Il racconto ha qualcosa di intrigante, l'idea di questi due cannibali che attraversano lo spazio e il tempo, invecchiando lentamente, cibandosi solo quando si sentono deboli, pensando forse più ad arricchirsi che a nutrirsi, godendosi semplicemente un'eternità che non sembra mai essere in discussione, anche nei periodi più difficili come quelli recenti.
La voce narrante è vagamente ipnotica, ha una cadenza lenta, quasi che vivere in eterno faccia percepire lo scorrere del tempo in modo diverso. La trovo molto riuscita, nonostante si ingarbugli un po' con i tempi verbali in certi punti. Certo non tutto quello che dice è immediatamente comprensibile e forse non tutto torna alla fine, ma ha il potere e la capacità di distrarti da certi dettagli, di ammaliarti un po', come spesso riescono a fare le narrazioni in prima persona. Per esempio non capisco la necessità di Tamas di andare in barca. Posso solo pensare gli serva a liberarsi degli avanzi del gulasch. O meglio di ciò che non usa per prepararlo.
Quanto all'uso del termine mandria, fin dal titolo e poi ripetuto con insistenza, non mi sento di giudicare negativamente l'autore. Sicuramente è una scelta, e credo che sia stata una scelta ponderata. Tanti al posto tuo avrebbero puntato su un altro termine o su una maggior varietà di sinonimi, ma di nuovo non credo che si possa più di tanto sindacare con certe scelte, specie quando la narrazione è in prima persona. Per me è quasi un must, nove volte su dieci mi affido alla voce di un personaggio, o al personaggio affido la mia cercando di lavorare sulle variazioni. La scelta delle parole da usare è fondamentale in questo caso. Quando parliamo usiamo solo certe parole. E la scelta può essere in negativo o in positivo. Ci sono parole che nel nostro personale linguaggio assumono un significato particolare, diverso da quello con cui vengono usate dagli altri. Ecco, penso che qui la parola mandria rientri in questo tipo di scelte.
I paletti mi sembrano ben usati e ben dosati. Come horror non spinge sicuramente sull'acceleratore del disgusto, ma in sé l'idea non può appartenere a nessun altro genere, al di là di quanto tu dica apertamente piuttosto che limitarti a suggerire.
La veranda è lì, luogo di osservazione, quasi un'isola immobile in un'eternità che passa lenta e inesorabile.
Un buon racconto, insomma. Da rendere forse un po' più sciolto e spigliato in certi punti, ma sicuramente non passa inosservato. E a me è piaciuto.
La voce narrante è vagamente ipnotica, ha una cadenza lenta, quasi che vivere in eterno faccia percepire lo scorrere del tempo in modo diverso. La trovo molto riuscita, nonostante si ingarbugli un po' con i tempi verbali in certi punti. Certo non tutto quello che dice è immediatamente comprensibile e forse non tutto torna alla fine, ma ha il potere e la capacità di distrarti da certi dettagli, di ammaliarti un po', come spesso riescono a fare le narrazioni in prima persona. Per esempio non capisco la necessità di Tamas di andare in barca. Posso solo pensare gli serva a liberarsi degli avanzi del gulasch. O meglio di ciò che non usa per prepararlo.
Quanto all'uso del termine mandria, fin dal titolo e poi ripetuto con insistenza, non mi sento di giudicare negativamente l'autore. Sicuramente è una scelta, e credo che sia stata una scelta ponderata. Tanti al posto tuo avrebbero puntato su un altro termine o su una maggior varietà di sinonimi, ma di nuovo non credo che si possa più di tanto sindacare con certe scelte, specie quando la narrazione è in prima persona. Per me è quasi un must, nove volte su dieci mi affido alla voce di un personaggio, o al personaggio affido la mia cercando di lavorare sulle variazioni. La scelta delle parole da usare è fondamentale in questo caso. Quando parliamo usiamo solo certe parole. E la scelta può essere in negativo o in positivo. Ci sono parole che nel nostro personale linguaggio assumono un significato particolare, diverso da quello con cui vengono usate dagli altri. Ecco, penso che qui la parola mandria rientri in questo tipo di scelte.
I paletti mi sembrano ben usati e ben dosati. Come horror non spinge sicuramente sull'acceleratore del disgusto, ma in sé l'idea non può appartenere a nessun altro genere, al di là di quanto tu dica apertamente piuttosto che limitarti a suggerire.
La veranda è lì, luogo di osservazione, quasi un'isola immobile in un'eternità che passa lenta e inesorabile.
Un buon racconto, insomma. Da rendere forse un po' più sciolto e spigliato in certi punti, ma sicuramente non passa inosservato. E a me è piaciuto.