«Ho fame.»
Il fascio di luce che arriva dalla porta la illumina per metà. La ragazzina ha bussato e le è stato aperto e ora si sforza di sorridere, ma le viene fuori un ghigno sghembo. I capelli le si sono attaccati alla fronte, la bambola che tiene per il collo sgocciola sul pantano che è diventata la strada.
La donna che sta sull’uscio si pulisce le mani nel grembiule e la osserva. Quell’esserino emaciato diviso in due dalla luce deve incuriosirla, perché piega la testa di lato, come farebbe un cane.
Intanto ha ripreso a piovere e si sente solo il rumore delle gocce sul fango e il respiro ansante della ragazzina. Si passa una manica sugli occhi per levare la pioggia dalle ciglia.
«Ho fame.»
La donna allunga una mano, la ragazzina si ritrae. Le dita della donna sono calde, le spostano i capelli dalla fronte.
«Vieni dentro ad asciugarti e a mangiare un boccone» dice e si scosta per invitarla dentro.
La ragazzina abbassa il capo e fa un passo all’asciutto.
«Grazie, siete molto gentile» sussurra. Sente nell’aria un buon odore e le viene l’acquolina in bocca. Non si era sbagliata.
«Aspetta qua» le dice la donna e scompare. La sente dare spiegazioni a qualcuno e poi la vede tornare con un telo pulito.
La ragazzina si fa asciugare senza fiatare. La donna le fa togliere le scarpe prima di accompagnarla in cucina. I vestiti sono ancora umidi e le si sono appiccicati al corpo scheletrico, dalla gonna orlata di fango spuntano due piedini lerci. La donna la fa sedere vicino al fuoco che arde in un grande camino. La ragazzina sistema per bene la bambola di pezza davanti alle fiamme, così che si asciughi per bene anche lei. I capelli della bambola sono pagliuzze irte e gli occhi due bottoni diversi. Non ha la bocca.
«Ciao» le dice un uomo. È seduto davanti al tavolo apparecchiato e sta tagliando il pane. Sorride. La ragazzina alza una mano, le unghie sbeccate e sporche di terra per quanto ha scavato nei giorni precedenti.
«Sei di queste parti?» chiede l’uomo.
«Sì» risponde la ragazzina.
L’uomo pare perplesso, probabilmente quei lineamenti secchi, le guance scavate, gli occhi enormi e scuri gli dicono poco. Sono paesi minuscoli e ci si conosce tutti
«Sei di Ales?» indica col coltello per il pane sulla sua destra.
«No.»
«Mogoro?» e indica dall’altra parte.
«No.»
«E quindi?»
«Non conosco la località dove sono nata, mi dispiace.»
L’uomo posa il coltello sul tavolo e si gratta la barba.
«Almeno un nome lo avrai» dice la donna. Le sistema una coperta sulle spalle e le porge un paio di calze di lana.
«Non ho un nome» dice la ragazzina, infilandosi i calzini, « i nomi sono prigioni, ma se sentite la necessità di etichettarmi nell’ultima casa dove sono stata mi chiamavano Dalia, è la stata la prima e unica volta che ho avuto un nome.»
«Be’» dice l’uomo, «non ci capisco nulla.»
«Io sono Caterina e lui è Giuseppe» interviene la donna.
La ragazzina annuisce.
«C’è anche qualcun altro.»
«Sì» risponde la donna, anche se la ragazzina non aveva fatto nessuna domanda, lei sapeva che c’era qualcuno altro. «Nostro figlio Giacomo, ha solo un anno. Adesso dorme di sopra.»
La donna porta in tavola tre piatti di minestra. C’è anche del formaggio e delle patate cotte nel brodo.
La ragazzina fissa il suo piatto, le chiazze di grasso di pollo sono isole giallognole.
«Ma non avevi fame?» chiede la donna.
«Sto morendo di fame» risponde la ragazzina.
«Domani ti accompagno in caserma» annuncia l’uomo, «con tutta evidenza sei scappata. Eri a servizio in quella casa dove ti chiamavano Dalia? Devono essere ricchi, i tuoi vestiti, anche se sporchi, sono bei vestiti…»
La ragazzina lo squadra, gli occhi enormi, che riflettono il fuoco.
«Non sono scappata» dice, «e questi vestiti li ho rubati. Per convenzione sociale è imposto il non andare in giro nudi.»
«Santo cielo» mormora l’uomo, grattandosi la barba.
«È evidente da come si esprime che Dalia sia una signorina di buona famiglia, che ha potuto studiare, che è schizzinosa col cibo e che non vuole raccontarci la verità.»
«Non vi ho mentito e non intendo farlo. Non sono usa alla falsità. Se volete conoscere la storia della famiglia che mi chiamava Dalia non ho difficoltà a raccontarla, ma non so quanto possa essere utile.»
«Su, sono curiosa.»
«Come volete. È passato meno di un secolo, era l’ultima notte senza luna del milleottocentotrentasei…»
«Oh Gesù…» dice l’uomo, posando il cucchiaio e iniziando a tagliare il formaggio.
«Lasciala finire.»
L’uomo scuote la testa, sconsolato.
Scavò per tre giorni e quando mise fuori la testa pioveva ghiaccio. Aveva fame, un appetito atavico, intrinseco nel suo essere. L’erba era ghiacciata, si spezzava sotto i piedi nudi. L’alba spazzò via le nuvole, una luce itterica inondò le colline e la brina la catturò, diventando luminosa come diamanti. Rubò un lenzuolo rigido per il gelo e lo usò come veste, stringendolo in vita con una corda di canapa.
Seguì l’odore. Non era facile trovare il cibo giusto, perché troppo grande sarebbe stato coriaceo e troppo piccolo non l’avrebbe sfamata. Trovò ciò che cercava in una fattoria isolata. Una casa di mattoni di fango e pietra nuda. Una stalla, qualche pecora e un cavallo docile. Confezionò un pupazzo usando un sacco di juta che riempì di paglia, il crine del cavallo come capelli e due palline di fango per gli occhi.
Bussò alla porta che il sole calava dietro le colline, sulla piana di Oristano e tra le paludi malariche. Le aprì un uomo enorme, accigliato.
“Ho fame” disse la ragazzina.
L’uomo sputò in terra.
“Vattene” disse.
“Ho fame” provò a sorridere.
L’uomo chiuse la porta.
Rimase immobile davanti all’uscio serrato per un tempo che non riuscì a quantificare, forse non le importava neppure. Aveva fame, certo, ma non poteva farci nulla, doveva essere invitata a entrare, lo esigeva l’etichetta.
Quando la porta si riaprì il sole non era ancora sorto e l’uomo già usciva per andare ai campi. La spinse di lato e passò oltre.
“Ho fame” disse la ragazzina alle sue spalle. L’uomo tirò fuori il cavallo dalla stalla e lo caricò degli attrezzi e di due ceste. Quindi prese il sentiero che saliva a monte, tirandosi dietro il cavallo per le briglie.
Passò del tempo, il sole sorse e una donna uscì dalla casa. Aveva un fazzoletto nero attorno al capo e vestiva di nero. Il lutto la segnava anche nel viso.
“Vieni dentro” disse alla ragazzina. Le offrì del cibo che non toccò e la diede dei vestiti.
“Sono di mia figlia Dalia” disse, “lei è morta un anno fa, dando alla luce mio nipote. Puoi tenerli.”
Il bambino gattonava nella cucina, strascicando le ginocchia sulla terra battuta. Aveva due grandi occhi scuri. La ragazzina ci giocò per tutto il giorno, gli diede da mangiare, lo pulì quando si fece i bisogni addosso. La donna iniziò a chiamarla Dalia.
“Quanto le somigli” mormorò.
L’uomo tornò la sera. Quando vide la ragazzina non disse nulla, lei lo aiutò a togliere gli stivali irrigiditi dal fango ghiacciato.
“Domani andrai via” le disse. La ragazzina annuì.
“Ho solo bisogno di conoscere i vostri nomi, se la cosa non vi crea imbarazzo.”
Glieli dissero. Durante la notte lei li pronunciò e li tenne prigionieri per qualche ora. Abbastanza per mangiare senza essere disturbata e per tornare a dormire.
«Non lo faccio perché provo piacere a farlo» dice al termine del racconto, «è la mia natura. Devo farlo, ma nel tempo ho preso degli accorgimenti per renderlo più civile. Ho pensato ad esempio che fosse buona educazione lasciare qualcosa in cambio. Io prendo il cibo e vi lascio un simulacro.”
Sfiora la bambola e sorride, quel particolare sorriso sghembo e guasto che deve imparare a controllare meglio.
«Penso sia il caso che tu vada via» dice l’uomo, alzandosi.
«Sta solo scherzando» dice la donna, ma anche lei è irritata, si vede da come stringe le labbra.
«Giuseppe e Caterina» sussurra la ragazzina. I due si irrigidiscono, l’uomo con un’espressione d’ira, in piedi, la donna seduta con i pugni serrati, il panico negli occhi. Dentro l’involucro inanimato che è diventato il loro corpo la mente è vigile.
«Domattina riacquisterete l’uso del corpo. Vi consiglio però di non mettervi a correre o fare gesti bruschi, è meglio riattivare i muscoli con calma.»
La ragazzina si alza e accarezza la guancia della donna. Sale le scale.
Quando torna giù tiene il bambino per il collo, come prima teneva la bambola. Il bambino ha gli occhi sbarrati, ma non ha la bocca e vorrebbe urlare e la membrana di pelle che ora la ricopre si stira e sembra quasi stracciarsi.
Alla donna scende una lacrima.
Consuma il suo pasto sulla cima di un antico tumulo, su di un ciclopico masso basaltico, nuda, bianca e accartocciata su se stessa, le ossa della schiena e del costato sporgenti come quelli di una iena. Lo mangerà tutto, non sprecherà nulla, lo deve a quelle brave persone che l’hanno accolta in casa e poi tornerà a dormire, fino a quando la fame non la sveglierà ancora.