Da qualche giorno ero decisamente fuori fase e le scadenze con l’editore stavano virando in urgenze.
Neanche la splendida tavolozza di colori autunnali del giardino riusciva a darmi lo stimolo giusto per affrontare il lavoro. La causa? Un pacchetto che da alcuni giorni vagava per lo studio.
Che un oggetto potesse avere poteri occulti è una bella idea, ma solo per un romanzo.
Eppure un piccolo dubbio aveva iniziato a insinuarsi.
“Aprimi, aprimi!” era il suo insistente invito e al mio rifiuto, si vendicava.
Non serviva cambiargli posto e, per non scomodare quelli del calendario, mi ero inventata santi protettori utili per future e inaspettate perdite: san Macrì per una chiavetta e san Gerundio per il cellulare.
Quella mattina a interrompere le ricerche del pacchetto, con allegate le chiavi di casa, era stato lo squillo di una video chiamata, a cui risposi incautamente.
«Perché non sei venuta alla lettura del mio testamento?» Prisca Vidal odiava i convenevoli.
«Perché non eri morta.»
«Ma potevo esserlo.»
«Tu, una dipartita privata? Faresti un patto col diavolo pur di poter leggere necrologi e messaggi di condoglianze. Certo che anche il notaio, prestarsi a una tal pagliacciata!»
«È un vecchio amico, lui, che sa divertirsi. Lui.» Naso all’insù e aria offesa: col diavolo avevo colto nel segno.
«Tu ti sei divertita, con un’entrata a effetto, rediviva di bianco vestita!»
«Anche il bianco è un colore per il lutto.» Ammettere di aver esagerato, mai.
«Mi pare però che Lara abbia visto nero!»
«Uff! Sta benissimo. E i lasciti hanno messo tutto a posto.»
Conoscendola, immaginai i lasciti: il tansu giapponese, lampade vintage, servizi da tè e quadri, tutti acquisti emozionali, di valore e buongusto questo sì, ma finiti in soffitta per far posto ad altro.
«E dai! A loro piacevano quelle cose, quindi… ho fatto pulizia.»
«Il diavolo ti ha messo alla porta e tu hai forzato quella sul retro.»
«Oh, la porta! Scusa Emma, hanno suonato.» Trarsi d’impaccio era una sua specialità.
Il giorno dopo Prisca mi chiamò sul cellulare:
«Perché ti ho licenziata?»
«Non mi hai licenziata, mi sono dimessa.»
«Davvero? Sai che non mi ricordo.»
Prisca ha una memoria di ferro, ma a senso unico.
«Davvero, Emma, non rammento. Sai, l’età...»
Col pacchetto in prima fila, le ricordai di come un anno prima avesse cestinato con un “Che schifo!” la mia versione del primo capitolo del suo ultimo libro, uscendo poi da casa sua sbattendo la porta e lasciandomi lì come una cretina.
Avevo scritto le mie dimissioni piangendo. Non ci eravamo più sentite.
Quello schifo però lo aveva utilizzato e, magra consolazione, c’era anche un po’ di me nel successo ottenuto.
La terza telefonata decretò che stavamo capitolando:
«Allora, l’hai aperto o no?»
Impiegai un secondo di troppo a rispondere:
«No, non an…»
«Fallo, Emma, prima che sia troppo tardi!»
«Ci penserò.»
«No, fallo e basta! Il tempo corre.»
Conoscevo Prisca da più di trent’anni: ero stata sua assistente, prima lettrice, editor e confidente ma quel tono, così accorato, mi era del tutto nuovo. Avevamo lavorato bene assieme: era instancabile, brillante e sensibile, ma dalla copertina ruvida e quella frase mi colpì. Il passare del tempo non era mai stato un problema per lei.
Quella sera aprii il pacchetto.
Avvolto nel pluriball c’era un elegante cofanetto con intarsi di madreperla, con dentro alcune boccette di inchiostro e Bice, la sua stilografica, off limit per tutti.
Mai avrei pensato che potesse liberarsene: era stato un dono di Natale del padre, modesto operaio, che lo aveva comprato, usato, dopo che alcuni racconti di Prisca erano stati pubblicati.
«Lo vidi vergognarsi di avermi regalato una cosa usata. Gli promisi che avrei scritto sempre e solo con questa penna, e l’ho fatto.»
Per stemperare il momento avevano battezzato la stilo Bice, come una cugina pettegola.
Sotto la penna trovai un bigliettino:
“Bice non mi serve più, non ho più nulla da dire. Riprendi i tuoi racconti, lavoraci con lei: è meglio del Mac. Scusa per quel giorno.”
“Non ho più nulla da dire”: mi ero chiesta tante volte cosa avesse incrinato quella che era stata anche una bella amicizia, e mi addolorò che Prisca avesse affrontato da sola l’angoscia di sapere che “L’ombra della neve” sarebbe stato il suo ultimo romanzo.
«Avresti dovuto dirmelo, donna testarda! Ti avrei aiutata!»
Piangendo trovai il posto giusto per Bice sulla scrivania.
Mi organizzai e riuscii a ritagliarmi un paio d’ore ogni giorno per riprendere i miei racconti da dove li avevo lasciati, anni prima. Li affrontai come fossero scritti da altri: era il mio lavoro dopo tutto. Mi fecero un po’ pena: lo stile era buono ma dovevo sfrondare senza pietà, liberarmi di personaggi e passaggi inutili.
Ogni tanto Prisca mi inviava un messaggio, sempre quello:
«Come va?»
Le mie risposte? Punto morto, sono nella m…, togliti dalle palle, forse ci siamo, bleah.
Impiegai diversi mesi a riscrivere otto racconti e quando le risposi: «Finito!» la sua replica fu: «Arrivo.»
Li avevo riscritti a mano, con Bice.