https://www.differentales.org/t1448-il-gemello-cattivo#16859Fotografando Olympia
– Ok Olympia, per oggi basta così.
Max girò le spalle al set e si diresse con passo nervoso verso gli armadietti per l'attrezzatura fotografica. Riusciva a fatica a nascondere la delusione per la giornata di lavoro persa e anche la ragazza se n'era resa conto.
– Va bene –, rispose, lasciando trasparire lo staccato del suo blando accento slavo, e cominciò a togliersi i gioielli oggetto del servizio. Tutte le foto scattate fino a quel momento non lo soddisfacevano. Erano fredde, prive di anima; oppure troppo empatiche e quindi completamente inadatte per lo scopo a cui dovevano servire. Di certo, in un caso o nell'altro, non sarebbero piaciute affatto all'agenzia che gliele aveva commissionate.
Sistemata l'attrezzatura, si voltò e si trovò Olympia ad appena due passi, già col suo cappottino chiaro indosso e i manici della borsetta nera a piramide stretti fra le mani. Ed ebbe la sensazione di essere precipitato di colpo negli anni Settanta. La ragazza, la testa leggermente piegata di lato, i tratti tesi dai capelli legati in una coda strettissima, lo guardava con i suoi occhi celesti e malinconici, gli stessi che, invano, aveva cercato di defilare dalle inquadrature perché le foto non scivolassero nella tristezza che quello sguardo non poteva fare a meno di comunicare. I primi piani con gli orecchini per esempio: due splendidi gioielli a goccia che si sposavano perfettamente con l'ovale del suo volto. Ma che purtroppo sparivano quasi completamente agli occhi dell'osservatore, inghiottiti nei tratti dolci del viso e nell’azzurro liquido degli occhi. Il risultato era stato nient'altro che una serie di scatti algidi, senza personalità, ben lontani dal suo solito standard.
Gli venne naturale alzare un braccio verso di lei, con l’intenzione di sfiorarle una guancia con le dita: un gesto di semplice tenerezza; un ulteriore tentativo, forse un po’ goffo e scontato, di entrare in confidenza; ma la ragazza fece un mezzo passo indietro e scostò il viso. Poi si girò verso la porta e uscì con un “a domani” appena sussurrato.
Seduta sprecata. Ed erano appena le quattro.
Max si infilò il soprabito e uscì nel freddo del pomeriggio, sperando di schiarirsi le idee e trovare qualcosa che lo aiutasse a uscire da quell’impasse.
Non era mai stato un problema lavorare con modelle professioniste: dici loro qual è il tuo intento e sanno perfettamente quali pose assumere. Non doveva fare altro che cominciare a scattare e tutto andava avanti da sé. Ma Olympia non era una modella, tantomeno professionista, e gli era stata quasi imposta dall’agenzia che gli aveva commissionato il servizio. Memore degli insegnamenti del suo vecchio maestro, aveva cercato di instaurare un rapporto con lei che andasse al di là della semplice relazione lavorativa; di metterla il più possibile a proprio agio con qualche chiacchiera leggera, piccole battute spiritose, e soprattutto mostrandole i lavori che potevano avere una certa attinenza con la situazione. Niente da fare. La ragazza era rimasta chiusa, distante. Non aveva voluto, o potuto, farsi minimamente coinvolgere. Bellissima, ma del tutto inadatta al ruolo, come testimoniavano le centinaia di foto inutili salvate sul computer.
Continuò a camminare, le mani sprofondate nelle tasche del soprabito e la testa bassa, immerso nei pensieri, finché i passi non lo portarono di fronte all’ingresso della libreria dove ormai da anni era cliente fisso. Entrò e cominciò ad aggirarsi fra gli scaffali. Il commesso lo salutò.
– Ehi, Max!
– Ciao Franco...
– Mmm, giornatuccia eh?
– Già. Un lavoro difficile. Sai quando le cose non vogliono saperne di girare per il verso giusto? – rispose continuando a lanciare occhiate a destra e a sinistra. Dopo un breve giro, si stava già dirigendo deluso verso l’uscita, quando vicino alla cassa notò uno scaffale tappezzato di volti e di colori, memoria della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne da poco trascorsa. Distese di scarpe rosse abbandonate su selciati o scalinate, piccole coccarde, mani protese a inutile scudo.
Da una locandina scura, il primissimo piano di una donna con un grosso cerotto sulla bocca sembrava guardarlo fisso, quasi con aria di sfida, ma con gli occhi pieni di un dolore così intenso che pareva irradiarsi in forma fisica. Se, dal lato strettamente professionale, non poteva fare a meno di congratularsi con l’abilità del collega nell’aver realizzato quell’immagine così efficace, era altrettanto evidente che c’era molto più di una semplice somiglianza fra lo sguardo di quella donna e la desolazione viva in fondo agli occhi di Olympia. Si dette cento volte dello stupido. Altro che malinconia o tristezza. Ciò che gli era sembrato solo una specie di nostalgia, doveva invece essere una grande sofferenza. Quelgenere di sofferenza. Poteva esserci un modo per sconfiggerla? O, almeno, per attenuarla?
Gli venne in mente che la ragazza gli era stata presentata come aspirante attrice. Si spostò verso la sezione dei copioni cinematografici e teatrali e infine riuscì a trovare quello che poteva fare al caso suo: un monologo al femminile che era stato rappresentato anche in città proprio in occasione della Giornata internazionale. Ne sfilò due copie dallo scaffale, le pagò e si precipitò fuori con il telefono all’orecchio per chiamare l’agenzia e farsi dare l’indirizzo dell’albergo di Olympia. Dopo non poche difficoltà e obiezioni legate a privacy e assurdi sospetti, l’agente acconsentì a dargli il nome dell’albergo: non era troppo distante e Max scese nella Metro stringendo i due libretti e una nuova, forte consapevolezza. Che divenne certezza leggendo durante il tragitto il bellissimo monologo.
Ne consegnò una copia a una meravigliata Olympia, pregandola di impararne a memoria più che poteva prima di ripresentarsi allo studio, che poi le avrebbe spiegato tutto. E la salutò lì, nella hall, con la netta impressione che già qualcosa le fosse cambiato in fondo agli occhi. Forse era solo meraviglia, o stupore; qualunque cosa fosse, l’importante era che avesse almeno intaccato, stemperato un po’ quel dolore sordo e persistente.
Il giorno dopo Olympia arrivò allo studio ancora più perplessa, ma entusiasta del copione che Max le aveva proposto.
– Io ho letto tutto e imparato a memoria. Ma perché? Qui siamo in studio di fotografia, non teatro.
– No, da questo momento siamo in teatro. E tu sarai sul palcoscenico. Devi disinteressarti delle macchine, degli obiettivi, dei flash. Cambiati, indossa la parure e inizia a recitare. Al resto penso io.
Il monologo pareva fatto apposta per lei. Dopo una partenza leggera, spiritosa, scendeva progressivamente a esplorare le pieghe del dramma fisico e psicologico subìto. Olympia si immerse nel personaggio senza difficoltà. Anche il suo modo di parlare, nella recitazione, aveva perso ogni minimo accenno alla sua madrelingua; parlava sciolta e le parole davano vita a espressioni, atteggiamenti, gesti che valevano più di mille pose di qualunque professionista. Le luci degli spot e i flash degli ombrelli davano corpo all’animo di Olympia che pian piano si svelava attraverso la recitazione e Max, attraverso i suoi obiettivi, non le staccava gli occhi di dosso, attento a non perderne nessuna sfumatura, luminosa o scura che fosse. Non riusciva a togliere il dito dal pulsante di scatto e centinaia di immagini si impilavano nelle schede di memoria.
Quasi due ore dopo, entrambi stremati, si sedettero al tavolo dello studio, già imbandito con un servizio da tè. Una calma silenziosa si era sostituita alla concitazione del loro strano spettacolo e alla fine, nonostante mancasse il rombo di applausi scroscianti, sentivano l’adrenalina che li abbandonava, di colpo, lasciandoli preda di un bisogno di riprender fiato, di una quiete appagata che doveva somigliare molto a quella provata da una vera compagnia teatrale al termine della rappresentazione. Max le sorrise e sporse il braccio verso il suo viso, in una carezza leggera con il dorso delle dita. E questa volta Olympia non si scostò. Gli prese la mano e distese i tratti del volto.
– Grazie, grazie davvero.