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Maggio 2005
Arturo Camisa, 80 anni – 75 e rotti dice lui e non si può dargli torto – barcolla, vacilla pericolosamente e inciampa nei cordoli dei marciapiedi o in gradini inesistenti. All’inizio i medici hanno pensato a qualche strano effetto collaterale dei farmaci che assume dopo il leggero ictus di tre mesi prima, poi hanno stabilito che servono approfondimenti, visite specialistiche: l’oculista in primis, l’otorino, il neurologo, persino uno specialista dell’alimentazione, come se le minestrine slavate, i finocchi cotti e il formaggino molle potessero fargli male!
"Magari morire di fame sì, ma per il resto… una pisciata e non c’è più niente!"
Risultati: zero.
"Più li paghi e più sono coglioni." Arturo è uomo di pochissime parole e i pensieri preferisce tenerseli chiusi in testa perché, se escono, basta una corrente d’aria balorda e cambiano significato.
Lui sa esattamente cosa causa quella sua camminata strana, ma poiché nessuno di questi luminari glielo chiede, perché mai deve essere lui a dirglielo? Hanno o no studiato per degli anni? E allora che si arrangino: Arturo Camisa si arrangia da una vita e ha fatto solo la seconda elementare.
Se mostrassero un po’ di umiltà e gli chiedessero: «Allora, Arturo, cosa c’è che non va?» lui in dieci parole – non una di più - gli risolverebbe l’arcano. Invece chiedono altre cose, anzi le chiedono a sua figlia, come se lui neanche fosse presente.
Comunque, dopo aver rischiato di essere investito due volte nello stesso giorno, la figlia decide di farlo ricoverare presso la clinica Biasi: l’esimio professor Biasi è uno specialista. Di cosa non è dato a sapersi.
"Di culi e tette di sicuro, di altro staremo a vedere."
Arturo, quando non lo stanno passando come il riso, si siede in un salottino, vicino allo studio privato del professore: giacca da camera, pigiama perfettamente stirato, cappello in testa, bastone che non serve a niente ma fa molta scena, aria assente ma orecchie ben aperte.
"Ohi, in questa pelle ci sto dentro io! Perquindi all’erta sto."
E stando all’erta si gode i passaggi delle infermiere e i commenti dei parenti dei ricoverati: pettegolezzi, notiziole interessanti per far passare le ore e tenere esercitata la memoria. Una cosa è certa: le cure del professor Biasi sono lunghe, costose e bisogna tornare spesso per dei controlli. Adora i regali, anche se, pare, occorra insistere parecchio per farglieli accettare.
"Basta crederci." Uno più uno uguale a tanti euri: i plurali, per Arturo, son sempre plurali, boia d’un mond leder.
Ogni giovedì il professor Biasi passa in visita, con un codazzo di dottorini alle prime armi: tronfi, pieni di vanagloria, sempre d’accordo con le diagnosi del Grande. Pericolosi e penosi. Quel giovedì c’era un dottorino nuovo: bassottello, occhiali che sembrano dei fondi di bottiglia e l’aria da gufo incazzato.
Com’è un gufo incazzato? Non lo so: mi piaceva la frase. Fatene arrabbiare uno e poi magari mi fate sapere.
Dicevamo. Il professor Biasi quel giorno voleva proprio divertirsi alle spalle del neo dottor Donato Rossetti e gli chiede di indovinare “cos’ ha il qui presente Arturo”.
Proprio così: indovinare, come se la malattia fosse un gioco a premi.
Rossetti controlla la cartella clinica (Biasi lo indica con gli occhi agli altri dottorini, con uno sguardo di ironico compatimento), fissa per bene in viso Arturo (Biasi incrocia le braccia come chi aspetta ma sta mettendo fretta), studia le mani dell’uomo che stringono le lenzuola ben stirate (Biasi quasi scoppia per l’impazienza) e alla fine, con calma espone la sua diagnosi e la sua cura.
Nella stanza scende un silenzio irreale e tutti sembrano delle statue.
Poi Biasi comincia a ridere, così di gusto che un attacco di tosse lo scuote come fosse di gelatina. Anche i dottorini si sentono in dovere di ridere: ma sono risate stentate, false e penose, di convenienza. Rossetti diventa paonazzo, e quando il gruppo esce dalla stanza, lui è l’ultimo della fila: l’asino di quel giovedì.
Arturo lo trova un paio d’ore dopo nei giardini della clinica, demoralizzato e solo.
«Hai indovinato.»
Il Gufo annuisce, senza guardarlo, lo sguardo perso nei cespugli di ortensie: che importa se ha indovinato? Non era la risposta che Biasi voleva sentire, quindi era quella sbagliata.
«Curami.»
Arturo non ha incertezze, e lo sguardo è serio. Il gufo accetta. Parlottano una decina di minuti poi Arturo torna in camera, sempre barcollando ma con un sorrisino sornione sotto ai baffi.
Tempo un paio di settimane Arturo è guarito: non barcolla quasi più e se capita è sicuramente colpa del marciapiede sconnesso o di un sassolino nella scarpa. Il professor Biasi è estremamente contento di sé: con sussiego consegna alla figlia un piccolo elenco di medicine e la parcella.
"Pillole che ti faranno anche guarire, ma prima devi stare attento a non morire soffocato, e fialette… bah tra colore e sapore…".
La figlia di Arturo ringrazia, stacca un cospicuo assegno e lascia sulla scrivania un presente: cinque minuti di trattative per farglielo accettare, poi una stretta di mano molliccia e un buffetto sulle guance di Arturo, neanche fosse un deficiente.
«Ha visto che ce l’abbiamo fatta, Arturo? Più in gamba di prima!»
Quando arrivano all’ascensore Arturo decide che deve ringraziare il professore a modo suo, giusto per non fare la figura dell’interdetto.
«Te vai giù e aspettami, che se no ti scappa l’ora del disco volante!»
Quando sale in macchina Arturo Camisa è davvero guarito del tutto.
Il giorno dopo, appena la figlia esce per andare al lavoro, Arturo traffica una mezz’oretta in camera sua, poi raggiunge il nipote Yuri, che sta studiando. Studiando? Mah! Sempre con quei cosi sulle orecchie, il naso dentro al computer.
Pianta una bastonata sulla scrivania che fa letteralmente schizzare il ragazzo dalla poltroncina.
«Porc… nonno! Stiamo calmi eh! Per un infarto sarei giovane! E cazzo, guarda il mouse… era nuovo di pacca!» I resti del mouse sono sparsi un po’ dappertutto.
Arturo parla molto poco e il nipote si adegua: le loro conversazioni hanno del surreale.
«Cà meia.» Traduzione: Voglio andare a casa mia, in montagna.
«Giorno?»
«Adesso.»
«La mamma?» Traduzione: La mamma lo sa? Glielo hai detto? È d’accordo?
«Frega un casso!» La traduzione non serve.
«E… ?» Traduzione: come ci vai?
Sulla scrivania si materializzano le chiavi della macchina della figlia.
«E io?» Traduzione: Chi la sente poi la mamma?
Un sorriso complice e 150 euro.
«Alè!» Traduzione: andiamo.
Arturo abita in un paesino di montagna: insomma non proprio montagna, ma ormai neanche più collina. Una via di mezzo, freddo d’inverno e gradevolmente fresco d’estate.
Yuri accompagna Arturo alla sua casetta e resta con il nonno fino a sera, controllando che tutto sia in ordine: gas, acqua, serrature, cibarie, legno per il camino. Avrà anche i capelli lunghi e magliette di due taglie in più, ma il cervello funziona: anche lui aveva capito, ma nessuno aveva voluto dargli retta.
«Certo che se la mamma sapesse! Le sue povere piante!»
«Hi, hi, hi, visto che roba? E io dovevo mandar giù tutte quelle schifezze? Mo sit mat?»
E già! Il contenuto delle fialette e delle capsule avevano causato la morte prematura di gerani…
«Non capisco: li ho comprati assieme alla signora Enrica e guarda i suoi, una meraviglia! ‘Sti qua son pronti per l’estrema unzione.»
… dei fiori di vetro…
«Gianandrea! Quante volte ti devo dire di non farmi correnti d’aria in corridoio!»
I pothos però non erano mai stati così rigogliosi, mentre i ficus beniamini erano rimasti totalmente indifferenti alle nuove cure quotidiane.
Un paio di settimane e Arturo è davvero rifiorito: merito dell’aria buona, delle passeggiate nei suoi boschi, della compagnia di altri rimba come lui. Dottori, basta. Che roba! Anni e anni di studio, ma come usare il cervello… niente.
Nessuno di loro era stato capace di capire che era malato di nostalgia per il suo piccolo mondo, fatto di camminate in cerca di funghi, di cespugli di lamponi, delle piccole radure dove stava per ore e ore a osservare caprioli, scoiattoli, corvi… il sole, le nuvole. Arturo aveva bisogno del profumo delle foglie che stanno marcendo, del calore del fieno sui prati, con quell’odore dolce e allo stesso tempo forte, dalle mille sfumature che solleticavano il naso e i ricordi.
La città, con i suoi odori schifosi, l’acqua dal sapore strano, le piante malate e nessuno che le curasse, lo disgustava. Per non parlare dei cani col cappotto, delle fragole in dicembre e le arance in agosto.
Il mondo alla rovescia lo confondeva, solo quello.
Ma adesso tutto sarebbe tornato a posto: una bella passeggiata mattino e pomeriggio, alla sera una partitella a carte con gli amici. A pranzo e cena un brindisi con un mezzo bicchiere di vino alla salute del Biasi, lunga vita e che Dio l’abbia in gloria.
Alla fine, i brindisi fanno effetto, per la parte del Dio l’abbia in gloria: l’esimio specialista muore, pare avvelenato da funghi non commestibili. Il luminare aveva un debole per i funghi: nella dispensa, mescolati a quelli commestibili, ne avevano trovati alcuni che non erano proprio velenosi velenosi, al massimo potevano dare disturbi gastrointestinali più o meno gravi. Ma lui non li sapeva riconoscere e, tra buoni e meno buoni, ne aveva consumati in quantità industriale: davanti al cibo non aveva limiti.
Fegato e stomaco, già messi male per conto loro, non avevano retto.
Eh sì, brutto modo di morire!
Brutti momenti anche per la famiglia, che oltretutto delle precarie condizioni del medico non ne sapevano niente.
Brutti momenti anche per Abelardo Botti, che da almeno trent’anni procurava al professore i funghi: glieli preparava ben affettati, essiccati al punto giusto, oppure sott’olio o da mangiare crudi. Roba per intenditori.
Botti, più o meno la stessa età di Arturo, era uno che di funghi se ne intendeva come pochi e che avesse sbagliato così clamorosamente sorprese davvero tutti. Certo, i suoi anni li aveva tutti anche lui, da un po’ parlava da solo, si scordava le cose, correva voce che avesse rischiato già due o tre volte di perdersi in quei boschi che conosceva come le sue tasche. Se non ci fosse stato con lui il vecchio bastardone Gigio, mezzo cieco e mezzo sordo chissà come sarebbe andata a finire. Mah, bisognerebbe capire quando è ora di smetterla di fare certe cose.
Comunque sia, il nipote gli aveva trovato un buon avvocato, forse se la sarebbe cavata con poco. Una cosa era certa: lui, poveraccio, la pena l’avrebbe scontata tutta, al contrario di altra gente a cui quasi si deve chiedeva scusa per aver osato arrestarli.
Arturo Camisa non barcolla più: adesso cammina appena. Si trascina dal letto alla poltrona davanti al camino, lasciando spesso che il fuoco si trasformi in ceneri grigie e tiepide; se c’è il sole, arriva alla panchina sotto al portico, fissando chissà che cosa per ore intere. Mangia poco e non lo si vede più all’osteria della Rosa. Qualche volta gironzola in giardino o nell’orto, stappando con furia le erbacce: poi però la verdura viene lasciata a marcire e gli ultimi fiori li ha raccolti la perpetua, per l’altare della chiesa e per quelle quattro tombe dimenticate. Risponde appena al saluto dei vicini, che, preoccupati, hanno avvisato la figlia.
Niente. Né con le buone né con le cattive, Arturo in città proprio non è voluto tornare. Però ha accettato che Yuri si trasferisse da lui per un po’, armi e bagagli al completo: computer, libri per gli esami all’università e un paio di amici che stanno volentieri alla larga dalla bolgia cittadina, e che alla fine si trovano con un nonno in più. E il nonno con delle balie senza tette.
Un giorno Arturo manda Yuri in città: ha bisogno del Gufo. Il dottorino appena lo vede, si spaventa. Prima, e senza tante storie, lo sottopone a una bella visita professionale: il vecchio sta benino, almeno fisicamente, ma qualcosa sembra roderlo.
Poi: «Allora, Arturo, mi racconti cosa ti succede? Guarda che di tempo ne ho, quindi non mi muovo di qua fino a quando non hai vuotato il sacco.»
Arturo lo guarda con occhi acquosi, poi si avvia con passo incerto ma già più sicuro verso un piccolo bosco, dove una vecchia panchina accoglie il fiato corto del Gufo e le confidenze del vecchio.
Quel giorno, ormai così lontano visto tutto quello che era successo nel frattempo, Arturo era tornato allo studio del professor Biasi per dirgli che non aveva capito proprio niente: una frase da poco per dargli del coglione, fiato in più non ne voleva sprecare.
Arrivato davanti allo studio, per educazione, aveva aspettato che il medico finisse una telefonata: la porta era socchiusa e la voce dell’uomo stentorea.
«Signorina, mi faccia un favore: butti ‘sta roba nella spazzatura! Ma figuriamoci, li avranno comprati al supermercato! Anzi, adesso telefono al mio amico Abelardo e ne faccio preparare un po’ per quando torno dall’America.»
Da buttare erano i funghi che la figlia aveva regalato al professore. Funghi raccolti da Arturo l’autunno prima, di primissima qualità e preparati come si deve. Un profumo da sballo, come diceva suo nipote.
Arturo era tornato in montagna giusto in tempo: tempo di funghi, quell’anno abbondanti e bellissimi.
«Ne ho raccolti anche di quelli meno buoni, ma mica velenosi. Li ho preparati bene poi quando la Moretta, la moglie di Abelardo, ha portato alla villa del professore, giù al lago, i suoi funghi, le sono andato dietro e mentre lei curiosava per le stanze e frugava nei cassetti, li ho mescolati a quelli buoni.»
Arturo comincia a piangere, da stringere il cuore: lacrime grosse, che si perdevano nelle rughe di un viso stanco e smagrito e singhiozzi che gli tolgono il fiato come a un bambino piccolo.
«Non volevo mica farlo fuori, ma figurati! Non ho ammazzato nessuno neanche in guerra! Solo un bel mal di pancia, magari capiva finalmente cosa vuol dire star male, con qualcuno che deve indovinare cos’hai!»
«Va bene, però la colpa se l’è presa Abelardo. Cosa c’entra lui?»
«C’entra, c’entra! Aleardo è un poco di buono, un falso e merita di stare in galera. Durante la guerra io e i miei fratelli eravamo lontani, al fronte. Quassù c’era la miseria, di quella nera come la notte. Lui mica era con noi! Eh no! Il signorino era amico di questo e di quest’altro e l’aveva schivata.»
La guerra era stata una manna per Abelardo. Borsa nera, intrallazzi con amici e nemici: quando la gente aveva bisogno, con dei vecchi e dei bambini magri da far paura, una firmetta qui, una croce là e piccoli poderi, qualche vigna e vecchie case avevano cambiato padrone. Archivi bombardati e notai compiacenti avevano fatto il resto. Quando i fratelli Camisa erano tornati non avevano più niente, neanche gli occhi per piangere. Quei pochi soldi che erano riusciti a farsi prestare se li era mangiati l’avvocato, ma solo per confermare che non c’era niente da fare: tutto era regolare.
«Io ho fatto la fame, i miei vecchi sono morti di crepacuore per non averci lasciato niente, per essersi fatti abbindolare. Sai cosa vuol dire? No che non lo sai! Incontrarlo tutti i giorni, vedere come si vanta dei suoi soldi, della sua terra! Aveva anche il coraggio di dire che LUI la guerra l’aveva fatta, fatta davvero. Un porco.»
«Perché non te ne sei andato?»
«E dove? Io sono nato qui, sono come questi alberi, con le radici ben piantate, profonde! Mica come voi giovani, un giorno qui, un altro là, come gira il vento. No, no. Ma prima o poi qualcosa doveva succedere, il magone era troppo grosso.»
Arturo si perde in pensieri solo suoi, si guarda in giro come se quel giorno fosse stata l’ultima volta, come se volesse imprimersi per bene negli occhi i colori delle foglie, nelle orecchie i mille suoni del silenzio del bosco, nelle narici l’odore della terra umida, del legno marcio.
Il Gufo a un certo punto gli tocca la spalla: «Arturo, ma li leggi i giornali?»
«La domenica, ma mica sempre. Mio nipote lo prende tutti i giorni, ma me non m’interessa!»
«Eh Arturo, Arturo! Vieni che ti faccio vedere una cosa. Torniamo a casa, dai!»
Tra una scivolata e un fiato corto per tutti e due arrivano alla casetta: nel baule dalla macchina del dottorino c’è di tutto, persino il guinzaglio del cane che gli era scappato due anni prima.
«Vedi Arturo – e gli allunga il giornale di due giorni prima – il professor Biasi non l’hanno ammazzato i tuoi funghi, si è ammazzato da solo.»
La notizia poteva anche sfuggire: poca pubblicità perché il marcio è sempre meglio tenerlo coperto.
L’esimio si era suicidato: la clinica era in cattive acque, a lui piaceva la bella vita, la moglie adorava il lusso, i figli stravedevano per il suo conto in banca. Senza troppi scrupoli il professore aveva attinto a piene mani nelle casse aziendali, un paese di bengodi fino a quando la Finanza non era arrivata, inaspettata e insensibile ai salamelecchi del Professore.
Piuttosto che la vergogna di un arresto, dei titoli in prima pagina, del processo, aveva preferito togliersi di mezzo in modo teatrale: una dose massiccia di un nuovo medicinale per i problemi epatici di cui soffriva. Prima però si era consolato con una cena pantagruelica, in cui i funghi avevano avuto il posto d’onore: il medico legale, amico di vecchia data, si era lasciato un po’ troppo fuorviare da questo fatto, comodissima soluzione per tutti. Anche per lui, che aveva presentato un paio di sostanziose parcelle “occulte” per mascherare errori clamorosi del professore.
Biasi, codardo fino all’ultimo, aveva cercato di bruciare una sorta di diario, dopo aver affidato a poche righe quel poco di coscienza che gli era rimasto: il camino era ancora acceso quando la moglie lo aveva trovato, agonizzante. O forse era lei che aveva cercato di bruciarlo, sperando di intascare i soldi dell’assicurazione, dopo aver letto le ultime righe, scritte con mano malferma.
L’arrivo della cameriera le aveva imposto di occuparsi, sconvolta, del marito, ma mentre gli infermieri caricavano l’uomo sull’ambulanza era riuscita a recuperare quel che rimaneva del diario, ancora in buono stato e ben leggibile. Da nascondere per bene, leggere, scoprire se c’erano soldi nascosti da qualche parte e poi… poi si sarebbe visto.
Peccato che la cameriera avesse l'occhietto lungo e sapesse dove mettere le mani quando voleva trovare quel che non doveva essere trovato.
Si sa, le cameriere mal pagate e trattate come pezze da piedi, prima o poi qualche sassolino se lo tolgono, soprattutto se un giovane commissario ha una parlantina più sciolta della loro e due occhi neri come il carbone.
«E adesso?»
«Tra qualche giorno il Botti torna a casa, non credo che gli avvocati della vedova abbiano molta voglia di insistere con l’accusa. Avranno un bel po’ di grane da palleggiare, compreso il farsi pagare, visto che di soldi…»
«Mo se aveva macchinoni, orologi d’oro…»
«… gli strozzini davanti al cancello e i conti tanto in rosso che la vergogna è pallida al confronto!»
Arturo adesso è più rinfrancato, si sente leggero e finalmente libero dalle vecchie ombre. In fondo il Botti ha passato qualche settimana con la strizza al culo, niente in confronto ai gran brutti momenti che aveva fatto passare alla gente che era riuscito ad imbrogliare, ma poteva bastare. Ormai la parola vendetta non gli faceva più lo stesso effetto e da che mondo è mondo nessuno è mai stato vendicato senza provocare altro dolore che chiama altra vendetta.
Il Gufo si raccomandò di non pensarci più, gli prescrisse qualcosa per riposare meglio e lo riaffidò alle balie, preoccupate. Preoccupate?
Tempo dieci giorni si trovarono alle prese con un Arturo che li teneva ben in riga, oh se li teneva in riga! Ma nessuno dei ragazzi pensò per un solo momento di fare le valige: troppo forte, da sballo, mettersi davanti al camino, la sera, e ascoltare le storie del vecchio rimba, che la guerra gliela raccontava giusta, gustando la semplicità dei ricordi delle balere da povret, quando in un mandarino regalato a Natale si vedeva la ricchezza.
Non rimpiansero neanche la palestra: c’era un sacco di legna da spaccare per far uscire tossine e muscoli.
Botti tornò a casa appena prima di Natale: sembrava rinsecchito, camminava strascicando i piedi e con lo sguardo sempre abbassato. La gente lo salutava, una pacca sulla spalla, un bicchiere di vino, ma tutti sapevano che le cose non sarebbero mai più state le stesse. Tanta gente aveva tirato fuori dal fondo dei dispiaceri vecchi ricordi e, pur senza goderne, in tutto quello che l’uomo aveva passato ci vedeva un po’ del vecchio “occhio per occhio”.
Abelardo cominciò a parlare da solo, da un vecchio baule tornarono a prendere aria carte ingiallite e fotografie dimenticate: passava intere giornate con quelle carte e con un vecchio quaderno dalla copertina nera e la costa delle pagine rosse. E scriveva, scriveva, con una vecchia matita copiativa scovata in fondo al baule e con una scrittura tornata infantile.
Una mattina sparì.
La moglie non si preoccupò fino a mezzogiorno, poi lo cercò per tutto il paese, arrivò fino alla vecchia casupola della Fontanazza, dove Abelardo teneva qualche coniglio e un paio di caprette.
Se lo ritrovò davanti che ormai era sera: era andato in città, a sistemare i suoi affari. La Moretta le tentò tutte per scoprire come il marito avesse sistemato i suoi affari: interrogatori serrati, la casa frugata da cima a fondo, ma il silenzio di Abelardo era totale. Un pomeriggio, mentre il marito era alla Fontanazza, la Moretta ricevette una strana visita, che la mise in agitazione, facendole passare la notte in bianco.
Il mattino successivo la donna tirò il collo al cappone tirato su per le feste e che quell’anno pensava di averla scampata. Preparò i cappelletti come le aveva insegnato sua nonna, li annegò in un brodo così limpido e gustoso che sciolse il formaggio quasi con tenerezza. Arrosto e bolliti furono cucinati come Dio comanda, per non parlare della torta con le mandorle: il pranzo delle grandi occasioni, chiuso da un caffettino corretto grappa.
Poi, mentre il marito sonnecchiava davanti alla televisione, riordinò per bene la cucina, mise in frigorifero quello che si era avanzato, ben diviso nei contenitori di vetro, diede gli avanzi ai gatti che si erano fatti adottare, andò in chiesa ad accendere una candela alla Madonna.
Tornata a casa, trafficò un poco nel ripostiglio, raggiunse il marito nel salotto e gli sparò una fucilata, dritta al cuore.
Quando arrivarono i Carabinieri li stava aspettando con una piccola valigia, il cappotto grigio già addosso e le carte che il marito voleva firmare per mettersi la coscienza a posto, arrivate il giorno prima con un corriere.
«Sa, maresciallo, lui voleva dare indietro tutta la nostra roba a quelli lì! Tutta la nostra roba! Ma io no, io non volevo, io non voglio tornare povera. Quella lì è roba nostra, ormai.»
Sul tavolo, gli atti che l’avvocato Zanzucchi aveva preparato, per riparare ai torti di oltre mezzo secolo prima.
Abelardo e la Moretta non sarebbero tornati poveri: anche dopo aver restituito il mal tolto avevano di che vivere più che decentemente.
Ma si sa, miseria e cupidigia sono spesso le facce della stessa moneta.
Ultima modifica di Susanna il Mar Ago 31, 2021 4:21 pm - modificato 1 volta.