Cacciaspiriti
Ho paura dei bambini.
I bambini sono pericolosi.
La notte escono dal villaggio in fila ordinata, come formiche, tutti uguali, uno dietro l'altro con la sacca di juta a tracolla. Seguono il sentiero di polvere in silenzio, ascoltano la musica dei loro passi precisi. Il ritmo degli stivaletti di pelle, il battere dei tacchi, il levare delle punte.
Li osservo da dietro le foglie, dalla cima degli alberi, nascosto tra le nuvole, al riparo dalla luce della luna.
Gli adulti li mandano a caccia di spiriti. A caccia delle loro paure. A eliminare il diverso, lo sconosciuto, l'incontrollabile.
Dei maschietti conosco tutto: la riga dei capelli a destra, i tirabaci impomatati disegnati sulla fronte, i polsini delle camice col pizzo bianco, i denti storti, le dita corte, le unghie curate, lo sguardo basso pieno di inquietudine. Le bambine hanno enormi occhi blu cobalto, trecce dorate che disegnano elaborate crocchie, narici minute, abiti di raso color amarena con gonne a campana.
Seguono il sentiero di polvere fino al lago.
Là, i bambini si siedono sulla riva, attaccati come pulcini per farsi coraggio, e catturano gli spiriti. Li attirano dentro a delle lattine di coca-cola e poi ridono, isterici. Usano un'esca profumata alla lavanda. Gli spiriti entrano nella lattina e rimangono incollati sul fondo.
E urlano.
Sibilano.
Fino a quando muoiono e si spengono.
Quando i bambini hanno riso abbastanza tornano al villaggio. In silenzio.
Il lago è pieno di luci volanti, spiriti ronzanti come libellule che accarezzano con evoluzioni colorate la superficie dell'acqua. Sono fratelli che hanno abbandonato le fredde colonie dei monti per vivere nell'isola al centro del lago. Sono ingenui e testardi.
Io sono nato ai confini del villaggio. Ho imparato a scomparire, a non farmi notare. A conoscere gli uomini.
Provo pena per i miei fratelli. Ne sento il dolore, la morte che li avvolge e li spegne.
Mi fanno male.
Al centro della fila cè un bambino che sbaglia il passo.
Non ha lo sguardo alla polvere del sentiero, ma tiene il viso rivolto al cielo. Segue il ritmo dei compagni ma conta le stelle. E i suoi piedi stonano.
Mi ha visto.
Non cambia espressione, solo una piccola ruga gli increspa la fronte pulita. Sorride, scoprendo una corona di piccole perle. Gli altri non badano a lui, hanno gli occhi inchiodati alla punta degli stivali.
Il bambino fruga nella sacca e tira fuori la lattina che usa per la caccia. Me la mostra, alzandola appena sopra il capo. Così noto la riga dei capelli al centro della testa, e le dita affusolate, e le unghie sbeccate.
La lattina ha il fondo bucato.
Il bambino ride, non ha paura di me. E io non ho paura di lui.
Ha negli occhi una luce che mi piacerebbe chiamare futuro.
Ho paura dei bambini.
I bambini sono pericolosi.
La notte escono dal villaggio in fila ordinata, come formiche, tutti uguali, uno dietro l'altro con la sacca di juta a tracolla. Seguono il sentiero di polvere in silenzio, ascoltano la musica dei loro passi precisi. Il ritmo degli stivaletti di pelle, il battere dei tacchi, il levare delle punte.
Li osservo da dietro le foglie, dalla cima degli alberi, nascosto tra le nuvole, al riparo dalla luce della luna.
Gli adulti li mandano a caccia di spiriti. A caccia delle loro paure. A eliminare il diverso, lo sconosciuto, l'incontrollabile.
Dei maschietti conosco tutto: la riga dei capelli a destra, i tirabaci impomatati disegnati sulla fronte, i polsini delle camice col pizzo bianco, i denti storti, le dita corte, le unghie curate, lo sguardo basso pieno di inquietudine. Le bambine hanno enormi occhi blu cobalto, trecce dorate che disegnano elaborate crocchie, narici minute, abiti di raso color amarena con gonne a campana.
Seguono il sentiero di polvere fino al lago.
Là, i bambini si siedono sulla riva, attaccati come pulcini per farsi coraggio, e catturano gli spiriti. Li attirano dentro a delle lattine di coca-cola e poi ridono, isterici. Usano un'esca profumata alla lavanda. Gli spiriti entrano nella lattina e rimangono incollati sul fondo.
E urlano.
Sibilano.
Fino a quando muoiono e si spengono.
Quando i bambini hanno riso abbastanza tornano al villaggio. In silenzio.
Il lago è pieno di luci volanti, spiriti ronzanti come libellule che accarezzano con evoluzioni colorate la superficie dell'acqua. Sono fratelli che hanno abbandonato le fredde colonie dei monti per vivere nell'isola al centro del lago. Sono ingenui e testardi.
Io sono nato ai confini del villaggio. Ho imparato a scomparire, a non farmi notare. A conoscere gli uomini.
Provo pena per i miei fratelli. Ne sento il dolore, la morte che li avvolge e li spegne.
Mi fanno male.
Al centro della fila cè un bambino che sbaglia il passo.
Non ha lo sguardo alla polvere del sentiero, ma tiene il viso rivolto al cielo. Segue il ritmo dei compagni ma conta le stelle. E i suoi piedi stonano.
Mi ha visto.
Non cambia espressione, solo una piccola ruga gli increspa la fronte pulita. Sorride, scoprendo una corona di piccole perle. Gli altri non badano a lui, hanno gli occhi inchiodati alla punta degli stivali.
Il bambino fruga nella sacca e tira fuori la lattina che usa per la caccia. Me la mostra, alzandola appena sopra il capo. Così noto la riga dei capelli al centro della testa, e le dita affusolate, e le unghie sbeccate.
La lattina ha il fondo bucato.
Il bambino ride, non ha paura di me. E io non ho paura di lui.
Ha negli occhi una luce che mi piacerebbe chiamare futuro.