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Ogni mattina apro la finestra e me lo ritrovo davanti. Il proprietario se n’era guardato bene dal mostrarmelo, stronzo, come se avessi avuto scelta. L’appartamento che mi ha affittato è un cubo con quattro finestre proiettate sul grigio degli edifici vicini. Tutti tranne uno. Sulla facciata di quest’ultimo una mente malata ci ha disegnato un’enorme ferita grondante sangue e materia giallastra.
È lì, come un monito, a ricordarmi che questa è la mia vita.
I miei figli hanno accettato il trasferimento in questo quartiere dimenticato da Dio senza drammi. Sono bravi bambini e per loro avrei voluto il meglio, ma la vita è una roulette, avevo puntato tutto sul rouge ed è uscito il noir.
L’unica nota positiva è Teresa, una vecchia che abita sullo stesso nostro pianerottolo. Si è offerta di badare lei ai miei figli, lo fa per compagnia, non certo per quello che le passo. Faccio la commessa in un centro commerciale e lavoro su tre turni per cui lei è stata una manna dal cielo.
Sono esausta, anche oggi mi è toccato lo straordinario. Mi butto a letto e come sempre mi manca il respiro. Qualcosa permea le pareti della mia camera, sono come spugne, si impregnano e si gonfiano fino a inghiottirmi. È inquietante, ma sono troppo stanca e crollo.
“Mamma, mamma, svegliati!” Apro gli occhi e vedo Giorgio in piedi, rigido e pallido, lo sguardo vitreo e le mani tese verso di me. Cerco di liberarmi dalle coperte e nella foga cado sul pavimento battendo un ginocchio. Allungo le braccia per afferrarlo, ma la sua immagine si dissolve tra le mie dita. Il cuore mi batte furiosamente, riesco a vederlo mentre lotta contro la mia cassa toracica.
Corro verso la stanza dei bambini.
Dormono tranquilli, il sangue nelle vene rallenta, accarezzo al buio la testa del più piccolo e il sangue mi diventa ghiaccio.
Il cranio è completamente aperto, ma non c’è sangue, nessuna ferita.
Ho i sensi obnubilati, devo reagire.
Lo prendo con delicatezza e lo avvolgo in una coperta.
Mi attacco al campanello di Teresa, le dico di dare un’occhiata a Giorgio, non ho tempo per le spiegazioni e chiamo un taxi. Ci metto un po’ a convincere il tassista, non vuole venire in questo quartiere di merda in piena notte. Riesco ad essere persuasiva e scendo in strada ad aspettarlo.
La notte qui non dorme nessuno, occhi indiscreti mi scrutano e sento la paura penetrarmi. Il tragitto fino in ospedale è veloce e silenzioso, il tassista, arrivati davanti al pronto soccorso, mi scarica e fila via.
Nella luce caliginosa delle lampade notturne, le poche persone presenti sembrano spettri d’uomo. L'odore che aleggia mi intasa prepotentemente le narici. Un medico mi viene incontro. È molto alto e magro, ha dita lunghe e nodose e il cranio lucido, così trasparente da lasciar intravedere un reticolo di vene bluastre e capillari rossi.
“La stavamo aspettando, mi segua”.
Continuo a stringere il piccolo Luca ancora addormentato, guardo verso l’uscita, non so cosa fare. Non mi fido ma non ho scelta.
Appoggio con cura mio figlio sul lettino, con la luce fredda dei neon lo osservo bene.
É terrificante, un conato mi sale in gola, riesco a ricacciarlo indietro ma mi rimane in bocca un sapore rancido. Mi vergogno, che razza di madre sono diventata?
“Si accomodi in sala d’attesa che procedo con gli esami” e mi fa cenno di uscire. Un silenzio tombale copre l’intero edificio, niente bip di macchinari, niente voci concitate, nulla, solo tanto freddo, e ombre silenziose che si muovono rasenti i muri.
Seduta su una panca di metallo aspetto, la paura accovacciata sul mio petto come unica compagnia. Il medico esce spingendo la lettiga, senza degnarmi di uno sguardo.
Le mie sinapsi si risvegliano e lo noto.
Nel piegarsi per alzare le sponde del letto, le maniche del camice dell’uomo si sollevano scoprendo un tatuaggio identico al murale.
Inizio a rincorrerlo urlando, ma le mie grida sono inutili, nessuno mi ascolta e intanto il medico continua a camminare veloce, sempre più veloce.
Corro, corro con tutto il fiato, corro anche se i muscoli mi bruciano per lo sforzo e il respiro fatica ad uscire, corro con la sensazione di essere sempre nello stesso punto. Le pareti si restringono, mi graffiano, arranco con fatica, sgomito senza curarmi del dolore.
In fondo al corridoio intravedo una porta diversa dalle altre, scura e scrostata. La raggiungo e cerco di aprirla, batto i pugni forte, fino a quando rivoli di sangue mi scivolano sui polsi.
Istintivamente prendo le chiavi di casa dalla tasca sinistra dei pantaloni e apro.
Sono nel mio appartamento.
Corro nella cameretta dei bambini. Il medico è lì, curvo su di loro, nel buio della stanza i suoi contorni sono indefiniti, linee grigiastre e sfocate che riempiono lo spazio inghiottendolo.
Lo spingo da parte furiosa, il respiro mi rimane in gola, non riesco a farlo uscire. Ora anche Giorgio ha il cranio aperto, mi fissa con gli occhi vuoti e la bocca spalancata.
Luca si avvicina al fratello, gli accarezza la testa deforme e gli sposta delicatamente la pelle. All’interno una massa giallastra ribolle e sembra vivere di vita propria.
“Ci stiamo sviluppando, i tuoi figli sono stati ricettori fantastici”. A parlare è Teresa.
Guardo i miei bambini, cercando di reprimere il disgusto.
Non riesco a respirare.
Vomito.
Soffoco.
“Mamma, mamma!” urla spaventato mio figlio.
Tremo, gli strascichi di quel sogno angosciante sono ancora vividi sul mio corpo sudato.
Guardo Giorgio, corro in camera e guardo Luca. Esamino la loro testa con minuzia.
É stato un incubo, solamente un brutto incubo, mi ripeto.
Nel silenzio della mattina, il suono del campanello mi spaventa.
“Buongiorno Margherita vi ho preparato la colazione stamattina”. Così dicendo la signora Teresa entra con un vassoio in mano.
Mette il tutto sul tavolo, poi si allunga per prendere lo zucchero nel ripiano in alto e l’ampio scollo della vestaglia le scopre una spalla mostrando un tatuaggio.
Sono scossa da violenti tremiti mentre vengo investita da un miasma di carne putrida.
Les jeux sont faits, rien ne va plus. Noir.
Ogni mattina apro la finestra e me lo ritrovo davanti. Il proprietario se n’era guardato bene dal mostrarmelo, stronzo, come se avessi avuto scelta. L’appartamento che mi ha affittato è un cubo con quattro finestre proiettate sul grigio degli edifici vicini. Tutti tranne uno. Sulla facciata di quest’ultimo una mente malata ci ha disegnato un’enorme ferita grondante sangue e materia giallastra.
È lì, come un monito, a ricordarmi che questa è la mia vita.
I miei figli hanno accettato il trasferimento in questo quartiere dimenticato da Dio senza drammi. Sono bravi bambini e per loro avrei voluto il meglio, ma la vita è una roulette, avevo puntato tutto sul rouge ed è uscito il noir.
L’unica nota positiva è Teresa, una vecchia che abita sullo stesso nostro pianerottolo. Si è offerta di badare lei ai miei figli, lo fa per compagnia, non certo per quello che le passo. Faccio la commessa in un centro commerciale e lavoro su tre turni per cui lei è stata una manna dal cielo.
Sono esausta, anche oggi mi è toccato lo straordinario. Mi butto a letto e come sempre mi manca il respiro. Qualcosa permea le pareti della mia camera, sono come spugne, si impregnano e si gonfiano fino a inghiottirmi. È inquietante, ma sono troppo stanca e crollo.
“Mamma, mamma, svegliati!” Apro gli occhi e vedo Giorgio in piedi, rigido e pallido, lo sguardo vitreo e le mani tese verso di me. Cerco di liberarmi dalle coperte e nella foga cado sul pavimento battendo un ginocchio. Allungo le braccia per afferrarlo, ma la sua immagine si dissolve tra le mie dita. Il cuore mi batte furiosamente, riesco a vederlo mentre lotta contro la mia cassa toracica.
Corro verso la stanza dei bambini.
Dormono tranquilli, il sangue nelle vene rallenta, accarezzo al buio la testa del più piccolo e il sangue mi diventa ghiaccio.
Il cranio è completamente aperto, ma non c’è sangue, nessuna ferita.
Ho i sensi obnubilati, devo reagire.
Lo prendo con delicatezza e lo avvolgo in una coperta.
Mi attacco al campanello di Teresa, le dico di dare un’occhiata a Giorgio, non ho tempo per le spiegazioni e chiamo un taxi. Ci metto un po’ a convincere il tassista, non vuole venire in questo quartiere di merda in piena notte. Riesco ad essere persuasiva e scendo in strada ad aspettarlo.
La notte qui non dorme nessuno, occhi indiscreti mi scrutano e sento la paura penetrarmi. Il tragitto fino in ospedale è veloce e silenzioso, il tassista, arrivati davanti al pronto soccorso, mi scarica e fila via.
Nella luce caliginosa delle lampade notturne, le poche persone presenti sembrano spettri d’uomo. L'odore che aleggia mi intasa prepotentemente le narici. Un medico mi viene incontro. È molto alto e magro, ha dita lunghe e nodose e il cranio lucido, così trasparente da lasciar intravedere un reticolo di vene bluastre e capillari rossi.
“La stavamo aspettando, mi segua”.
Continuo a stringere il piccolo Luca ancora addormentato, guardo verso l’uscita, non so cosa fare. Non mi fido ma non ho scelta.
Appoggio con cura mio figlio sul lettino, con la luce fredda dei neon lo osservo bene.
É terrificante, un conato mi sale in gola, riesco a ricacciarlo indietro ma mi rimane in bocca un sapore rancido. Mi vergogno, che razza di madre sono diventata?
“Si accomodi in sala d’attesa che procedo con gli esami” e mi fa cenno di uscire. Un silenzio tombale copre l’intero edificio, niente bip di macchinari, niente voci concitate, nulla, solo tanto freddo, e ombre silenziose che si muovono rasenti i muri.
Seduta su una panca di metallo aspetto, la paura accovacciata sul mio petto come unica compagnia. Il medico esce spingendo la lettiga, senza degnarmi di uno sguardo.
Le mie sinapsi si risvegliano e lo noto.
Nel piegarsi per alzare le sponde del letto, le maniche del camice dell’uomo si sollevano scoprendo un tatuaggio identico al murale.
Inizio a rincorrerlo urlando, ma le mie grida sono inutili, nessuno mi ascolta e intanto il medico continua a camminare veloce, sempre più veloce.
Corro, corro con tutto il fiato, corro anche se i muscoli mi bruciano per lo sforzo e il respiro fatica ad uscire, corro con la sensazione di essere sempre nello stesso punto. Le pareti si restringono, mi graffiano, arranco con fatica, sgomito senza curarmi del dolore.
In fondo al corridoio intravedo una porta diversa dalle altre, scura e scrostata. La raggiungo e cerco di aprirla, batto i pugni forte, fino a quando rivoli di sangue mi scivolano sui polsi.
Istintivamente prendo le chiavi di casa dalla tasca sinistra dei pantaloni e apro.
Sono nel mio appartamento.
Corro nella cameretta dei bambini. Il medico è lì, curvo su di loro, nel buio della stanza i suoi contorni sono indefiniti, linee grigiastre e sfocate che riempiono lo spazio inghiottendolo.
Lo spingo da parte furiosa, il respiro mi rimane in gola, non riesco a farlo uscire. Ora anche Giorgio ha il cranio aperto, mi fissa con gli occhi vuoti e la bocca spalancata.
Luca si avvicina al fratello, gli accarezza la testa deforme e gli sposta delicatamente la pelle. All’interno una massa giallastra ribolle e sembra vivere di vita propria.
“Ci stiamo sviluppando, i tuoi figli sono stati ricettori fantastici”. A parlare è Teresa.
Guardo i miei bambini, cercando di reprimere il disgusto.
Non riesco a respirare.
Vomito.
Soffoco.
“Mamma, mamma!” urla spaventato mio figlio.
Tremo, gli strascichi di quel sogno angosciante sono ancora vividi sul mio corpo sudato.
Guardo Giorgio, corro in camera e guardo Luca. Esamino la loro testa con minuzia.
É stato un incubo, solamente un brutto incubo, mi ripeto.
Nel silenzio della mattina, il suono del campanello mi spaventa.
“Buongiorno Margherita vi ho preparato la colazione stamattina”. Così dicendo la signora Teresa entra con un vassoio in mano.
Mette il tutto sul tavolo, poi si allunga per prendere lo zucchero nel ripiano in alto e l’ampio scollo della vestaglia le scopre una spalla mostrando un tatuaggio.
Sono scossa da violenti tremiti mentre vengo investita da un miasma di carne putrida.
Les jeux sont faits, rien ne va plus. Noir.