Nell’abitacolo aleggiava un forte profumo di gelsomino che le dava la nausea.
Giulia spinse a fondo il pedale dell’acceleratore sperando di trovare quanto prima un’area di sosta. Dopo pochi chilometri raggiunse una piazzola situata in un punto panoramico. Scese dall’auto e respirò a pieni polmoni l’aria salmastra.
Il tramonto insanguinava il mare che circondava come una parentesi tonda la piccola baia sottostante la costa. Frugò dentro la borsa ed estrasse il cellulare per scattare un selfie prima che l’oscurità ingoiasse ogni colore. Si ravviò i capelli, scelse il profilo migliore, cercò di sporgersi più che poteva, ma l’inquadratura continuava a non soddisfarla.
«Se vuole, le faccio io la foto.»
La sconosciuta pareva essersi materializzata dal nulla. Giulia le diede una rapida occhiata: una bella donna sulla trentina, abbigliamento sportivo da trekking, uno zaino leggero sulle spalle. Una turista, si disse; chissà quanti bei sentieri da scoprire c’erano in quei luoghi. La donna aveva un aspetto vagamente familiare e un tono di voce caldo e rassicurante.
«Grazie, mi farebbe piacere.»
Le porse lo smartphone.
«Ecco fatto! Ne ho scattate due o tre per sicurezza. Veda se le piacciono.»
«Vanno benissimo, ma dammi pure del tu. Piacere, mi chiamo Giulia.»
Tese la mano. La signora rifiutò il contatto.
«Nora. Scusami, ma ora devo proprio andare…»
«Posso darti un passaggio, se vuoi.»
«Non è necessario. Abito qui sotto.»
«Mi era sembrato un posto isolato.»
«Ci sono delle villette proprio sulla costa. Dalla strada non si notano.»
«Beata te! Vivere in un posto così è come stare sempre in vacanza!»
La donna accennò un sorriso, voltò le spalle e s’incamminò.
Giulia osservò la figura di Nora allontanarsi, fino a diventare un’ombra indistinta tra gli alberi che costeggiavano la scogliera. Un brivido le percorse la schiena senza un motivo apparente. Scrollò le spalle e si ripromise di rimettersi in viaggio.
Il profumo di gelsomino che aveva avvertito nell’auto sembrava essersi dissolto nell’aria fresca della sera, eppure, quando salì a bordo, una traccia dolce e nauseante tornò a stuzzicarle le narici. Era sicura di non avere nulla in macchina che potesse emanare quel profumo. Inserì la chiave nel cruscotto e l’auto tossì, rifiutandosi di avviarsi. Sbuffò, provò un’altra volta, poi un’altra ancora. Niente. Il motore non dava segni di vita, come se qualcosa avesse assorbito tutta la carica della batteria.
Con un sospiro di esasperazione, afferrò il cellulare. Nessun segnale. Provò a muoversi intorno all’auto, cercando di captare anche la più debole delle tacche, ma la schermata continuava a mostrare l’assenza di connessione. Si guardò intorno, incerta. Le ombre della sera erano calate rapidamente, inghiottendo il panorama e tingendo la baia di un’oscurità profonda.
Fu allora che notò una piccola luce in lontananza, appena visibile tra la vegetazione che scendeva verso il mare. Doveva essere una delle villette che Nora aveva menzionato. Magari qualcuno le avrebbe dato una mano, o almeno le avrebbe permesso di fare una telefonata. Giulia chiuse l’auto, si strinse la giacchetta addosso e si incamminò lungo il sentiero che s’intravedeva tra gli alberi.
La luce sembrava quasi chiamarla, guidarla nel buio. A ogni passo, Giulia si sentiva sempre più distante dalla strada e dal rassicurante rumore delle automobili. L’unico suono che la circondava era lo sciabordio delle onde che si infrangevano contro le rocce. Dopo pochi minuti, vide la sagoma di una casa delinearsi tra gli alberi: era una villetta con le pareti di pietra e le finestre scolorite dalla salsedine.
Si avvicinò alla porta e bussò, ma nessuno rispose. Provò di nuovo, più forte. La porta si aprì con un cigolio, rivelando un interno illuminato solo da una fioca luce proveniente dal fondo del corridoio. Un odore pesante, un misto di umido e aroma dolciastro di gelsomino riprese a tormentarla riempiendole le narici.
«Permesso?» chiamò avanzando lentamente. Nella semioscurità notò qualcosa di strano nella disposizione dei mobili, come se fossero stati lasciati a metà di un movimento. Un vecchio specchio pendeva dal muro, e Giulia si fermò a guardarsi per un istante. Il volto riflesso le appariva pallido, gli occhi un po’spenti segnati da occhiaie profonde.
Si voltò di scatto quando sentì una voce familiare in lontananza.
«Te ne saresti già dovuta andare.»
Era Nora. Stava in piedi in fondo al corridoio, con la stessa espressione indecifrabile che aveva avuto quando si erano incontrate sulla strada.
«Meno male che sei tu! La mia auto non parte e non ho campo per chiamare aiuto» spiegò «pensavo di trovare qualcuno che potesse farmi usare il telefono… la porta era socchiusa e sono entrata, scusami.»
Nora non le rispose subito. Si limitava a fissarla con occhi che ora le parevano vuoti, come pozzi senza fondo. Poi, con un breve cenno della testa, l’invitò a seguirla.
La portò in una stanza con pareti spoglie, al centro della quale si trovava un tavolo di legno massiccio. Sopra, c’era un volume dall’aspetto logoro. Le pagine parevano spesse e ingiallite, bordate di nero.
«È… un vecchio album di fotografie» sussurrò Nora quasi con reverenza, anticipando la domanda di Giulia.
Giulia si avvicinò, incapace di distogliere lo sguardo. Provò una strana attrazione per quell’oggetto, come se una forza invisibile la spingesse a toccarlo, a sfogliarlo. Si chinò per osservare meglio la scritta sulla copertina: Anno 1954.
“Aprilo”, ordinò Nora, la voce ridotta a un sibilo.
Giulia, senza nemmeno capire perché, obbedì.
Si trovò davanti a una serie di piccole foto in bianco e nero: una bambina diafana con gli occhi un po’ infossati e l’espressione triste nonostante fosse davanti a una torta di compleanno, in un’altra, la stessa bambina, sorreggeva una bambola di pezza a cui mancava un braccino, in un’altra ancora cavalcava un cavallo a dondolo privo di un occhio.
Girava le pagine sotto lo sguardo vigile di Nora che non l’abbandonava un solo istante.
La bambina sembrava essere l’unico soggetto delle foto, mai un’immagine dei genitori o dei parenti. Soffocò a stento un grido quando vide una foto che la ritraeva mentre impugnava un coltello acuminato.
Le pagine successive contenevano solo ritagli di giornale.
«Ora ricordi?»chiese Nora con un ghigno appena accennato.
Giulia corse a cercare l’uscita. Le luci della villa cominciarono a tremare.
Nora la raggiunse, il suo volto ora era una maschera di ombre e vuoti. Sembrava assorbire la luce, come se fosse un buco nero in mezzo alla stanza.
«Chi sei?» riuscì a chiederle, la voce quasi soffocata.
«Perché me lo chiedi? Io lo so chi sono. E tu?»
Giulia prese un lungo respiro, serrò le palpebre e deglutì a vuoto. Una poltiglia di ricordi iniziarono a emergere nella sua testa come punte di iceberg:
il sangue dei genitori sulle mani, la siepe di gelsomino sotto la quale li aveva sepolti, il grande salto verso l’ignoto dalla scogliera, la furia delle onde…
«Perché hai scelto di tornare, Giulia?»
Si voltò verso lo specchio e questa volta si rese conto che le parole uscivano dalla sua stessa bocca. Non c’era alcuna Nora nella stanza. Non c’era mai stata.
Le ombre si addensarono intorno a lei avvolgendola, soffocandola.
L’ultima cosa che sentì prima che l’oscurità la inghiottisse completamente fu il profumo di gelsomino, così forte da stordirla, e il fruscio delle pagine dell’album che si chiudeva con un rumore secco, definitivo.