Buon giorno a voi.
Raccontino, piano e banale.
Raccontino, piano e banale.
BUON GIORNO A LEI
“Buongiorno signor Berri.”
L'augurio mi prende alla sprovvista. Rispondo automaticamente “Grazie, buongiorno anche a lei.” e mi alzo educatamente il cappello, ma non ho proprio idea di chi sia quella donna.
Proseguo. E’ una bella giornata, cammino volentieri, ma comincio a stancarmi. C'è un divano sul marciapiede vicino al cancello e mi ci siedo grato, ne avevo bisogno. È comodo e mi sistemo per bene, senza stravaccarmi perché siamo per strada e bisogna mantenere un po' di dignità. Mi riposo e intanto penso ai fatti miei.
I cuscini sono screpolati e il bracciolo è tutto graffiato così che il bianco affiora sotto la finta pelle marrone. Certo i gatti adorano farsi le unghie sui divani di pelle, vera o finta che sia. Peccato. Lo dico, mostrando i graffi, a un uomo che è sceso da un camioncino che ha parcheggiato proprio davanti al marciapiede, ma lui non mostra nessun rammarico né interesse e si limita a chiedere se il divano è mio. La cosa e mi dà un po' di fastidio e rispondo alla sua domanda con tono un po' piccato: “Certo che no, ma lei piuttosto cerchi di fare attenzione perché ha parcheggiato in divieto di sosta”.
Scuoto la testa. Il cartello è proprio lì in bella vista, certa gente non bada proprio a quello che fa. Lui mette su una faccia strana, forse si è offeso, ma che mi frega? Cerco di ignorarlo e mi accomodo per bene, ma lui mi dice che devo alzarmi. Che cafone! Il divano non è certo suo, sennò non mi avrebbe chiesto prima se era mio, per cui lo ignoro con calma serafica.
Dal furgone esce un altro, più anziano e intanto dal cancello, anche una signora che ci saluta educatamente. Il villano le domanda se il divano è quello e alla sua risposta affermativa chiede: “Mi devo portar via anche questo bel tipo?”
Mi guardano tutti e io non so cosa fare. La signora mi invita gentilmente ad alzarmi: “Scusi sa, ma sono quelli del comune che vengono a prendere i rifiuti ingombranti. Li ho prenotati, non possiamo farli aspettare, sia gentile, si alzi. Se è proprio stanco venga dentro, c'è una panchina qui in cortile.”
Di fronte alla gentilezza cedo le armi e mi alzo il cappello mentre dico: “Ma certo, signora.” E cerco di alzarmi anch'io, ma le gambe cedono e mi devono un po' aiutare.
Dopo aver sollevato me, i due omacci sollevano il divano con facilità e lo infilano nel furgone, mentre mi guardano e ridacchiano. Io resto lì impalato. In effetti non ricordo dove stavo andando e non riconosco quella strada. La signora mi chiede se ho bisogno di aiuto e io faccio un cenno col capo e con la mano, come a dire: “Ma certo che no” e intanto mi guardo attorno per orientarmi. Lei insiste: “Scusi, ma mi sembra un poco smarrito, non è così?” Io taccio imbarazzato e continuo a guardare in giro cercando un appiglio, qualcosa che riconosco, qualcosa a cui aggrapparmi.
“Non ha uno smart?”
Che diavolo sarà uno 'smart'? Mi par di ricordare che sia una merendina, ma che c'entra? La signora ha forse fame? O pensa che l'abbia io?
“Uno cellulare, un telefono.” Insiste.
Un telefono? Che idea ridicola! Vedo il mio telefono di bakelite, nero e pesante, che assurdità portarlo in giro e poi, senza il filo cosa ci farei.
“Un telefonino, di quelli tascabili.”
Ah, che stupido, certo, mi era sfuggito che oggi i telefoni sono piccoli e stanno in tasca. Sono molto imbarazzato di questa gaffe e mi palpo le tasche, ma non ho nulla con me.
“Mi spiace, l'ho dimenticato.”
“Ma ricorda almeno il numero di casa o di qualcuno?”
“Sì, sì, un attimo.” Mi affiora alla memoria un numero, bello, chiaro e completo e lo pronuncio ad alta voce, con sollievo e un certo orgoglio. Lei tira fuori il suo telefonino e lo digita. Una voce annuncia che quel numero non è più attivo. “
“Forse era il suo numero vecchio. Ricorda quello di sua moglie o di un altro famigliare?”
Mi sforzo, ma non mi affiora nulla. Poi, mentre lei mi chiede l'indirizzo scorgo mia moglie Rosa che si affaccia dall'incrocio poco più indietro e si guarda attorno. Che sollievo!
Mi sbraccio e lei mi fa segno d'avermi visto e viene verso di noi. Guardo la signora gentile: “Tutto a posto, vede?” Cerco di mantenere un tono cortese, ma sostenuto.
Rosa arriva, “Ciao papà.”
Papà?
Mentre saluta e ringrazia la signora gentile, realizzo che quella è mia figlia, Mara. Accidenti faccio sempre confusione, ma lei assomiglia tanto alla mamma ed è così bella com'era lei una volta, prima di invecchiare, già, … prima di morire, ... già, perché è morta ormai da tempo. D'improvviso sento un gran vuoto e mi scende una lacrima.
Mia figlia mi guarda: “Papà, che fai? Piangi? Ti eri così spaventato? Ma dai.”
Annuisco, non riuscirei a spiegarle, adesso. Mi giro e mi avvio.
Lei mi tira per un braccio: “Non di là, da questa parte, papà.”