Niente da fare, Monsieur Messiaen. Mio caro passeggero triste; ci sei sempre così vicino, a un passo dal capire, e invece niente, d’improvviso tutto sfugge, fa un salto in avanti (o indietro) e tutte le certezze precipitano. Aveva ragione Claire, la tua “Mi”, che mentre trascrivevi sul quaderno il canto degli uccelli appollaiati sugli alberi lungo la Senna ti prendeva in giro e ti disturbava, baciandoti dietro le orecchie. Certo, hai ragione, Dio è nelle piccole cose, nel grano della senape, come dite voi uomini, ed è difficile distinguerlo dalla Natura. Ecco perché ti ostini a chiedermi lezioni, ma io, il piccolo pianeta dove vivi, cosa posso fare più di così?
“Liturgia di cristallo”
(Primo movimento)
Tra le tre e le quattro del mattino
il risveglio degli uccelli: un merlo o un usignolo solitario
improvvisa un canto
circondato da uno scintillio di suoni,
da un alone di trilli che si perdono alti tra gli alberi.
Tutte le mattine, anche ora che si gela, mio caro Olivier, siedi sui gradini della baracca dodici e ascolti gli uccelli che si risvegliano. Le macchie indistinte alla luce dei fari delle torrette di guardia, il frullio d’ali d’un merlo, il vento gelido che solleva sbuffi di polvere bianca dalle creste di neve, leggera come zucchero a velo. Ci sono dei passeri appollaiati sui recinti di filo spinato, il loro canto è un chiacchiericcio concitato. Il soldato di ronda li spaventa, quelli fanno un volo in cerchio e poi tornano a posarsi.
Olivier, mio caro passeggero triste, dunque questi uccelli sono davvero i più grandi musicisti del creato? E io dunque sono il più grande direttore d’orchestra? Sembri un bambino, con gli occhi enormi di stupore così piccoli dietro le lenti spesse degli occhiali. Nella disperazione del campo di prigionia hai capito che la bellezza non scompare mai del tutto.
Siedi ancora sui gradini della baracca dodici quando i prigionieri escono per lavorare. Una lunga processione curva, piedi strascicati, teste basse, sulla strada che da Gorlitz porta a Reichenau. Escono la mattina, tornano la notte. Sono così stanchi che non riescono a dormire. Li senti grattarsi e lamentarsi delle pulci mentre si rigirano nei pagliericci.
Non vai con loro a lavorare in città, sei un sottufficiale e poi il Feldmaresciallo ti ha affidato il compito di scrivere della musica.
Quando sei arrivato allo Stalag VIII-A, insieme ad altri ventimila prigionieri francesi e belgi catturati a Verdun, vi hanno ammassato nelle poche baracche disponibili con altri diecimila uomini già presenti. In attesa che tirassero su altri alloggi, molti dormivano all’aperto o in tende provvisorie.
«Le hanno fatte costruire ai polacchi» ti ha detto un soldato tedesco. Era un bel ragazzo, con delle macchie scure sul naso e la pelle trasparente, sorriso e fucile spianati «ma si sa come sono i polacchi, sono sempre stanchi e il lavoro è rimasto a metà.»
Dove fossero finiti i prigionieri polacchi non era dato saperlo, il soldato dalla pelle trasparente ha alzato le spalle.
«Saranno a riposare» ha detto.
Io so dove sono, non tutti certo, ma molti di loro stanno davvero riposando, sotto una cava di sabbia e argilla, dietro il campo.
Era il luglio del ‘40 e dal fiume Neisse, acqua scura e lenta, arrivava il canto delle cicale e nugoli di moscerini. Quattrocento uomini si ammalarono di dissenteria, ne morirono venti e ti, che tuo malgrado eri sottufficiale medico, li dovetti seppellire nelle foresta, con una vanga e un fazzoletto stretto su bocca e naso.
Quella notte il Feldmaresciallo ti fece chiamare.
«Mi hanno detto che lei compone» disse, «che è titolare del posto di organista della Sainte-Trinité a Parigi. Mi pare sprecato come becchino.»
Parlava un ottimo francese. Stava seduto con le gambe incrociate, gli occhi duri, mentre sbucciava con calma una mela vicino alla finestra aperta.
Tirasti su gli occhiali col pollice. Una stecca si era allentata, ma non avevi idea di come fare a sistemarla.
«Sì» mormorasti, ci pensasti qualche secondo, «signore» aggiungesti.
«Mi piacerebbe scrivesse qualcosa da suonare qua.»
«Nel campo?»
«C’è un capanno molto grande che possiamo usare come sala da concerto.»
«Signore, non abbiamo gli strumenti e…»
«Quello non è un problema, li troveremo. So che conosce già altri due musicisti, monsieur Henri Akoka e monsieur Étienne Pasquier, eravate insieme prigionieri a Nancy. Io ne conosco un terzo, monsieur Jean Le Boulaire, che suona il violino in maniera claudicante, ma via, date le circostanze direi che possiamo accontentarci.»
Scosse il capo e iniziò a masticare uno spicchio di mela. Il crocchiare sotto i denti ti fece riempire di saliva la bocca.
«Potrei provare.»
«Provare, bah. Lo deve fare, e lo deve fare entro gennaio. Potete suonare nel lavatoio, per ora.»
«Ma signore, entro gennaio mi pare azzardato, senza…»
Il Feldmaresciallo ti fermò alzando un braccio. Lanciò la mela in terra, ancora quasi intatta e ti venne voglia di chinarti e raccoglierla e divorarla.
«Avremo delle visite a gennaio,voglio che sia tutto pronto per allora. Ecco» disse il tedesco, afferrando dalla scrivania dei fogli bianchi, una matita e una gomma consunta, «credo questo basti per scrivere le partiture.»
Facesti una smorfia, non perdevi di vista la mela. Da quanto non mangiavi una mela? Da quanto non mangiavi qualcosa che non fosse zuppa di chissà cosa o patate al cartoccio?
«Monsieur Messiaen, dovrebbe essere grato per quello che le sto offrendo. Lei qua al campo è inutile. Sa cosa facciamo fare alle donne polacche che non sanno fare nulla?»
«Le donne? Non sapevo ci fossero donne.»
Il Feldmaresciallo fece un gesto vago, indicando dietro di lui un punto imprecisato.
«Abbiamo dato loro un paio di forbicine e per tutto il giorno devono stare chine a tagliare l’erba. Dodici fili d’erba d’uguale misura. Con undici di questi fanno un mazzetto e il dodicesimo filo lo usano per legarli assieme. Vuole aiutarle?»
Olivier, mio caro passeggero triste, in una società dove la sopraffazione del più forte sul più debole diventa l’unico legame sociale non c’è posto per i sentimenti umani. Hai fatto bene a prendere quel foglio e quella matita e ringraziare.
Sulla strada per Gorlitz ora ci sono solo chiazze di neve scura e fango. Ti sollevi a fatica, vedi il tuo respiro, ti si appannano gli occhiali quando entri nel capannone.
Henri ti sta aspettando. Si è fatto una sigaretta con l’angolo di un foglio di carta, dentro non ci ha messo nulla e fa finta di fumarla. Ha l’aria indolente da ragazzino, il ciuffo ribelle sulla fronte, i piedi nudi davanti alla stufa a legna, le scarpe aggiustate con spago e cartone buttate lì accanto. Quando ti avvicini, vedi le righe del pentagramma e qualche nota sulla carta della finta sigaretta. La indichi, fai per dire qualcosa, ma Henri dà una manata per aria, due boccate piene, fa finta di buttare fuori il fumo mentre dimena le dita dei piedi.
«Cosa darei per una sigaretta vera» dice.
«Andiamo, ci stanno aspettando.»
Ti metti a raccattare i tuoi appunti e con i fogli sottobraccio (da uno manca un angolo) aspetti che Henri si infili le scarpe.
Il lavatoio è aperto su un lato e fa freddo e tocca suonare con i cappotti e le sciarpe. C’è un catino d’acqua calda di fianco agli strumenti e ogni tanto voi quattro musicisti ci immergete le dita. Un lenzuolo irrigidito dal gelo separa la zona dove sono sistemati gli strumenti dalla sala delle vasche e dà un poco di riparo dal vento. Il pianoforte è arrivato da poco, vecchio e con due tasti che faticano a tornare su dopo essere stati premuti, mentre il violoncello è arrivato da un liutaio di Gorlitz dopo una colletta tra i prigionieri per poterlo pagare. Per qualche giorno è rimasto con sole tre corde ed Étienne ha dovuto suonarlo così com’era, scuotendo la testa tutto il tempo e bestemmiando a bassa voce. è un tipo particolare, Étienne, tutto ossa e alto poco più del suo strumento, i baffi curati anche là, in mezzo alla disperazione. Mentre suona si getta sul violoncello quasi a volerlo strangolare, con odio o amore eccessivo, vai a saperlo.
Jean è invece taciturno, con un principio di calvizie e le dita lunghissime, come le gambette di un ragno.
«Ho finito il primo movimento» annunci, alzando gli spartiti «mancava solo questo, ora abbiamo tutto.»
«Manca anche il terzo» dice Étienne, le mani immerse nella tinozza e il naso rosso e screpolato.
«Per il terzo ho un’idea, sarà un assolo di clarinetto, quindi ci penseremo io e Henri.»
Un botto sordo e non troppo lontano, forse un colpo di fucile, nessuno ci fa caso o fa finta di non sentire.
«Suoneremo tutti e quattro» continui, «io sul piano scorrerò una serie di ventinove accordi sempre uguali, con ritmo immutabile, per dare l’impressione di qualcosa che non ha né inizio né fine, intanto il violoncello suonerà note lente e lunghe mentre il violino e il clarinetto imiteranno il canto degli uccelli, un merlo e un usignolo.»
«Un merlo e un usignolo.»
«Sì, Henri.»
«Uccelli.»
«Non ti sfugge niente.»
«Sei un filino fissato con gli uccelli. Perché?»
«Ho sempre pensato che gli uccelli sono i nostri grandi maestri e che hanno trovato tutto: i modi, i neumi, la ritmica, le melodie, i timbri, e perché no, anche l’improvvisazione collettiva. La musica è sempre esistita nei rumori della natura, il suono armonioso del vento negli alberi, il ritmo delle onde marine, il timbro delle gocce di pioggia, dei rami spezzati, dell’urtarsi delle pietre, dei vari gridi degli animali. E soprattutto nel canto degli uccelli. Quel suono è musica di sfere celesti.»
«Sfere celesti, bah» sbotta Étienne, «che ne sai che il canto della cincia che viene dal felceto non sia invece il lamento dei dannati, come raccontano dalle mie parti? Il mondo è un posto ingannevole.»
«E poi, come facciamo a riprodurre esattamente il loro canto?» chiede Jean, è seduto sul bordo della sedia e tiene il violino stretto tra le braccia, come un neonato.
«Gli uccelli» spieghi, «essendo più piccoli di noi, con un cuore che batte più rapidamente, cantano in tempi che sono troppo veloci per i nostri strumenti, dunque lo trascrivo in un tempo più lento. Per di più questa rapidità è associata a dei registri così alti da essere inaccessibili ai nostri strumenti, perciò li trascrivo fino a tre ottave sotto. Inoltre sopprimo gli intervalli troppo piccoli. Tutto è ingrandito, ma ciò che restituisco in musica è esatto.»
«Ma perché tutta questa fatica?»
«Perché il loro è il linguaggio dell’amore cristallino, e sa Dio quanto c’è bisogno qua dentro d’amore.»
Con l’ultima posta è arrivata una lettera di Claire, la tua piccola “Mi”. Cammini in questa sera di neve che sta diventando notte, con la fotografia che lei ti ha mandato davanti al naso. Nella foto Mi e tuo figlio Pascal sorridono. Cammini, a ogni lampione al mercurio ti ferma e sotto la luce livida accarezzi l’immagine. Una lunga traccia di orme ti segue, subito si riempiono di neve.
Accarezzi la foto.
«Cip, cip» dici.
“Abisso degli uccelli”
(Secondo movimento)
Clarinetto solo.
L’abisso è il tempo, con le sue tristezze, i suoi scoramenti.
L’uccello è il contrario del tempo;
è il nostro desiderio di luce, di altezze, di arcobaleni,
di canti gioiosi!
«Dov’è Henri?»
Jean sta pulendo con un panno il suo violino, non alza nemmeno la testa, si limita a scuoterla. Étienne invece sbuffa e alza gli occhi al soffitto.
«Quell’imbecille si è fatto sbattere dentro la celletta di rigore perché ha sputato in terra mentre passavano gli ospiti del Feldmaresciallo.»
Non credi alle tue orecchie, mio piccolo passeggero. Non riesci neanche a imprecare. Scuoti in aria i fogli con le partiture del terzo movimento, tutte correzioni e rimandi e segnacci, tutto ancora da provare e da discutere con quel… non hai un insulto adeguato per Henri. Non lo hai neppure per il Feldmaresciallo, a dire il vero, che a due settimane dal concerto rinchiude uno dei musicisti in isolamento.
Ti volti ed esci dal lavatoio, nel gelo. Tutto è ricoperto da un leggero strato di neve e dai tetti imbiancati salgono in volute lente piccoli arabeschi di foschia. C’è silenzio, fitto, tremendo. Non senti i tuoi passi mentre ti dirigi alla baracca adibita a prigione. È uguale alle altre, nel centro preciso del campo, non fosse per le sbarre alle finestre e i soldati di guardia e il filo spinato che la circonda non la noteresti neppure. Provi a parlare con i soldati, ma ottieni solo dei no. Poi le vedi, due braccia penzoloni da una finestra, sul lato a nord, i polsini della giacca consunti, una sigaretta di carta tra indice e medio. Fai il giro della baracca, pestando i piedi sulla neve che da quella parte è più alta e bagnandoti i calzoni. Un’altra cosa da mettere in conto a quel… niente, non ti viene nulla di abbastanza offensivo.
«Henri» urli. La tua voce si consuma assorbita dala neve. Un soldato si affaccia da dietro un angolo, fa per dire qualcosa, poi sputa in terra e se ne va.
«Buongiorno» ti dice Henri. Ne vedi solo le mani. Una si muove per salutarti.
«Ma cosa diavolo ti è saltato in mente?»
«Non lo so, è stato più forte di me.»
«Senti, ho finito di sistemare le ultime cose, dobbiamo…»
«Si fotta quel nazista. Mi sembra di essere come l'orchestra del Titanic, che suona mentre la nave affonda.»
«Ma cosa stai blaterando? Noi non suoniamo per lui! Noi suoniamo per dimostrare che nonostante tutto non siamo "non ancora morti", ma siamo vivi! Noi suoniamo per dimostrare a tutti i ragazzi che ci sentiranno che anche se siamo prigionieri in realtà siamo liberi!»
«Liberi un cazzo.»
Rimani a bocca aperta, gli occhiali scivolano lentamente sul naso.
«Henri, brutto idiota, rifletti su questo: la musica non cede mai alla disperazione. L’uomo ha la forza di reagire a ogni forma di umiliazione, di andare oltre la vita contesa ogni giorno alla morte; ha il bisogno insopprimibile di sperare. Perché la sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna sopportarla, ma l’infelicità è una scelta. Tu cosa scegli?»
Passa del tempo, in mezzo a quel silenzio sembra l’eternità.
«Passami quei cazzo di spartiti» dice Henri, «Magari mi ci faccio anche qualche sigaretta.»
«Non hai il clarinetto, forse potrei…»
«Ce l’ho. Quel malato di mente me l’ha fatto portare. Non ho neanche un secchio per cagare, ma dopotutto non devo esibirmi con quello. Parole sue.»
Ti allunghi, ti graffi con il filo spinato, riesci a consegnare i fogli.
«Scommetto che questi trilli alla fine sono degli stramaledetti uccelli» dice.
Inizia a suonare e la musica è così grave da entrare nello stomaco e far fatica a uscire.
«Supponiamo che ci sia stata una singola pulsazione in tutto l’universo» spieghi, mentre fa una pausa «una sola pulsazione; con l’eternità dopo di essa. Un prima e un dopo, è la nascita del tempo. Immaginiamo ora quasi immediatamente, una seconda pulsazione. Dato che ogni pulsazione si prolunga nel silenzio che la segue, la seconda risulterà più lunga della prima, è la nascita del ritmo. Ma a noi interessa suonare i silenzi, l’intervallo tra una pulsazione e l’altra, il dramma dello scorrere del tempo. Fino all’arrivo della gioia finale, del canto degli uccelli, della fine del tempo stesso, l’eternità.”
Henri lancia una bestemmia.
«Suonare il silenzio? E come Cristo faccio a suonare il silenzio?»
Alzi le spalle.
«Non lo so, ma ammetterai che era davvero una bella frase.»
«Vaffanculo» dice Henri.
«Cip, cip» cinguetti.
Il capannone è stipato di prigionieri. In prima fila gli ufficiali, alcuni con un fazzoletto al naso. Come biasimarli, l’odore è davvero atroce. Lungo le pareti i soldati, come antiche statue guardiane.
Il Feldmaresciallo è venuto a salutarvi prima di iniziare. Un gran sorriso, una pacca sulla spalla. Tira fuori una scatoletta d’argento, la apre, estrae una sigaretta lunga e candida come latte.
«Questa è per lei» dice e la incastra sull’orecchio di Henri.
Lui rimane immobile, non sorride, non ringrazia, non respira.
Il Feldmaresciallo richiude la scatoletta e la fa cadere nella tasca della giacca.
«Va bene» dice ed esce.
Henri si leva il ciuffo dalla fronte con una manata, prende la sigaretta, la rigira davanti agli occhi, la annusa, chiude gli occhi, la annusa di nuovo.
Olivier, mio caro passeggero triste, è una lacrima quella che scivola lungo lo zigomo di Henri mentre accartoccia la sigaretta e la getta via?
Poi iniziate a suonare. Cosa posso raccontare, io, povero spettatore non invitato, di questa meraviglia? Racconti l’Apocalisse, la fine del tempo, per spiegare la vita. La musica è forte, cattiva, profonda, poi sale, impazzisce, rotola. I vostri strumenti riempiono di gioia i volti delle persone che stanno ascoltando. Jean, Étienne, tu. Ed ecco il silenzio, Henri inizia il terzo movimento, tiene gli occhi chiusi, tra una nota profonda e l’altra si sente solo il vento sui vetri delle finestre e i singhiozzi di qualcuno che piange, in fondo alla sala. E quel silenzio…
Sì, questi pochi fortunati che stanno ascoltando, imbacuccati nei loro stracci, sporchi e puzzolenti, distrutti, lo vedo, me ne accorgo anche io che sono così distante da voi uomini, questi piccoli passeggeri si stanno riscattatando dalla mediocrità, dalla prigionia, da loro stessi. Vivono.
Monsieur Messiaen, mio caro passeggero triste, alla fine dunque qualcosa sei riuscita a capirla e a metterla in musica. E così, per colpa tua, in questa notte gelata, mi costringi a piangere. Lacrime che diventano neve e coprono tutto. Coprono il capannone dove state suonando, lo Stalag, la cava di sabbia e argilla e i cadaveri che ci sono sepolti, coprono la fame, la sete, le piaghe, i geloni ai piedi. La sopraffazione, la pietà.
Visto da lassù, da dove volano gli uccelli, tutto è ora silenzio, l’armonioso silenzio del paradiso. Un silenzio che durerà fino al loro prossimo canto.