“Maledetto frate!”
L’aveva abbandonato in quella anticamera da più di un’ora e non sapeva cosa fare per passare il tempo. Camminava avanti e indietro su quel pavimento di maioliche bianche decorate da bellissimi disegni azzurri, ormai rovinati dal tempo. Nel silenzio si sentiva solamente il rumore dei suoi tacchi e la spada che, ciondolando al suo fianco, di quando in quando sbatteva contro il cuoio degli stivali. Doveva rimanere calmo. La rabbia era stata spesso cattiva consigliera nella sua vita. Ed era il motivo della sua presenza in quel locale.
La mattina del giorno precedente era uscito con molta fretta dalla taverna di Mastro Gaspare. Il cibo, le donne e il buon vino gli avevano fatto perdere la cognizione del tempo e si era trovato in grande ritardo per un appuntamento con il curato di San Calimero. Voltando l’angolo che dava sulla strada della chiesa aveva urtato un giovane ben vestito che si era risentito dell’accaduto e aveva preteso le sue scuse. Figurarsi. Già il tempo era tiranno, non aveva voglia né pazienza di fermarsi a dar retta a quel damerino. Il giovane lo aveva ricorso urlando ed egli aveva dato fondo a tutta la sua pazienza per trattenersi dallo sfoderare la spada e infilzarlo lì, lungo la via. Avrebbe dovuto farlo, pensò mentre ripassava con lo sguardo il disegno floreale delle maioliche. Almeno ora non si troverebbe in questa fastidiosa situazione.
Proprio al termine di quel pensiero, il frate che lo aveva accolto ormai un’ora prima, fece il suo ingresso nell’anticamera.
“Il nostro signore, don Paluca, vi raggiungerà appena possibile.”
“Bene!”
“Posso sapere il vostro nome?”
“Il mio nome non è di vostra competenza.”
Il frate imboccò risentito la porta dalla quale era uscito e lui lo seguì con lo sguardo finché non scomparve nel buio corridoio. Si guardò nuovamente attorno. L’anticamera era ricca di dipinti. Antenati, pensò. Spagnoli. Ormai le più alte cariche del Ducato erano in mano a famiglie provenienti dalla penisola iberica.
I lenti passi sul pavimento annunciarono il ritorno del frate, seguito da una figura imponente e ben vestita.
“Vostra Eccellenza, questo è il giovane che vi ha chiesto udienza.”
“Bene, andate pure.”
Il marchese, un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati, si sedette su una robusta sedia foderata di velluto rosso. Alle sue spalle un piccolo altare devozionale dedicato a un santo francescano, almeno a giudicare dalla pregevole pala che lo sormontava.
“Quindi avete chiesto udienza per un favore, a quanto mi pare di aver capito?”
“Sì, vogliate scusarmi eccellenza ma si tratta di uno spiacevole equivoco che mi sta creando numerosi fastidi.”
“Posso sapere il vostro nome?”
“Il mio nome non è di vostra competenza.”
“Potrebbe esserlo. E ricordatevi che siete voi che necessitate un favore da parte mia e non il contrario.”
Deglutì l’amaro boccone e poi rispose: “Potete chiamarmi Fante Scelto, è quanto vi posso concedere.”
“È sufficiente. Bene, dunque avete sfidato mio nipote a duello, corretto?”
“Esatto. In realtà è lui ad aver sfidato me.”
“Un’offesa?”
“L’ho urtato inavvertitamente.”
“Avreste potuto scusarvi.”
“Sì, ma… Sì.”
“Sì, ma. Sì”
“Avrei potuto.”
“Ma non l’avete fatto.”
“Andavo di fretta.”
“E siete troppo orgoglioso.”
Strinse le mani per trattenere la rabbia che provava. Si guardò attorno nel tentativo di recuperare la calma perduta, ma gli avi nei ritratti sembravano guardarlo tutti con un tono di riprovevole accusa.
“È stato… un incidente.”
“Quindi siete qui perché interceda con mio nipote. Necessitate di spostare la data del duello, corretto?"
“Corretto. Ho purtroppo un impegno inderogabile per quell’ora e per quella data. Ma vostro nipote non ha voluto sentire ragioni.”
“Inderogabile?”
“Mi devo… sposare.”
“Avete sfidato a duello mio nipote nel giorno e nell’ora del vostro matrimonio?”
“La rabbia acceca la vista. E la memoria.”
“Capisco. Non sarà per caso paura, signore?”
“Paura? Potrei battere quel damerino alla seconda scoccata.”
“Allora fatelo. Non avete bisogno della mia intercessione.” il marchese fece per alzarsi.
“Non posso… Non posso.”
“Capisco. Non preoccupatevi. Parlerò io con mio nipote.”
“Ve ne sono grato, vostra eccellenza.”
“A una condizione.”
“Come dite?”
“Voi domandate un favore a me. Io ne domando uno a voi, funziona così tra gentiluomini, giusto?”
“Giusto.”
“Bene. Mi piacciono le persone ragionevoli, signor Fante Scelto. O qualunque sia il vostro nome. Alla fine una trattativa è buona se ambo le parti possono trarne vantaggio. Non trovate?”
“Sì, certamente. Però veniamo al dunque. Tutto questo eccessivo ciarlare mi rende nervoso.”
“Vedo che non siete persona che ama perdere tempo.”
“No. Decisamente no.”
“Conoscete il cardinale Nicholaus Vivonicus, il gran tesoriere di sua santità?”
“Mai sentito.”
“Non importa. La sua carrozza transiterà nelle terre del Ducato il prossimo venerdì, di ritorno da Roma, dove ha assistito al rogo di quell’eretico dominicano in Campo de’ Fiori. Non so se ne avete sentito parlare.”
“Non mi interesso di fatti di chiesa.”
“Dovreste, mio caro. Dovreste.”
“Mi dicevate del tesoriere, giusto?”
“Giusto. Dimenticavo che non amate le divagazioni. Come vi dicevo passerà tra queste terre in viaggio verso la Baviera, con un ingente carico di scudi d’oro per sovvenzionare la lotta all’eresia di quel Lutero che, anche se morto da più di cinquant’anni, ancora molti danni sta facendo oltre le Alpi.”
“Quindi dovrei scortare quell’uomo fino al confine?”
“Niente affatto. Voi dovrete impossessarvi di quell'oro."
“Non vi seguo.”
“Il Ducato ha bisogno di quel denaro. La corona di Spagna ha ridotto l’invio di oro e di argento dalle colonie del Nuovo Mondo. Le casse di Milano sono in difficoltà. Per questo dovete prendere possesso di quel tesoro.”
“Non possono prendersene cura gli armigeri spagnoli?”
“La vostra non sarebbe una missione ufficiale. Il Ducato, e la Corona, devono restarne fuori.”
“Avrà una scorta armata?”
“Il tesoriere ama viaggiare leggero e veloce. Sarà praticamente solo.”
“E se rifiutassi?”
“In quel caso la vostra bella sposa dovrà trovare qualcuno che vi rimpiazzi all’altare.”
L’aria della sera era fredda e umida nella valle. Fante se ne stava addossato al muro dello stretto vialone che costeggiava il lago pensando a come agire. La carrozza sarebbe arrivata da un momento all’altro. Era stata avvistata in paese qualche decina di minuti prima e un messaggero di Don Paluca si era prodigato di avvertirlo dell’imminente appuntamento. Cappello nero abbassato sul viso, lunga cappa scura, era praticamente invisibile a chiunque provenisse da sud lungo il sentiero. Un rumore di zoccoli preannunciò l’arrivo del tesoriere.
Con un colpo netto tagliò la fune lungo il muro e alcuni tronchi rotolarono in mezzo al percorso. Il cocchiere tirò le redini più che poté riuscendo a fermare i cavalli poco prima dell’imprevisto ostacolo.
“Chi è là?”
“Un amico!”
“Un amico non blocca la strada all’improvviso. Chi siete?”
“Ho bisogno di parlare con il tesoriere.”
“Il tesoriere sta riposando.”
“Svegliatelo!”
“Altrimenti?”
“Altrimenti ci penseranno i miei compagni a svegliarlo.” E con un cenno della mano indicò diverse canne di archibugio lungo la massicciata.
“Un momento. Un momento solo.” L’ometto scese dalla cassetta e bussò delicatamente sul portellone posteriore. Dalla carrozza uscì un porporato sulla trentina, alto e di bell'aspetto.
“Voi siete?”
“Mi rincresce disturbare il vostro riposo, eminenza. Ma è mia intenzione alleggerire questo vostro viaggio di piacere.”
“Io viaggio sempre leggero.”
“Per un viaggio leggero non è necessaria una carrozza con l’assale rinforzato.”
“Vi sbagliate signore. Posso sapere il vostro nome?”
“Il mio nome non vi compete, eminenza. Cosa contiene la cassa sul retro?”
“La mia passione, signore.”
“Oro?”
“Musica. Una spinetta da viaggio. Un piccolo clavicembalo, ma meno ingombrante. Non me ne separo facilmente.”
“Musica dite?”
“Un pezzo di valore, lo ammetto. Ma non da giustificare l’assassinio di un alto prelato.”
“Nessuno vi vuole assassinare, eminenza. Voglio solo l’oro destinato agli alemanni.”
In quel momento uno strano fischio lo distolse dall’attenzione verso la ricca cassa in legno. Solo un istante, poi riprese a interessarsi del prezioso carico.
“Potete farla aprire, eminenza?”
“Signore, siamo in mezzo al buio e al fango. Non vorrei che il mio prezioso strumento si rovinasse.”
“Meglio sporco di fango, che bucato dai miei archibugi. Eminenza.”
“E sia. Achillu caro, cortesemente, potete slegare e riporre con delicatezza la cassa.”
Il cocchiere iniziò ad armeggiare con il cordame che teneva la cassa legata alla struttura della carrozza quando nuovamente risuonò quello strano fischio melodioso.
“Paolo da Ferrara.”
“Come dite, eminenza?”
“Questo motivo. La Passione di Paolo Ferrarese. Chi fischia? Uno dei vostri uomini, forse?”
“I miei uomini? No, non credo eminenza. Sono soldati di bassa lega, più esperti in altri strumenti e in canti da osteria.”
Il fischio risuonò sempre più nitido nel buio della notte, quando una voce di donna interruppe la melodia.
“È inutile che cerchiate nella cassa. Sua Eminenza ha ragione. Contiene solamente una vecchia spinetta da viaggio.”
Una voce di donna, improvvisa e calda.
“Chi ha parlato?”
“Sono la notte, e come la notte potete vedermi solo nel buio.”
Questa seccatura inaspettata non ci voleva. Fante Scelto iniziò a perdere la pazienza.
“La notte non parla. Finitela con questi giochetti e palesatevi. Altrimenti i miei uomini faranno fuoco al mio comando.”
“Uomini? Quelle canne di legno infilate tra le rocce? Date pure loro il comando di sparare se ne siete capace.”
“Vi ordino di palesarvi!” Fante sfoderò la spada mentre il cocchiere approfittò della distrazione per risalire in cassetta e togliersi dalla concitazione. Da parte sua il tesoriere osservava incuriosito la scena considerando i risvolti positivi che la stessa avrebbe potuto avere per il suo prezioso carico.
Dal buio apparve una figura vestita di nero, con una lunga cappa e un cappuccio che ne celava il volto.
“Scopritevi!”
“Non è necessario.”
“Qual è il vostro nome?”
“Il mio nome non vi compete.”
“Ma…”
“Come a me deve bastare Fante Scelto, a voi dovrà essere sufficiente Hellionor. Perché è tutto quel che di me saprete.”
Fante rimase spiazzato dalla risposta della donna, che come un’ombra si avvicinava con leggerezza alla carrozza.
“Eminenza, perdonatemi. Potete mostrarmi il vostro sedile?”
La sicurezza sul volto del cardinale scomparve improvvisamente.
“Siete sorpreso, vero? È molto astuto da parte vostra viaggiare con una vecchia spinetta da quattro soldi riposta in un elegante baule e un grosso quantitativo d’oro nascosto sotto le vostre porporate natiche. E ora, se vorreste essere così gentile da agevolare lo scarico del tesoro, ve ne saremmo grati, eminenza. E non tentate colpi di testa. Come vostra abitudine viaggiate solo e senza scorta, e noi siamo tra le lame più abili di tutto il Ducato.”
Una smorfia di insofferenza dipinse il volto dell’alto prelato mentre ordinava al proprio cocchiere di scaricare dalla carrozza i sacchi pieni di scudi pontifici d’oro.
Le due nere figure rimasero a osservare la carrozza allontanarsi leggera verso l’oscurità della notte.
“Avete un cavallo sufficientemente forte per metà di questo oro?”
“Io vi dovrei conoscere?”
“Voi no, ma io sì.”
“Potrei sapere con chi ho il piacere?”
“Voi lavorate per mio padre.”
“Vostro padre?”
“Mio padre, avete inteso bene. Il marchese don Paluca Barbaresco Brusatis de Setala.”
“Il marchese è vostro padre?”
“Esattamente. E ora datemi una mano a caricare l’oro.”
“Non vorrete derubare il Ducato?”
“Il vostro oro finirà nelle casse di mio padre. Il Ducato non c’entra nulla. Vi ha usato per i suoi porci comodi. Ne siete sorpreso?”
Nel buio la donna riprese a fischiettare quella particolare melodia. Un cavallo si avvicinò alla coppia. Lei tolse il cappuccio e liberò una nera chioma e un viso angelico.
“Allora? Il vostro cavallo? Non vorrete far aspettare mio padre? E la vostra sposa.”
“Voi sapete?”
“Le voci corrono.”
“Perché fate questo?”
“Questo cosa? Derubare mio padre?”
“Sì.”
“Mi diverte. E mi permette qualche risorsa economica senza dipendere totalmente da lui. Pensate che mi crede una timida educanda del convento di Santa Liberata.”
“Ah, siete in convento?”
“Mi sembrate deluso. Eppure la vostra bella sposa vi attende all’altare.”
“Futura sposa.”
“Cambia poco.”
“Forse potremmo rivederci.”
“Non credo. A meno che non abbiate intenzione di sfidare nuovamente a duello quel buono a nulla di mio cugino.”
Detto questo, saltò rapidamente a cavallo e scomparve nel buio accompagnata da quel fischio melodioso.
La chiesa era pronta per le nozze. Illuminato dalle fiamme delle candele, il coro angelico del mosaico absidale riluceva accanto alla severa figura dell'Onnipotente. Poco più in basso, lo sposo e il curato di San Calimero stavano concordando gli ultimi dettagli delle nozze. I parenti dei due giovani riempivano la navata della piccola basilica romanica. Erano presenti anche diversi amici della vicina taverna di Mastro Gaspare che mai si sarebbero perduti quell’occasione per bere e festeggiare assieme all’amico. La sposa, bellissima nel suo vestito tradizionale confezionato dallo zio sarto, procedeva accompagnata dal padre lungo la piccola navata. Fante la accolse sfiorandole la mano e lei arrossì nel suo soave sorriso. Il canonico iniziò a pronunciare la formula nuziale in latino. Al momento del fatidico giuramento, Fante prese le mani della futura sposa, la guardò negli occhi e nel momento in cui stava per pronunciare la sua promessa solenne udì nitidamente fischiare la melodia della Passione di Paolo Ferrarese.