Sto morendo, e se non fosse destino morirei lo stesso per la puzza che devo sopportare. Io, il grande pittore Claudius Flavinius, il cultore della bellezza e della raffinatezza, a morire così male nel giardino che ho sempre tenuto perfettamente curato, assieme a questo assurdo infermiere. E’ andata così, maledizione. Mio padre mi aveva avvertito, mai legarsi a qualcuno. Per questo ho vissuto evitando di affezionarmi. Ho schivato per quanto possibile donne e uomini, mi sono sempre dedicato a coltivare le passioni, la cultura, il piacere, e a cinquantaquattro anni ha fatto breccia Decimus, è entrato a piè pari nella mia vita. E così gli ultimi sei mesi sono stati bellissimi, e l’ultima settimana una catastrofe. No, non volevo questo, e so che ho creato io le circostanze; se non fossi onesto, e se avessi fede, le imputerei ai capricci delle Parche. Ciò che è successo è innato alla mia natura, al nuovo sentimento natomi dal cuore, alla mia pietà e alla ricerca di una estetica esasperata che mi porta a distruggere ciò che non soddisfa il mio gusto.
La bellezza l’ho coltivata attraverso le mie opere di ingegneria domestica, con la ricerca e lo studio dei filosofi greci e romani tramite i libri più rari e costosi in circolazione, con l’arte della pittura con la quale ho impreziosito le tante pareti delle ville patrizie e soprattutto la mia domus. Sono sempre stato alla ricerca della perfezione, così tanto ossessionato da liberarmi spesso dei miei dipinti imperfetti, dei libri comprati troppo incautamente, di tutti i rapporti con le persone. Non che ne sia pentito: i molti papiri che non erano perfettamente tenuti o i cui contenuti erano deludenti svilivano la mia biblioteca, e le mura divisorie della mia casa, solo i miei schiavi sanno quante volte le ho fatte demolire per spostarle anche solo di mezzo dito, per il nuovo progetto architettonico. Per non parlare dei miei arazzi che ho coperto con nuovi intonaci per dipingerli ancora con soggetti più coinvolgenti, per sperimentare nuovi colori che arrivavano dalla Spagna o da Cipro, o perché alla fine ci trovavo “il difetto”. E mi sono liberato anche del superfluo: i rapporti umani, sempre pettegoli e deludenti; le amicizie che vivono solo per gozzovigliare nel mio giardino e giocare ai dadi o alle noci; la fede nell’intervento salvifico degli Dei, che quando occorrono non ci sono mai. E soprattutto mi sono affrancato dalla peggiore umanità, le insulse donne imbellettate di gesso e biacca nella faccia e nelle braccia, coi loro frivoli discorsi sui gioielli o su come ringiovanire col latte d’asina, col loro sesso che sembra una ferita che non rimargina. Non che abbia rinunciato al piacere, ma non certo con quelle insulse femmine.
Ricordo bene, come potrei dimenticare quei bellissimi giorni, quando andai per la prima volta nella magnifica città di Messalina. In quel tempo frequentavo già i bordelli di Neapolis. Erano stanze luride, con letti in pietra, giacigli umidi, donne disfatte. Mio padre lo sapeva, sorrideva, mi scherzava ma non mi spiegava. E poi mi portò con se a Roma, per insegnarmi il mestiere. Avrebbe affrescato una villa patrizia sull’Esquilino. Fu lì che scoprii le varie sfumature del piacere. Ogni sera andavamo al lupanare del Palatino, quello voluto da Caligola per i patrizi e per la classe facoltosa, e nel mentre io mi soddisfavo con le meretrici, vedevo lui appartarsi con bambini bellissimi. E ho voluto provare anche io. E non sarebbe stata più la stessa cosa. Nel corso degli anni ho comprato diversi schiavi che mi hanno dato la possibilità di sperimentare ogni possibile sfumatura del sesso, e quando sono usciti dalla pubertà li ho poi impiegati in lavori poco faticosi come riconoscimento per il loro servizio reso.
E sempre da mio padre ho ereditato la passione di dipingere quella che lui chiamava “tempio del desiderio”, la camera da letto. Nella mia ho dipinto il bello, gli unici arazzi della casa che non ho mai coperto, dove la perfezione l’ho quasi raggiunta. Non ho mai affrescato una delle quattro pareti. Mi sono sempre reso conto che quel vuoto stonava, ma mi mancava il soggetto giusto; il tramezzo era pronto per il campione ideale che tuttavia non avevo ancora individuato.
Eppure tutto quanto sta finendo, perde d’importanza, ora che sto morendo. Tutti quei libri, i miei dipinti, quegli arazzi che fanno della mia villa la più bella di Ercolano, chissà che fine faranno. Presto sarò accolto nell’Averno e non potrò portare nulla di tutto ciò.
Anche la natura sta disperando. Da giorni le scosse fanno tremare la terra, e pennacchi di fumo inquietanti minacciano la città dalla montagna. No, il vulcano non si dispera per me, non versa lacrime perché sono in fin di vita.
Sento la febbre che mi debilita, respiro a fatica, il mio sputo è doloroso e colloso, e so per certo che non ne avrò per molto, che morirò alla ricerca spasmodica d’aria. E’ una disgrazia da troppo amore, non ha a che fare con la collera degli Dei, non credo nel loro intervento. Lucrezio, già più di un secolo prima, scandalizzando Cicerone, con la sua poesia non negava l’esistenza delle divinità. Nel De Rerum Natura invocava Venere perché lo ispirasse, ma poi spiegava gli eventi naturali e le loro conseguenze sull’uomo, di fatto sancendo l’inazione divina. E io, come lui, non è che non creda in loro. E’ solo che questi Numi sono insensibili e indifferenti all’uomo, sia a dare che a togliere.
E la prova la sto subendo ora, disteso sul giaciglio, mentre sento i borboglii dell’inquieto Vesuvio. Dove siete Dei Consenti? Non certo qui, in giardino, dove comparite come fredde statue agli angoli delle siepi di alloro e rosmarino, e dove sto cercando aria disteso sul baldacchino, alla mercé dell’infermiere praticone; qui che in solitudine godevo, tra un rutto e l’altro, della frescura sotto i graticci delle viti, con la tavola imbandita di mammelle di vitella cotte coi datteri e il miglior vino a dissetarmi. Si, dove siete anche voi Olimpici dal volto greco, ora che i miei polmoni cercano aria fresca, cercano qualsiasi altra aria, tranne quella che proviene dai miasmi di cataplasmi di urina, sangue di cavallo e cavoli che l’infermiere mi sta applicando. E devo anche sopportare le sue litanie che durano da ore, con la testa che mi scoppia:
- …motas uaeta daries dardaries, asiadarides una te pes… -
- …haut haut istasis tarsis ardannabon… -
…e vorrei dirgli anche basta, basta con quelle suppliche, ma non ne ho la forza. Ne sono certo, nemmeno lui sa cosa vogliono dire queste giaculatorie. Sono riti che attengono più alla magia che agli insegnamenti di Ippocrate. E io sono un nobile emancipato, ben poco incline alla stregoneria, avvezzo al bello e ispirato dal modello epicureo. Non ne ha colpa, lo so, l’infermiere fa quello che il suo padrone gli ha ordinato, ma non mi può certo confortare.
Già, il suo padrone, quel medico codardo che ho pagato bene e che appena mi ha visto e gli ho spiegato i sintomi ha cominciato a allontanarsi e ha incaricato il suo accolito schiavo di assistermi con quei rimedi. Nella stanza dei papiri ho quel testo di Catone dove spiega come curare le lussazioni e i raffreddori, e quel tipo di unguenti sono farmaci per quelle malattie. Quello da cui sono affetto è noto, altro che raffreddore. Almeno i puzzolenti cataplasmi, che non servono a nulla, avrebbe potuto risparmiarmeli. E comunque vorrei morire presto, non mi interessa più vivere, dopo che Decimus se n’è andato, facendo in tempo purtroppo a vomitare sui mosaici del mio tempio del desiderio. Vorrei evitare la sofferenza, questo sì, e invece mi si spalma addosso le pomate di piscio, e che assomigliano alle tempere che mischio per dipingere la mia casa. Ma i miei colori sono lo strumento per creare bellezza, contengono i profumi dei solventi, il pesto di fiori e piante resinose, la cera più pura; quelle pomate ideate da qualche Dio per umiliare l’uomo sono solo poltiglie per esperimenti sulla morte.
Non volevo far del male a Decimus. Quando me lo portarono, sei mesi fa, dalla Giudea, gli diedi subito il nuovo nome romano, lo feci pulire per bene e lo portai a letto. Ricordo come si spaventò quando vide l’affresco che avevo dipinto nella camera da letto, quella bellissima pittura di Pan che possedeva una capra. Ma, i Numi mi siano testimoni, la prima volta sono stato molto delicato con lui. Non volevo che gli accadesse quanto occorso a Primus, il mio primo schiavo del piacere; non avevo mai visto prima di allora un bambino di undici anni togliersi la vita; negli anni avevo imparato che vanno presi per mano e iniziati alla bellezza. E lui era gracile, il più minuto di quei bambini che avevo già comprato negli anni scorsi. Pochi giorni, veramente pochi, e ero già invaghito di lui. Non era particolarmente intelligente, anzi, non capiva la lingua e non l’ha mai imparata. Ho provato a spiegargli che era fortunato a essere stato fatto schiavo, che si sapeva che le madri giudee quando avevano fame si mangiavano i loro figli e che con me era salvo. Lui non capiva, era solamente spaventato e montava in me quell’istinto paterno di protezione. Si, lo amavo, per quanto si possa amare uno schiavo, ma la storia di Roma è sempre stata piena di patrizi innamorati dei loro servitori, e loro dei Romani.
La mia camera da letto, è quello il luogo che più adoro della mia villa, il tempio del piacere dove festeggiavo ogni giorno il baccanale, lì dove forse sarebbe più onorevole andarmene. Ho disegnato e colorato le tre facciate, una più bella dell’altra, non certo con le insulse opere che mi commissionavano gli altri possidenti per le loro ville, coi loro mari piatti, le greggi o gli eroi mitici che indossano armature sfavillanti e calzano ghette del colore del cuoio. Il mio pennello, in quello spazio privato, può affrescare esclusivamente il piacere; uva e sesso, uomini e animali coi loro membri turgidi, semidei e umani in promiscuità. E non permetto a nessuno di vedere quella stanza, chi ci entra non può più uscire dalla mia vita. Quantomeno vivo.
Dopo averlo ucciso, già con la febbre e respirando a fatica, ho comunque provato a dipingere il liscio intonaco ancora bianco del tempio del desiderio; volevo fare un nuovo affresco raffigurando Decimus ancora vivo e perfetto. Con lui avrei usato il cinabro, la tempera più preziosa e difficile da trovare, che mi facevo portare dalla città di Sisapo. E, pur debilitato, avrei impiegato ogni mia capacità e attenzione a ricreare il suo volto da efebo, per cogliere col pennello la sua anima. Per le sue natiche scure ero riuscito a combinare il rosso d’uovo con le foglie bruciate dei vitigni e la cera. E poi, prima di intingere il pennello nei colori, sono crollato a terra impossibilitato a fare qualsiasi cosa.
La testa mi scoppia, il puzzo di piscio e sangue è forte anche all’aperto, qui in giardino, e mi fa vomitare, o forse rimetterei anche senza quell’odioso unguento. E poi la terra che trema, un’altra forte scossa di terremoto che mi smuove il basso ventre, che mi fa cagare addosso. E’ un caldo anomalo per il periodo, che dalla metà di agosto a Ercolano ogni anno cominciano a soffiare i venti e sopraggiunge la frescura marina. La febbre monta anche sotto la pergola di viti.
- …ardannabon, ardannabon, ardannabon… -
Non lo sopporto più questo infermiere. Non ho forza di guardarlo, così tanto schiavo, impaurito di ammalarsi da contagio, scosso dall’inquieto e minaccioso Vesuvio, certo di morire per mano del suo padrone medico se mi abbandonasse senza cure, lui però scappato via al sicuro col sacchetto pieno di sesterzi.
Quando quattro giorni fa ho visto Decimus sputare quel scuro e colloso muco e perdere le forze, quando l’ho sentito respirare a fatica e ho avvertito la sua pelle bruciante, ho capito subito che aveva il tifo bianco. Eravamo entrambi finiti. Avevo un testo di Aristotele sulla medicina. L’ho riletto, ma ricordavo bene ciò che c’era scritto. I sintomi erano inequivocabili, e la malattia mortale si trasmetteva per contagio umano. Era ovvio che, per i nostri trascorsi intimi, per quei baci appassionati col quale gli mostravo tutto il mio amore, sarebbe arrivato il mio turno. Decimus si sarebbe presto imbruttito, si era già sfigurato, e quando sarebbe toccato a me fare i conti con i primi sintomi della malattia, oltre a disperarmi per l’infausta affezione, avrei dovuto sopportare di assistere agli ultimi respiri di un bambino con la gola gonfia, pallido da far paura, con la tosse, puzzante di sudore e dei suoi schifosi reflui dalla bocca e dal culo, un bambino che non rispettava più il mio concetto di perfezione estetica. Ma non sono un mostro, e sono riconoscente a chi mi ha dato piacere. Con un vassoio colmo di fichi dolci e maturi cosparsi di miele di eucalipto l’ho portato nella nostra alcova. Coi gesti gli ho mostrato che doveva mangiarli, che il miele gli avrebbe alleviato il dolore, gli avrebbe facilitato la respirazione, ma non capiva altro se non che doveva mangiare. E ci ha provato, e ha vomitato sui mosaici del tempio, non l’avevo previsto, non potevo sopportare quel puzzo, quel mio luogo sacro così insozzato. Non potevo fare altro, chiunque può capirmi. Gli sono andato alle spalle pensando con malinconia a quando gli ero dietro per amarci, a quando era perfetto. Con un braccio teneramente ho abbracciato il suo corpicino, e con l’altro, dopo averlo accarezzato, gli ho spezzato l’osso del collo. Pur sapendo di avergli risparmiato una fine orribile non mi sono sentito meglio, ho guardato il vomito e il corpicino esanime, ancora il vomito sui miei mosaici, sui miei meravigliosi mosaici! E ho pianto, ma non ho pregato. A che sarebbe servito? Gli Dei Consenti non ci ascoltano.
- …ardannabon, ardannabom, ardannabom…-
Sto morendo, sarà a giorni o a ore, e per me faccio una eccezione e sto invocando ogni divinità che sia capace di ascoltare. Prego che qualcuno venga misericordiosamente a sopprimere l’infermiere e a uccidermi. Se gli Dei ascoltassero, se sbagliasse Lucrezio a dire che sono indifferenti agli uomini, li prego di far esplodere quel maledetto vulcano, che con la vampata perfetta mi dissolvano, o che mi trasformino all’istante in una maestosa quanto tragica statua, così smetto di soffrire.
Ecco, la natura esplode, è un boato mai sentito. L’infermiere strabuzza gli occhi, guarda verso il Vesuvio e finalmente scappa. Questa bella giornata di sole si fa di colpo scura come la notte, è un colpo di scena, si fa “veramente” bella. E capisco. E ringrazio. E so che non è stato Marte, non è stato Giove. So che questo dono arriva dalla Dea dell’amore. Ripenso all’invocazione di Lucrezio e recito a memoria “…tu sola puoi gratificare i mortali con una tranquilla pace, poiché le…”