ANCHE LE LUMACHE HANNO UN’ ANIMA
Quest’estate il tempo è proprio strano, pensava Anna guardando fuori dalla finestra. Viveva nel paese in cui era nata quasi ottantacinque anni prima. Le colline intorno facevano da cornice, un caleidoscopio di colori che variava con le stagioni: il verde degli ulivi e dei ciliegi, il bianco e il rosa tenue dei loro fiori, fino al viola della lavanda che da qualche anno avevano iniziato a coltivare anche lì; una piccola Provenza nella provincia di Verona. I francesi non ne sarebbero stati contenti, ma a chi interessava? A lei no di sicuro, le erano sempre stati antipatici.
La sua casa era piccola, dipinta di bianco, con un giardino selvaggio ma curato. Amava i fiori lasciati crescere spontanei, grandi macchie di colore da illuminarle gli occhi.
Quell’anno era stata dura, il grande caldo non aveva aiutato, le piogge improvvise non erano sufficienti a dissetare la terra dove lei lasciava i fiori liberi di crescere, senza costringerli in piccoli vasi.
Quel giorno il sole e la pioggia si contendevano il cielo, si sfidavano imperterriti senza voler cedere il passo, fino a quando non arrivava l’arcobaleno a riappacificare gli animi. Per quanti ne avesse visti nella sua lunga vita, lo trovava sempre uno spettacolo magico.
Ma ogni cosa bella ne porta una brutta. Quello era anche il tempo preferito dai suoi acerrimi nemici: gli insaziabili e subdoli bogoni, quelle grosse e viscide lumache che banchettavano con le grasse foglie dei suoi fiori.
Perlustrava con perizia ogni quadrato di giardino per scovarli, aveva seminato qua e là grani di sale grosso e cucchiaiate di miele. Le avevano detto che erano ottimi deterrenti naturali, ma i bogoni che infestavano la sua proprietà erano di una stirpe direttamente imparentata con gli Highlander, quei disgraziati. Riconoscevano e quindi evitavano accuratamente le trappole travestite da ottimi bocconcini. Il risultato: il miele attirava intere colonie di formiche e il sale grosso con la prima acqua si scioglieva.
Quando il suo Giulio era ancora in vita li raccoglieva e li trasformava in un lauto banchetto. Lei non li mangiava, non riusciva proprio ad affrontarli ma per il suo adorato marito lo faceva volentieri.
Ci volevano pazienza e amore, bisognava raccoglierli, possibilmente il mattino presto, metterli nelle gabbie e lasciarli spurgare per giorni interi. Poi andavano lavati bene bene, sfregati con la farina di mais e un po’ di aceto più e più volte e infine gettati nell'acqua bollente. Era un metodo un po' brutale e quella specie di stridio disumano che emettevano le faceva ogni volta impressione, ma come dicevano i soliti francesi, c'est la vie.
Adesso che era sola, di mangiarli non se ne parlava, schiacciarli le faceva senso, lo scricchiolio del guscio che si frantumava sotto le suole e poi il viscidume del corpo che ti fa scivolare.
Da piccola lei e le sue sorelle li prendevano e cantavano una simpatica canzoncina se la ricordava ancora: "bogo bogonela tira fora I corni, sennò te metto in padela ti e to sorella". Forse non proprio politically correct, ma erano altri tempi.
Poi l'illuminazione, li avrebbe raccolti, messi in un vaso di coccio, coperti e lasciati lì, sperando nella loro evaporazione.
Una volta c'era Perla ad aiutarla. Certo era una gatta viziata e arrogante e mal sopportava quelle strane cose che strisciavano nel suo regno lasciando scie di bava gelatinosa. Non si impegnava molto per catturarle, si limitava tutt’al più a farle compagnia durante la sua caccia. Da qualche tempo era scomparsa; non era la prima volta che se ne andava per qualche giorno, ma stavolta era passato un mese. Anna comunque continuava a sperare nel suo ritorno e ogni sera la chiamava facendo quel verso tipico con la bocca e mettendo sul davanzale della finestra un piatto con i suoi croccantini preferiti.
Si mise all'opera e alla sera poté ritenersi soddisfatta: il giardino era stato liberato.
La notte il sonno fu disturbato da orde di bogoni inferociti, lumachine che la guardavano fissa negli occhi e le sillabavano forte e di continuo "As-sas-si-na". Percepiva queste odiose creature strisciare sul corpo, rilasciando quantità inimmaginabili di schifosissima bava che la rendevano appiccicosa e lucida. Di fronte a lei un maxi schermo dove passavano in continuazione pubblicità di creme a base di bava di lumaca, unguenti, sciroppi miracolosi, come a puntualizzare quanto questi esserini che odiava tanto fossero invece apprezzati dagli altri.
Si risvegliò sudata e agitata, la candida camicia da notte arrotolata sul corpo, il cuscino sul tappeto e le lenzuola aggrovigliate.
Accidenti, le era sembrato così reale che sentiva ancora le scie sulle braccia.
Questa storia doveva finire, ne andava della sua salute mentale.
Scese senza nemmeno lavarsi, un brutto presentimento le impediva di ragionare. Camminò scalza sul ghiaino fino al vaso. Lo osservò, incerta se aprirlo o meno: e se fossero tutti morti? Sarebbe stata condannata a notti insonni e agitate per l’eternità? Toccò il coperchio, lo sfiorò appena appena, cercò di captare qualche rumore, anche se le lumache si sa sono silenziose per antonomasia. Forza, Anna non fare la fifona! Allungò la mano e scoperchiò il vaso. Vive, sembravano tutte vive!
Bene, ora poteva ragionare.
Mentre consumava la sua colazione le venne un'idea geniale. Si vestì velocemente, senza fare caso a quello che indossava, prese un secchio e vi adagiò ad una ad una, con delicatezza, tutte le lumache.
Sì, la sua era un'ottima idea, ma doveva sbrigarsi, meglio metterla in atto senza testimoni.
Questo è il posto perfetto. Tanti campi, vigne, granoturco, fiori colorati, i suoi nuovi amici lo avrebbero apprezzato, ne era sicura. Si guardò intorno con circospezione e vuotò il secchio. Era salva.
Durante il giorno era ripassata un paio di volte per vedere se si fossero ambientate, in fondo anche le lumache avevano un’anima, magari soffrivano pure di nostalgia, e lei sapeva bene quanto facessero male a volte i ricordi e le mancanze.
Le trovò sempre dove le aveva messe, non si erano mosse, erano rimaste lì ferme, rintanate nel loro guscio.
No, così non andava bene.
Allora cercò di motivarli, descrisse loro tutte le cose che avrebbero potuto fare in un posto così grande. Niente da fare, continuavano ad ignorarla.
La sera non cenò, c'era qualcosa che le chiudeva lo stomaco, forse non aveva avuto una grande idea, però aveva salvato il suo giardino, questo doveva pur valere qualcosa.
A letto lesse un libro, ma le parole le scorrevano davanti senza riuscire a dare loro un senso. Spense la luce e provò a dormire. Lumache ovunque, era circondata da lumache che la fissavano con occhi grandi e severi, occhi enormi che fuoriuscivano dalle loro piccole antenne.
Basta.
Scese dal letto, si mise un paio di scarpe e uscì fuori. La notte stava lasciando spazio al giorno e il cielo era una tavola blu screziata da enormi e soffici macchie viola e rosa a rischiararlo.
Corse nei campi fino a ritrovare quel punto. Erano ancora tutte lì.
Le prese, le rimise nel secchio guardando di non dimenticarne neanche una. Si sentiva meglio, ora poteva tornare a casa. Sulla via del ritorno incontrò i primi passanti che si godevano il fresco della mattina, la salutavano guardinghi, fissandola con curiosità, quasi con paura. Lei ricambiava sorridendo. Stava per mettere una mano in tasca quando si accorse che per la fretta era uscita con la camicia da notte senza nemmeno pettinarsi. Non era da lei, ma non bastò a rovinarle l’umore. Era proprio una bella giornata.
E quell'aria frizzantina le aveva suggerito un'idea stavolta veramente geniale.
Si mise subito all'opera. Rovistò nel garage e trovò due vecchie gabbie per polli. Le pulì per bene e poi le posizionò in un angolo del giardino.
Comprò qualche piantina di fiori e la mise all'interno, aggiunse qualche addobbo per farle divertire, radici, foglie d'edera e altro.
Si sentiva soddisfatta, la casa delle lumache era venuta proprio bene, aveva richiesto un gran lavoro, gambe e braccia quasi non le sentiva più e la schiena scricchiolava ad ogni minimo movimento, era così stanca che decise di coricarsi prima del solito, sicura di poter dormire sonni tranquilli.
Si svegliò riposata e leggera, aveva fatto una buona azione ed era stata ripagata.
Le sue nuove amiche non l’avevano tormentata, così decise di andare a ringraziarle.
“Non. È. Possibile.”
Lumache ovunque, sui suoi gerani, sulle margherite gialle, sul ceanothus, il suo vanto, perfino sull’ortensia.
Tanta fatica per nulla. Rimaneva una sola soluzione, quelle ingrate avrebbero imparato che con lei non si scherzava.
Prese il telefono e digitò furiosamente il numero che conosceva a memoria: “Pronto, Enzo? Ciao, sono Anna, volevo invitarvi a cena sabato della prossima settimana” “Siete liberi? Ottimo! Vi preparerò un piatto gourmet. Portate il vino, rosso mi raccomando”.
di seguito link del racconto che ho commentato
https://www.differentales.org/t1187-il-telefono#13251