Era il primo di aprile ma tutta la vicenda non aveva affatto il sapore di uno scherzo. Non poteva rifarsela con nessuno, visto che si era cacciato da solo in quella situazione. Tutto per colpa della curiosità e del suo spirito un po’ infantile di avventura.
Ora era lì, a Firenze, ad ammirare la tomba monumentale del Granduca Ferdinando I de’Medici alle Cappelle Medicee, nel complesso della Basilica di San Lorenzo. Guardava il sepolcro appoggiato a una parete di marmi policromi in un ambiente saturo di bellezza e di storia che tuttavia non riusciva a distrarlo dai suoi pensieri. Tutto si era svolto in pochi giorni.
Ora era lì, a Firenze, ad ammirare la tomba monumentale del Granduca Ferdinando I de’Medici alle Cappelle Medicee, nel complesso della Basilica di San Lorenzo. Guardava il sepolcro appoggiato a una parete di marmi policromi in un ambiente saturo di bellezza e di storia che tuttavia non riusciva a distrarlo dai suoi pensieri. Tutto si era svolto in pochi giorni.
“Prof. Ernesto Trevisan, accademico dei Concordi”, c’era scritto in una targa lucidissima a fianco del grande portone del palazzo.
Era in leggero anticipo ma suonò ugualmente. Non gli sembrava il caso di far questioni di etichetta. In fondo era lì per fare un favore e non per chiederlo.
Il professore, famoso storico, grande conoscitore del periodo rinascimentale e del XVII secolo era molto noto e influente a Rovigo oltreché, naturalmente, nei consessi accademici.
L’aveva convocato, tramite un comune conoscente, in qualità di matematico ed esperto di informatica per risolvere un delicato “problema tecnico”. Così gli aveva riferito l’amico.
«Desidera?» L’aveva accolto un domestico con atteggiamento brusco e sospettoso, dopo una lunga occhiata dall’alto in basso che aveva la stessa intensità di una risonanza magnetica.
Certamente il suo abbigliamento era stato giudicato troppo casual per una casa frequentata abitualmente da personaggi di un certo rilievo.
«Sono Ridolfi, il professore mi sta aspettando», disse con tono deciso, incurante dell’esito dell’analisi.
«Si accomodi. Aspetti qui in anticamera. Avviso il professore».
La stanza era molto austera. Era di passaggio e senza finestre sull’esterno. Entrando, sulla destra c’era la porta dello studio del professore; di fronte, un’altra porta che conduceva al resto della casa.
Sulla sinistra una scaffalatura in legno antico che ospitava vecchi volumi. Vicino alla libreria una panca, anch’essa di foggia antica con accanto una fratina e una “savonarola”.
La cosa che attirò più di tutto la sua attenzione fu un’antica stampa incorniciata e appesa al muro che rappresentava uno scorcio dell’interno delle Cappelle Medicee a Firenze, come specificava la scritta nella parte inferiore.
«Bella, vero? È molto antica. L’ho ritrovata fra le vecchie cose di mio padre. Piacere, sono il prof. Trevisan. Lei è il dottor Achille…»
«No, Achillu, professore. Achillu Ridolfi»
«Achillu? Molto strano. Mai sentito prima», disse, accennando un sorriso.
Era uno dei due crucci della sua vita. Per un errore dell’ufficiale di anagrafe era stato registrato come Achillu e questo lo aveva costretto sempre a correggere, puntualizzare, precisare.
Il secondo problema era la calvizie che era entrata in rotta di collisione con la sua più grande passione: l’ordine e l’affascinante perfezione della matematica applicata. Non aveva retto allo spettacolo desolante di quei tre peli rimasti, sparsi alla rinfusa e aveva preferito rasarsi a zero, ristabilendo così ordine ove prima regnava il caos.
«Il problema è questo! - il prof. Trevisan aveva sotto braccio un portatile e glielo porse – si è bloccato e non riesco più a farlo ripartire. Non vorrei aver perso tutto. Avevo dei files molto importanti e mi hanno detto che lei è un vero esperto in materia».
«Faccia vedere. Vediamo quel che si può fare».
«Si accomodi pure qui e faccia tutto il possibile. Io torno nel mio studio. Se ha bisogno di me non esiti a bussare».
Achillu si mise all’opera e riuscì rapidamente a individuare il problema. Era un virus subdolo ma che non aveva ancora fatto gravi danni. Inserì un dischetto che si era portato appresso e avviò un programma di pulizia e, mentre il pc procedeva in automatico, si guardò attorno, affascinato dall’odore che emanavano quei volumi. I libri erano vecchi e più recenti; alcuni sembravano molto antichi ma da una scorsa veloce tutti avevano in comune la trattazione di tematiche storiche e artistiche che spaziavano dal 1300 al 1600.
Uno, in particolare, attrasse la sua attenzione: era l’unico che sporgeva da una fila di volumi perfettamente allineati, come se fosse stato consultato recentemente e mal riposto.
Lo estrasse e ne lesse il titolo: “Miti e leggende della Toscana dei Medici”. Era stato scritto una decina di anni prima, nel 2012, da un certo Niccolò Buondelmonti, completamente sconosciuto su internet, come Achillu ebbe modo di verificare dallo smartphone. Un segnalibro indicava una pagina, circa a metà del volume. L’aprì e lesse velocemente.
Raccontava di un fatto interessante e misterioso, avvenuto nel 1587: la morte del Granduca Francesco I de’Medici e della consorte Bianca Cappello. Gli esperti di quel periodo storico si erano accapigliati per molti anni sulle cause della morte di due coniugi.
Dalle analisi effettuate sui presunti resti della coppia era emersa la presenza di tracce di arsenico, cosa che avvalorava la tesi dell’avvelenamento. L’indiziato principale non poteva che essere Ferdinando, il fratello di Francesco che poi ne aveva assunto il titolo e le funzioni. Il tutto sarebbe accaduto durante una cena avvenuta l’8 ottobre 1587 presso la villa di Poggio a Caiano. Da quella cena erano iniziati i sintomi che, dopo pochi giorni, avrebbero portato alla morte dei due sposi.
Altri invece sostenevano che la morte era stata causata da malaria. In effetti, analisi successive, più approfondite, svolte con mezzi più moderni, avevano accertato nei resti tracce che dimostravano la presenza di proteine dell’agente della malaria perniciosa.
L’autore del libro scriveva così: “La presenza di arsenico poteva essere dovuta al fatto che i resti organici da sottoporre ad autopsia venivano trattati con arsenico per favorirne la conservazione. Il prof. Ernesto Trevisan, grande storico del periodo, non è di questo avviso e sostiene strenuamente l’ipotesi dell’avvelenamento. La ricerca delle prove di questa sua tesi è diventata per lui una vera ossessione e ha più volte dichiarato, di fronte a colleghi che lo schernivano, che riuscirà presto a raccogliere prove concrete della sua teoria”.
Era in leggero anticipo ma suonò ugualmente. Non gli sembrava il caso di far questioni di etichetta. In fondo era lì per fare un favore e non per chiederlo.
Il professore, famoso storico, grande conoscitore del periodo rinascimentale e del XVII secolo era molto noto e influente a Rovigo oltreché, naturalmente, nei consessi accademici.
L’aveva convocato, tramite un comune conoscente, in qualità di matematico ed esperto di informatica per risolvere un delicato “problema tecnico”. Così gli aveva riferito l’amico.
«Desidera?» L’aveva accolto un domestico con atteggiamento brusco e sospettoso, dopo una lunga occhiata dall’alto in basso che aveva la stessa intensità di una risonanza magnetica.
Certamente il suo abbigliamento era stato giudicato troppo casual per una casa frequentata abitualmente da personaggi di un certo rilievo.
«Sono Ridolfi, il professore mi sta aspettando», disse con tono deciso, incurante dell’esito dell’analisi.
«Si accomodi. Aspetti qui in anticamera. Avviso il professore».
La stanza era molto austera. Era di passaggio e senza finestre sull’esterno. Entrando, sulla destra c’era la porta dello studio del professore; di fronte, un’altra porta che conduceva al resto della casa.
Sulla sinistra una scaffalatura in legno antico che ospitava vecchi volumi. Vicino alla libreria una panca, anch’essa di foggia antica con accanto una fratina e una “savonarola”.
La cosa che attirò più di tutto la sua attenzione fu un’antica stampa incorniciata e appesa al muro che rappresentava uno scorcio dell’interno delle Cappelle Medicee a Firenze, come specificava la scritta nella parte inferiore.
«Bella, vero? È molto antica. L’ho ritrovata fra le vecchie cose di mio padre. Piacere, sono il prof. Trevisan. Lei è il dottor Achille…»
«No, Achillu, professore. Achillu Ridolfi»
«Achillu? Molto strano. Mai sentito prima», disse, accennando un sorriso.
Era uno dei due crucci della sua vita. Per un errore dell’ufficiale di anagrafe era stato registrato come Achillu e questo lo aveva costretto sempre a correggere, puntualizzare, precisare.
Il secondo problema era la calvizie che era entrata in rotta di collisione con la sua più grande passione: l’ordine e l’affascinante perfezione della matematica applicata. Non aveva retto allo spettacolo desolante di quei tre peli rimasti, sparsi alla rinfusa e aveva preferito rasarsi a zero, ristabilendo così ordine ove prima regnava il caos.
«Il problema è questo! - il prof. Trevisan aveva sotto braccio un portatile e glielo porse – si è bloccato e non riesco più a farlo ripartire. Non vorrei aver perso tutto. Avevo dei files molto importanti e mi hanno detto che lei è un vero esperto in materia».
«Faccia vedere. Vediamo quel che si può fare».
«Si accomodi pure qui e faccia tutto il possibile. Io torno nel mio studio. Se ha bisogno di me non esiti a bussare».
Achillu si mise all’opera e riuscì rapidamente a individuare il problema. Era un virus subdolo ma che non aveva ancora fatto gravi danni. Inserì un dischetto che si era portato appresso e avviò un programma di pulizia e, mentre il pc procedeva in automatico, si guardò attorno, affascinato dall’odore che emanavano quei volumi. I libri erano vecchi e più recenti; alcuni sembravano molto antichi ma da una scorsa veloce tutti avevano in comune la trattazione di tematiche storiche e artistiche che spaziavano dal 1300 al 1600.
Uno, in particolare, attrasse la sua attenzione: era l’unico che sporgeva da una fila di volumi perfettamente allineati, come se fosse stato consultato recentemente e mal riposto.
Lo estrasse e ne lesse il titolo: “Miti e leggende della Toscana dei Medici”. Era stato scritto una decina di anni prima, nel 2012, da un certo Niccolò Buondelmonti, completamente sconosciuto su internet, come Achillu ebbe modo di verificare dallo smartphone. Un segnalibro indicava una pagina, circa a metà del volume. L’aprì e lesse velocemente.
Raccontava di un fatto interessante e misterioso, avvenuto nel 1587: la morte del Granduca Francesco I de’Medici e della consorte Bianca Cappello. Gli esperti di quel periodo storico si erano accapigliati per molti anni sulle cause della morte di due coniugi.
Dalle analisi effettuate sui presunti resti della coppia era emersa la presenza di tracce di arsenico, cosa che avvalorava la tesi dell’avvelenamento. L’indiziato principale non poteva che essere Ferdinando, il fratello di Francesco che poi ne aveva assunto il titolo e le funzioni. Il tutto sarebbe accaduto durante una cena avvenuta l’8 ottobre 1587 presso la villa di Poggio a Caiano. Da quella cena erano iniziati i sintomi che, dopo pochi giorni, avrebbero portato alla morte dei due sposi.
Altri invece sostenevano che la morte era stata causata da malaria. In effetti, analisi successive, più approfondite, svolte con mezzi più moderni, avevano accertato nei resti tracce che dimostravano la presenza di proteine dell’agente della malaria perniciosa.
L’autore del libro scriveva così: “La presenza di arsenico poteva essere dovuta al fatto che i resti organici da sottoporre ad autopsia venivano trattati con arsenico per favorirne la conservazione. Il prof. Ernesto Trevisan, grande storico del periodo, non è di questo avviso e sostiene strenuamente l’ipotesi dell’avvelenamento. La ricerca delle prove di questa sua tesi è diventata per lui una vera ossessione e ha più volte dichiarato, di fronte a colleghi che lo schernivano, che riuscirà presto a raccogliere prove concrete della sua teoria”.
Rimise a posto il volume, lasciandolo un po’ sporgente, come l’aveva trovato.
Riavviò il pc scegliendo un’opzione di ripartenza al momento del blocco e lo schermo si riaprì su una pagina di Gmail. La casella era: trevisan1587@gmail.com e aveva nella cartella di posta in arrivo una risposta a una mail che era stata indirizzata dal professore a un certo Giorgio Archilei. La mail originaria era piuttosto misteriosa: “Le ricordo l’appuntamento per il prossimo centocinquantatremilanovecentoquarantaquattresimo giorno, all’obelisco, nel luogo dell’evento, alle ore 15.00, con l’occorrente. Si prega dare conferma”.
Il messaggio di risposta era altrettanto misterioso: “Confermo la presenza con il necessario, ma il quanto dovrà essere ridiscusso”.
Un’altra mail era una risposta piccata a un certo prof. Aldobrandini che invitava con tono derisorio il prof. Trevisan ad abbandonare le sue strampalate teorie.
Stava per scorrere più in basso per leggere i messaggi precedenti, quando una mano sembrò quasi avventarsi sul mouse cliccando rapidamente sulla X in alto.
«Perché non mi ha avvisato di aver concluso il suo lavoro?» Il tono era indispettito e minaccioso.
«Mi scusi, professore, ho appena riacceso il computer…»
Trevisan notò il libro sporgente dalla libreria e con un gesto nervoso lo riallineò agli altri. «Va bene, grazie. Può andare».
Achillu non se lo fece ripetere. Salutò cortesemente e se ne andò. Riassaporò con sollievo l’aria primaverile di Rovigo, lasciandosi alle spalle l’odore di stantìo di quell’anticamera e soprattutto l’atmosfera di ostilità che aveva percepito. Raggiunse in fretta l’auto parcheggiata poco lontano e si diresse verso Costa, quando il sole era ormai vicino al tramonto.
Tutti quei segnali avevano scatenato la sua immaginazione e più che altro era indispettito. Gli accadeva tutte le volte che i conti non tornavano. E qui c’erano molte cose che non tornavano: quella strana mail con l’ordinale del numero 153944, l’obelisco, l’atteggiamento ostile del professore e la richiesta di portare l’occorrente. Cos’era l’occorrente? E perché la risposta dell’Archilei che faceva supporre una trattativa in corso?
Fece appena in tempo a vedere dallo specchietto una grossa auto che lo seguiva. A un tratto l’auto accelerò come per sorpassare e, quando si affiancò, il conducente dette un colpo di sterzo costringendo Achillu a uscire di strada frenando energicamente. L’auto si fermò sul ciglio, a pochi metri da una scarpata molto ripida che finiva in un canale. Achillu ebbe la netta sensazione che alla guida dell’auto, che nel frattempo si era dileguata, ci fosse il domestico del professore.
Riavviò il pc scegliendo un’opzione di ripartenza al momento del blocco e lo schermo si riaprì su una pagina di Gmail. La casella era: trevisan1587@gmail.com e aveva nella cartella di posta in arrivo una risposta a una mail che era stata indirizzata dal professore a un certo Giorgio Archilei. La mail originaria era piuttosto misteriosa: “Le ricordo l’appuntamento per il prossimo centocinquantatremilanovecentoquarantaquattresimo giorno, all’obelisco, nel luogo dell’evento, alle ore 15.00, con l’occorrente. Si prega dare conferma”.
Il messaggio di risposta era altrettanto misterioso: “Confermo la presenza con il necessario, ma il quanto dovrà essere ridiscusso”.
Un’altra mail era una risposta piccata a un certo prof. Aldobrandini che invitava con tono derisorio il prof. Trevisan ad abbandonare le sue strampalate teorie.
Stava per scorrere più in basso per leggere i messaggi precedenti, quando una mano sembrò quasi avventarsi sul mouse cliccando rapidamente sulla X in alto.
«Perché non mi ha avvisato di aver concluso il suo lavoro?» Il tono era indispettito e minaccioso.
«Mi scusi, professore, ho appena riacceso il computer…»
Trevisan notò il libro sporgente dalla libreria e con un gesto nervoso lo riallineò agli altri. «Va bene, grazie. Può andare».
Achillu non se lo fece ripetere. Salutò cortesemente e se ne andò. Riassaporò con sollievo l’aria primaverile di Rovigo, lasciandosi alle spalle l’odore di stantìo di quell’anticamera e soprattutto l’atmosfera di ostilità che aveva percepito. Raggiunse in fretta l’auto parcheggiata poco lontano e si diresse verso Costa, quando il sole era ormai vicino al tramonto.
Tutti quei segnali avevano scatenato la sua immaginazione e più che altro era indispettito. Gli accadeva tutte le volte che i conti non tornavano. E qui c’erano molte cose che non tornavano: quella strana mail con l’ordinale del numero 153944, l’obelisco, l’atteggiamento ostile del professore e la richiesta di portare l’occorrente. Cos’era l’occorrente? E perché la risposta dell’Archilei che faceva supporre una trattativa in corso?
Fece appena in tempo a vedere dallo specchietto una grossa auto che lo seguiva. A un tratto l’auto accelerò come per sorpassare e, quando si affiancò, il conducente dette un colpo di sterzo costringendo Achillu a uscire di strada frenando energicamente. L’auto si fermò sul ciglio, a pochi metri da una scarpata molto ripida che finiva in un canale. Achillu ebbe la netta sensazione che alla guida dell’auto, che nel frattempo si era dileguata, ci fosse il domestico del professore.
Al rientro a casa, aspettò che moglie e figlie si coricassero e poi si mise al pc. Non aveva fatto cenno dell’accaduto, non voleva che si preoccupassero, ma era chiaro che il professore avesse un segreto da nascondere, così importante da spingerlo a tentare, se non un omicidio, almeno un gesto intimidatorio.
La cosa più razionale sarebbe stata quella di presentare una denuncia per l’accaduto. Forse l’avrebbe fatto, ma la priorità era ora capire, far quadrare i conti.
Ripercorse le parole di quella mail che gli erano rimaste stampate nella mente. Il numero 153944 gli martellava nella testa. C’era un’indicazione temporale, era evidente.
Cercò di calmarsi dopo la paura che aveva provato e cominciò a ragionare a mente fredda.
“Dunque, oggi è il 28 di marzo del 2022 e la mail datata 25 marzo fa riferimento a un appuntamento che si svolgerà a breve. Per approssimazione proviamo a tornare indietro da oggi con l’aiuto del contagiorni on line di 153944 giorni… ecco… mi viene fuori il 2 ottobre del 1600! Ma che cazzo c’entra il 1600? Cosa può essere successo attorno al mese di ottobre di quell’anno?”
Un altro elemento di confusione era l’obelisco. Pensò subito all’Egitto, ma l’idea non lo portò da nessuna parte.
Achillu cercò, senza troppa convinzione, su Wikipedia e vide che nell’ottobre del 1600 erano tre i fatti segnalati:
il 5 ottobre: le nozze per procura di Enrico IV di Francia con Maria de’ Medici nel Duomo di Firenze;
il 6 ottobre: la rappresentazione di “Euridice”, la prima opera lirica nella storia della musica, a Palazzo Pitti… “di nuovo Firenze”;
l’8 ottobre viene promulgata la prima Costituzione scritta della Repubblica di San Marino.
“Capirai… sai che notiziona!”
Cercò di rimettere insieme i pezzi ma non riuscì a dare un senso logico a tutti gli elementi e questo lo fece andare in bestia. Rimpianse ancora una volta la chioma di un tempo quando nel riflettere si attorcigliava attorno all’indice un ciuffo di capelli, che portava sempre piuttosto lunghi e questo lo aiutava molto nella concentrazione.
I momenti successivi furono concitati. Cercò di leggere tutto quello che c’era a disposizione sui primi due eventi indicati, ma fu il secondo che gli fece scoprire qualcosa di folgorante e inaspettato.
Lesse che quella prima opera lirica fu rappresentata il 6 ottobre 1600 al Teatro Mediceo in Palazzo Pitti, alla corte del Granduca Ferdinando I de’Medici, proprio in onore di Enrico IV di Francia e Maria de’Medici sposati il giorno precedente, sempre a Firenze. La cosa più sorprendente fu quando Achillu lesse i nomi degli interpreti di quella serata. Fra questi c’era una certa Vittoria Archilei, soprano, nel ruolo principale di Euridice. Lo stesso cognome del destinatario della mail di Trevisan! Allora il giorno dell’appuntamento non poteva che essere il primo di aprile, proprio fra quattro giorni e il luogo, palazzo Pitti a Firenze.
Il resto della notte lo passò per decidere sul da farsi. La parte razionale gli suggeriva di denunciare l’atto intimidatorio subìto, ma la curiosità e lo spirito d’avventura lo spingevano verso una scelta diversa, non priva di pericoli. All’alba prese la decisione.
La cosa più razionale sarebbe stata quella di presentare una denuncia per l’accaduto. Forse l’avrebbe fatto, ma la priorità era ora capire, far quadrare i conti.
Ripercorse le parole di quella mail che gli erano rimaste stampate nella mente. Il numero 153944 gli martellava nella testa. C’era un’indicazione temporale, era evidente.
Cercò di calmarsi dopo la paura che aveva provato e cominciò a ragionare a mente fredda.
“Dunque, oggi è il 28 di marzo del 2022 e la mail datata 25 marzo fa riferimento a un appuntamento che si svolgerà a breve. Per approssimazione proviamo a tornare indietro da oggi con l’aiuto del contagiorni on line di 153944 giorni… ecco… mi viene fuori il 2 ottobre del 1600! Ma che cazzo c’entra il 1600? Cosa può essere successo attorno al mese di ottobre di quell’anno?”
Un altro elemento di confusione era l’obelisco. Pensò subito all’Egitto, ma l’idea non lo portò da nessuna parte.
Achillu cercò, senza troppa convinzione, su Wikipedia e vide che nell’ottobre del 1600 erano tre i fatti segnalati:
il 5 ottobre: le nozze per procura di Enrico IV di Francia con Maria de’ Medici nel Duomo di Firenze;
il 6 ottobre: la rappresentazione di “Euridice”, la prima opera lirica nella storia della musica, a Palazzo Pitti… “di nuovo Firenze”;
l’8 ottobre viene promulgata la prima Costituzione scritta della Repubblica di San Marino.
“Capirai… sai che notiziona!”
Cercò di rimettere insieme i pezzi ma non riuscì a dare un senso logico a tutti gli elementi e questo lo fece andare in bestia. Rimpianse ancora una volta la chioma di un tempo quando nel riflettere si attorcigliava attorno all’indice un ciuffo di capelli, che portava sempre piuttosto lunghi e questo lo aiutava molto nella concentrazione.
I momenti successivi furono concitati. Cercò di leggere tutto quello che c’era a disposizione sui primi due eventi indicati, ma fu il secondo che gli fece scoprire qualcosa di folgorante e inaspettato.
Lesse che quella prima opera lirica fu rappresentata il 6 ottobre 1600 al Teatro Mediceo in Palazzo Pitti, alla corte del Granduca Ferdinando I de’Medici, proprio in onore di Enrico IV di Francia e Maria de’Medici sposati il giorno precedente, sempre a Firenze. La cosa più sorprendente fu quando Achillu lesse i nomi degli interpreti di quella serata. Fra questi c’era una certa Vittoria Archilei, soprano, nel ruolo principale di Euridice. Lo stesso cognome del destinatario della mail di Trevisan! Allora il giorno dell’appuntamento non poteva che essere il primo di aprile, proprio fra quattro giorni e il luogo, palazzo Pitti a Firenze.
Il resto della notte lo passò per decidere sul da farsi. La parte razionale gli suggeriva di denunciare l’atto intimidatorio subìto, ma la curiosità e lo spirito d’avventura lo spingevano verso una scelta diversa, non priva di pericoli. All’alba prese la decisione.
Giovedì mattina, 31 marzo era già in viaggio per Firenze. La scusa in casa fu quella di una non meglio definita conferenza sulla transizione digitale. In realtà, appena arrivato, si precipitò all’Archivio di Stato. Le ricerche lo impegnarono per l’intera giornata.
Cercò tutto quello che era possibile trovare all’inizio del ‘600 che riguardasse in qualche modo il Granduca Ferdinando e la rappresentazione dell’opera a Palazzo Pitti.
Illuminante fu il ritrovamento, quasi casuale, di alcune pagine scritte da Lorenzo Usimbardi, segretario del Granduca, nelle quali aveva annotato, come se fossero appunti presi al volo, che Ferdinando, soddisfatto dello spettacolo, aveva consegnato in dono alla cantante Vittoria Archilei un suo preziosissimo anello con un grosso rubino.
La Archilei, come aveva potuto verificare nelle sue ricerche casalinghe, aveva preso il cognome del marito Antonio Archilei e questo spiegava in qualche modo il fatto, comunque casuale, che nel corso dei secoli il cognome, grazie a discendenze maschili, si fosse conservato nel tempo, fino ad arrivare a quel Giorgio Archilei.
Usimbardi aveva anche accompagnato gli appunti con un disegno dell’anello del Granduca che mostrava una strana cerniera al di sotto della pietra principale e una scritta in basso, di pugno dello stesso segretario: “anulus incaute donatus”. Perché “incaute”?
Cercò tutto quello che era possibile trovare all’inizio del ‘600 che riguardasse in qualche modo il Granduca Ferdinando e la rappresentazione dell’opera a Palazzo Pitti.
Illuminante fu il ritrovamento, quasi casuale, di alcune pagine scritte da Lorenzo Usimbardi, segretario del Granduca, nelle quali aveva annotato, come se fossero appunti presi al volo, che Ferdinando, soddisfatto dello spettacolo, aveva consegnato in dono alla cantante Vittoria Archilei un suo preziosissimo anello con un grosso rubino.
La Archilei, come aveva potuto verificare nelle sue ricerche casalinghe, aveva preso il cognome del marito Antonio Archilei e questo spiegava in qualche modo il fatto, comunque casuale, che nel corso dei secoli il cognome, grazie a discendenze maschili, si fosse conservato nel tempo, fino ad arrivare a quel Giorgio Archilei.
Usimbardi aveva anche accompagnato gli appunti con un disegno dell’anello del Granduca che mostrava una strana cerniera al di sotto della pietra principale e una scritta in basso, di pugno dello stesso segretario: “anulus incaute donatus”. Perché “incaute”?
Era passato mezzogiorno. Achillu decise che era il momento di lasciare quella meraviglia delle Cappelle per raggiungere per tempo Palazzo Pitti. Lì ci sarebbe stato, dopo poco, un incontro a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
Salì la rampa che conduceva al Giardino di Boboli sotto una fitta pioggerella e, appena entrato, un altro tassello della storia prese il giusto posto. Non ricordava che nel bel mezzo dell’anfiteatro ci fosse proprio un obelisco egizio! Era dunque quello il luogo esatto dell’appuntamento.
Sedette in attesa su uno scalino della gradinata dell’anfiteatro. Non temeva di essere riconosciuto dal professore. Era stato previdente ed era passato da “Filistrucchi”, un noto laboratorio di trucchi teatrali e aveva noleggiato dei baffi finti e soprattutto una parrucca castana che gli dava un certo senso di appagamento. Nessuno lo avrebbe riconosciuto.
Poco dopo vide sopraggiungere il prof. Trevisan che si guardava attorno con atteggiamento sospettoso e a una decina di metri dietro a lui quel simpaticone del domestico. I due presero posto a loro volta sui gradini sempre a una certa distanza tra loro.
Dopo qualche minuto apparve un uomo piuttosto anziano, vestito con una certa eleganza, che portava un sacchetto di carta, del tipo di quelli usati nelle librerie. Il professore si alzò in piedi e fece un cenno. Archilei salì tre scalini e sedette accanto a Trevisan. I due cominciarono a parlottare a bassa voce, poi Archilei estrasse dal sacchetto un cofanetto di piccole dimensioni e lo aprì mostrandolo al professore. Poi lo richiuse e da quel momento il dialogo si fece più concitato. Achillu tese l’orecchio mentre fingeva di leggere una guida di Firenze ma colse soltanto qualche parola. Capì che Archilei pretendeva una cifra doppia di quella pattuita e il professore sembrava alterato.
Da quel momento in poi accadde l’imprevedibile. Il domestico si avvicinò ai due e con mossa fulminea strappò dalla mano di Archilei il cofanetto e si mise a correre lungo la gradinata sottostante a quella su cui sedeva Achillu, con l’intenzione di raggiungere l’uscita.
Se il fatto di per sé fu imprevedibile lo fu altrettanto la reazione di Achillu che istintivamente portò in avanti il piede destro proprio mentre l’uomo passava di corsa davanti a lui. La caduta fu rovinosa e si fermò solo alle fine della gradinata. Più che il volo del domestico Achillu aveva seguito con interesse quello del cofanetto, finito lontano dall’uomo che rantolava a terra, impossibilitato a riprendere la posizione eretta.
Achillu si alzò di scatto, scese i gradini, raccolse l’oggetto e si avviò correndo verso l’uscita, incurante delle urla che si alzarono alle sue spalle. La corsa rallentò solo al Ponte Vecchio dove il brulicare dei turisti gli consentì una buona copertura.
Salì la rampa che conduceva al Giardino di Boboli sotto una fitta pioggerella e, appena entrato, un altro tassello della storia prese il giusto posto. Non ricordava che nel bel mezzo dell’anfiteatro ci fosse proprio un obelisco egizio! Era dunque quello il luogo esatto dell’appuntamento.
Sedette in attesa su uno scalino della gradinata dell’anfiteatro. Non temeva di essere riconosciuto dal professore. Era stato previdente ed era passato da “Filistrucchi”, un noto laboratorio di trucchi teatrali e aveva noleggiato dei baffi finti e soprattutto una parrucca castana che gli dava un certo senso di appagamento. Nessuno lo avrebbe riconosciuto.
Poco dopo vide sopraggiungere il prof. Trevisan che si guardava attorno con atteggiamento sospettoso e a una decina di metri dietro a lui quel simpaticone del domestico. I due presero posto a loro volta sui gradini sempre a una certa distanza tra loro.
Dopo qualche minuto apparve un uomo piuttosto anziano, vestito con una certa eleganza, che portava un sacchetto di carta, del tipo di quelli usati nelle librerie. Il professore si alzò in piedi e fece un cenno. Archilei salì tre scalini e sedette accanto a Trevisan. I due cominciarono a parlottare a bassa voce, poi Archilei estrasse dal sacchetto un cofanetto di piccole dimensioni e lo aprì mostrandolo al professore. Poi lo richiuse e da quel momento il dialogo si fece più concitato. Achillu tese l’orecchio mentre fingeva di leggere una guida di Firenze ma colse soltanto qualche parola. Capì che Archilei pretendeva una cifra doppia di quella pattuita e il professore sembrava alterato.
Da quel momento in poi accadde l’imprevedibile. Il domestico si avvicinò ai due e con mossa fulminea strappò dalla mano di Archilei il cofanetto e si mise a correre lungo la gradinata sottostante a quella su cui sedeva Achillu, con l’intenzione di raggiungere l’uscita.
Se il fatto di per sé fu imprevedibile lo fu altrettanto la reazione di Achillu che istintivamente portò in avanti il piede destro proprio mentre l’uomo passava di corsa davanti a lui. La caduta fu rovinosa e si fermò solo alle fine della gradinata. Più che il volo del domestico Achillu aveva seguito con interesse quello del cofanetto, finito lontano dall’uomo che rantolava a terra, impossibilitato a riprendere la posizione eretta.
Achillu si alzò di scatto, scese i gradini, raccolse l’oggetto e si avviò correndo verso l’uscita, incurante delle urla che si alzarono alle sue spalle. La corsa rallentò solo al Ponte Vecchio dove il brulicare dei turisti gli consentì una buona copertura.
Nel viaggio di ritorno verso casa Achillu ripensò al significato di quell’anello. Il professore ossessionato dalla dimostrazione delle sue teorie aveva sperato che all’interno dell’anello che era del tipo usato all’epoca per contenere veleni, ci fossero ancora tracce di quell’arsenico che secondo lui aveva causato la morte del fratello di Ferdinando e della consorte. Questo dava un senso anche a quella frase del segretario a proposito del dono incauto. Forse il professore non avrebbe mai pagato i soldi richiesti per averlo, ma l’avrebbe ottenuto a qualunque costo.
«Ciao, Achi. Bambine, è tornato papà! Cosa mi hai portato da Firenze?»
«Questo! Ti piace?»
«Ma… cos’è? Sei matto?»
«Un po’. Tieni, è tutto tuo… fino a domani mattina. Poi dovrò portarlo al comando dei Carabinieri. Devo raccontare loro un po’ di cose».
«Questo! Ti piace?»
«Ma… cos’è? Sei matto?»
«Un po’. Tieni, è tutto tuo… fino a domani mattina. Poi dovrò portarlo al comando dei Carabinieri. Devo raccontare loro un po’ di cose».
La cosa buffa di tutta la storia emerse pochi giorni dopo. Il famoso anello di Ferdinando non era che una pessima copia dell’originale, il quale era finito da tempo, forse da secoli, in mani ignote per l’avidità di qualche discendente della Archilei. Achillu aveva raccontato tutto, compreso l’episodio dell’auto, ma aveva qualche mese per decidere se sporgere o no regolare denuncia nei confronti di Trevisan. Ci avrebbe pensato su, visto che la delusione dell’anello era già una condanna per il professore e il domestico aveva riportato dalla caduta gravi traumi un po’ lunghi a guarire.
A distanza di un paio di settimane Achillu ebbe modo di fare un bilancio di quella strana avventura fatta anche di momenti esaltanti che gli avevano consentito di scoprire lati sconosciuti del proprio carattere e poi… come dimenticare l’ineffabile sensazione di quella folta chioma castana che controvoglia aveva dovuto riconsegnare?
A distanza di un paio di settimane Achillu ebbe modo di fare un bilancio di quella strana avventura fatta anche di momenti esaltanti che gli avevano consentito di scoprire lati sconosciuti del proprio carattere e poi… come dimenticare l’ineffabile sensazione di quella folta chioma castana che controvoglia aveva dovuto riconsegnare?