Alberto, seduto a un’estremità del tavolo, stava raccontando con entusiasmo quello che aveva appena letto sul vecchio manicomio del paese, dalla sua costruzione fino a quando era stato chiuso e dismesso dopo la legge Basaglia.
Khaoula, unica spettatrice, appoggiò la penna sul quaderno di matematica, sospirò e si mise a gesticolare facendo il verso al compagno. «Bla, bla, bla! Ma invece lo sai com’è adesso Villaluce?»
Lui strinse il libro tra le mani; la guardò con attenzione e curiosità. «No.»
Lei incrociò le braccia e si appoggiò al tavolo. «Io lo so ma non te lo dico.»
Il ragazzino sbuffò. «Eddai!»
La ragazzina sorrise scuotendo la testa; la lunga coda di ricci neri ondeggiò dietro al dolcevita verde.
«E allora non è vero niente!» Concluse lui con una smorfia.
Lei riflesse la boccaccia del compagno. «Invece sì, ho fatto l’infiltrator.»
«Che?»
«L’infiltrator; non sai neanche che cos’è.»
«Sì, che lo so!»
«Dimmelo.»
Restò un attimo a guardarla con gli occhi semiaperti. «Dimmelo tu?»
Lei spiegò con l’espressione da professoressa. «Sono entrata e sono andata a guardare. L’infiltrator. È così che funziona, no?»
«Sì.» Appoggiò il libro e annuì. Si massaggiò le dita per qualche istante. «Cioè sei andata dentro davvero?»
«Oh, ma ci fai?» Lo guardò da sotto in su, come se avesse qualcosa di più interessante da leggere sul quaderno.
Alberto continuò a torturarsi le mani senza dire altro; infine si alzò, per riporre il libro nello scaffale della biblioteca scolastica.
Khaoula riprese la penna e iniziò a giocherellarci. «Tu l’hai già fatto l’infiltrator?»
«S-sì.»
Sorrise di nuovo. «E quindi non ti devo spiegare come si fa.»
«No.»
«Allora pensavo che… potremmo andare insieme a Villaluce.»
«Ah?»
La ragazzina sembrò delusa. «Che c’è, non ti va?»
«Come? Sì che mi va. Ma quando?» Infilò il volume in uno spazio a caso e tornò a sedersi al tavolo.
«Dopodomani, dopo pranzo.»
«Il venticinque?»
«Sei già impegnato.»
Sollevò gli occhi scuri al soffitto. «No, anzi. Il Natale per noi è una festa pagana, a casa mia è un giorno come gli altri.»
«Anche da me. Per questo pensavo che potesse andarti bene.»
Alberto annuì. «Ok.»
Khaoula sorrise. «Allora ci troviamo alle due e mezzo davanti alla cancellata di Villaluce?»
La campanella suonò, segnando la fine della loro permanenza in biblioteca per l’ora alternativa all’insegnamento della religione cattolica.
«Va bene.»
«E mi raccomando: vestito da infiltrator.»
«Certo.»
Raccolsero quaderni, libri, astucci e trolley per poi tornare nella propria aula, la terza A della scuola secondaria di primo grado del loro paese.
La nebbia si era diradata da poche decine di minuti e il sole splendeva sulle campagne appena fuori dal centro abitato. Il silenzio, insolito anche per il primo pomeriggio invernale, era rotto solo da qualche raro veicolo che passava per la strada statale.
Alberto saltellava sul posto, con le mani nascoste nelle maniche, a pochi passi dalla grande cancellata di Villaluce. Si fermò appena vide comparire la compagna di classe dall’imbocco del viale.
Khaoula arrivò e appoggiò la bicicletta sulla china del fosso asciutto che costeggiava la strada. Salutò e squadrò il ragazzino dalla testa ai piedi; si lasciò sfuggire un risolino.
«Che c’è?»
«Niente, sei buffo! Sembra il giubbotto di tua mamma.»
«È di mia mamma, infatti. Non sai cosa mi è costato prenderlo e devo anche starci attento.»
«Ma perché?»
«È l’unica cosa da infiltrator che ho trovato a casa.»
Lei sorrise e fece spallucce. «Ok. Andiamo.»
Khaoula saltò con agilità dall’altro lato del fosso, nonostante il giaccone marrone che le arrivava a metà coscia. Alberto esitò qualche secondo; poi con un gesto goffo la raggiunse, appoggiando anche le mani sull’erba umida per mantenere l’equilibrio.
La ragazzina camminò a passo veloce e il suo compagno di classe la seguì finché giunsero a un punto della recinzione che sembrava del tutto normale.
Lei sollevò la rete senza apparente fatica. «Tieni.»
Lui ebbe un momento di incertezza; poi afferrò il ferro arrugginito e tirò con tutte le sue forze, barcollando un attimo prima di ritrovare l’equilibrio.
Khaoula si accucciò e attraversò l’apertura; con un gesto invitò Alberto a fare lo stesso, appoggiandosi con la schiena alla rete per tenerla sollevata. Lui stette bene attento a raggiungerla senza sporcare il giubbotto.
Seminascosto tra le erbacce del parco di Villaluce c’era un sentiero che li riportò al viale d’ingresso. Davanti a loro si innalzava il palazzo di tre piani che era stato il vecchio manicomio del paese; l’edificio mostrava grosse macchie di umidità e l’intonaco scrostato.
La ragazzina procedette a passo veloce verso l’ingresso; il compagno rimase a camminare con il naso all’insù, finché una piastrella non cedette sotto al suo peso e gli uscì fuori una parolaccia.
«L’ho rotta io?»
Lei ridacchiò. «Ma va’. Qui è tutto rotto. Vedi?» Saltò sul primo dei gradini.
«Che fai?»
«Guarda bene.» Pestò con più vigore. Il listello di marmo si mosse in modo appena percettibile, lasciando cadere briciole di malta e cemento sul vialetto.
Il ragazzino testò i gradini del suo lato, uno alla volta, finché non trovò quello che ballava più degli altri. Lo smosse con apparente convinzione ma solo qualche sassolino scivolò di sotto. Perfino il pianerottolo in cima alle scale era attraversato da numerose crepe. Con un po’ di insistenza e pazienza avrebbe potuto togliere da quell’incastro alcuni pezzi grandi come ciottoli; però la sua compagna aveva già tirato verso di sé la maniglia dell’ingresso, che aveva ceduto senza troppa fatica, e fu così distratto dall’intento.
Entrarono nell’edificio abbandonato. Chiusero la porta e si fece quasi buio; qualche raggio di luce filtrava dalle tapparelle rotte.
Alberto alitò e una nuvola di fumo gli uscì dalla bocca. «Fa freddo anche dentro!»
«Eh, certo!»
Le suole di gomma dei due compagni di classe cigolavano sul pavimento; il rumore si amplificava, rimbombando nell’atrio ormai spoglio e perdendosi nei corridoi che si diramavano in direzione delle tre ali del vecchio manicomio.
«Vieni.» Khaoula si incamminò verso il passaggio centrale, il più scuro di tutti.
Il ragazzino non si mosse. «Sei sicura?»
Lei si girò. «Oh, sei proprio un fifone!»
«Non sono un fifone! Sei sicura che si può?»
«No, che non si può. È questo il bello. Tanto finché siamo dentro nessuno ci può vedere. Andiamo.»
«Dove?»
«Facciamo gli infiltrator. Non sei tu che vuoi sapere com’è adesso Villaluce?»
«Ma non si vede niente.»
«Ho questa.»
La ragazzina tirò fuori una piccola torcia e la accese. Faceva pochissima luce, ma almeno i due potevano vedere dove mettevano i piedi. Alberto si avvicinò a Khaoula e i loro passi ricominciarono a echeggiare.
«Cosa sono questi rumori?»
«Topi, ratti.»
In quel punto l’odore di muffa e di chiuso sembrava mescolarsi con quello di escrementi e urina.
«Ma che schifo! Andiamo via.»
«Sei proprio un fifone.»
«No! No, però… forse è meglio se andiamo.»
«Te la stai facendo sotto.»
«Non è vero. È che… i ratti portano le malattie.»
Lei gli illuminò i piedi. «Hai degli anfibi grossi come le cinghie di un carro armato; se anche provassero a morderti non sentiresti nemmeno il solletico.»
Una luce intensa si accese alle loro spalle; dietro la luce intravvidero la sagoma di un uomo.
Khaoula strattonò Alberto. «Corri!»
«Questo ci ammazza!»
«Corri!»
Arrivarono trafelati alla fine del corridoio; spinsero con forza il portone che dava sul retro e si trovarono all’esterno. Attraversarono il parco in senso antiorario finché, resisi conto che nessuno li inseguiva, si fermarono e si misero a ridere di pancia.
Khaoula fece il verso al compagno. «“Questo ci ammazza!”»
«Ehi!»
«Ti sei preso una strizza.»
«Perché tu no?»
«Vabbè.» Si appoggiò con la schiena a un tronco.
«Ma chi era?»
«Boh? Un vagabondo.»
Alberto smise di ridere. «Lo sapevi!»
«Sì.»
«Sei una disgraziata!»
«Oh, le altre volte non c’era.»
Il ragazzino strinse i pugni e iniziò a batterli tra di loro.
A Khaoula si spense il sorriso. «Che c’è?»
«Se fossi un maschio…»
«Mi picchieresti?»
«No! Però… ti farei pagare la mossa.»
«Invece sono una femmina.»
«Già.»
«E quindi ti faccio schifo.»
«Ma no…»
«Dillo che ti faccio schifo perché sono una femmina!»
«Non è vero. È che le femmine non si colpiscono.»
«Perché?»
«Perché sono diverse dai maschi.»
Khaoula scosse forte la testa. «Guardami: sono alta come te, sono grande e grossa come te. Cosa potrebbe succedermi se mi colpisci?»
Alberto rimase qualche secondo a guardarla dalla testa ai piedi. «Niente?»
«Fammi pagare la mossa, dai!»
«Davvero posso?»
«Vai!»
Il ragazzino caricò il braccio destro e scaricò un pugno non troppo convinto contro la spalla della compagna.
«Ahu!»
«Male?»
«Macché. Tutto qua?»
«Sì.»
Lo spinse delicatamente. «Sei un fifone.»
«Non è vero.»
Lo spinse di nuovo. «Fifone.»
Il ragazzino stavolta reagì, afferrandole le mani. «Bugiarda.»
Lei si avventò con tutto il peso. «Fifone! Fifone!»
«Smettila!»
Alberto inciampò e cadde sbattendo il sedere.
Khaoula, ridendo, scappò verso l’apertura dalla quale erano entrati.
Il compagno si rialzò e la inseguì, finché non si trovarono separati dalla recinzione.
«Aiutami, per favore, che non posso rovinare il giubbotto di mia mamma.»
Lei incrociò le braccia. «Solo se ammetti di essere un fifone.»
Il ragazzino le lanciò un’occhiataccia. «Mai!»
Alberto si accucciò, per appoggiare la schiena alla rete, ma non trovò nulla da spingere perché Khaoula la stava reggendo.
«Dai, esci.»
Lui ringraziò con un grugnito.
Khaoula prese la rincorsa e saltò il fosso senza problemi di equilibrio.
Alberto atterrò di nuovo a quattro zampe, sporcandosi le mani sulla ghiaia fangosa e scatenando un risolino nella compagna.
«Ti va una cioccolata calda?» chiese lei, mentre il compagno si ripuliva.
«E dove? Oggi è tutto chiuso in paese.»
«Hai ragione.»
«Facciamo un giro in bici?»
Lei strinse alcune volte i pugni. «Fa freddo.»
«Già. Allora… boh?»
«Allora ciao.»
«Ok. Ciao.»
Khaoula raccolse la bicicletta dalla china del fosso; Alberto sollevò il cavalletto e inforcò la sua. Quando i due si incrociarono, lei fermò il compagno toccandolo sulla spalla.
«Buon Natale.»
Lui si lasciò sfuggire un risolino. «Buon Natale.»
Si scambiarono tre bacini di rito e poi ognuno tornò a casa propria.