora raccolgono distrattamente qualche trifoglio che intreccerà tra i capelli. Quando chiuderà il locale, nell’ ultimo bicchiere di whisky ne lascerà cadere uno, come ogni anno, anche se non è più convinta, da tempo, che i piccoli gesti tradizionali possano avere un significato al di fuori del rituale a cui sono legati. Ma io so che oggi capirà, aspetto paziente. Ha soltanto bisogno di un po’ di coraggio per spiccare il volo. Io glielo regalerò.
So cosa significa essere diverso, lo sono sempre stato. Ma, a differenza di quanto accade ad Elan, il mio distinguermi è molto apprezzato sia in famiglia che dall’opinione comune. “Porti bene!”, mi si dice. Rimango solo, tuttavia, in una strana forma di emarginazione: i miei fratelli mi guardano ammirati, vorrebbero assomigliarmi, non possono. Vicini ma distanti, in una sorta di timore reverenziale. “Hai un dono raro”, mi ripetono. Mi sono sempre chiesto a cosa potesse servire. Quando Elan ha incominciato a venire qui, la domenica, sulla scogliera, finalmente ho capito il senso. Questo sono io.
Nella fortuna di riconoscersi, io credo.
Sono nato per lei, e per lei morirò. Così avrà la forza per riprendersi la propria vita, la scintilla di fiducia che accenderà il fuoco che è in lei. Attendo solo il momento in cui si accorgerà di me, per portarmi via: per un attimo, almeno, non sarò più solo. Ormai manca poco.
Velato di malinconia, lo sguardo di Elan ora vaga dal cielo al mare, poi si sposta sul prato, a cercare ancora tra il verde più brillante. Percepisco i suoi occhi che prima mi sfiorano, poi, finalmente, davvero, mi vedono. E capiscono. Fa una cosa che non ha fatto mai, ed è la mia ultima immagine: sorride. Tende la mano e mi accarezza piano, sfiorando tutte e quattro le mie foglioline brillanti di rugiada, una per una.
Questi, ora, siamo noi.
Nella potenza della nostra fragilità, noi crediamo.
Nella luce del nord, una scogliera, un faro, una distesa verde scintillante, il rumore del mare, una donna fortunata e bellissima avvolta in un mantello. Nella mano, un quadrifoglio. Davanti, una vita.