Il bambino si era addormentato con la testa appoggiata sulle sue gambe. Stringeva al petto un orsacchiotto turchese, uno degli ultimi regali che gli avevano fatto lui e Alina. Lo guardò con un misto di sgomento e tenerezza e sentì scricchiolare qualcosa al centro del petto.
Si sentiva fragile, vulnerabile, e suo figlio non faceva che amplificare lo smarrimento che provava.
Represse un lamento: il piccolo era avvinghiato a quel peluche come un naufrago alla zattera, ultimo appiglio fisico e mentale per non affondare.
Lui invece era già colato a picco.
Si alzò dal divano con cautela, per non svegliarlo, poi stese una coperta sul corpicino per non fargli prendere freddo.
«Ha solo cinque anni e la vita per lui è già in salita» disse Verena, asciugandosi una lacrima gravida di rabbia.
Sarunas guardò la cognata con occhi vuoti e spenti e si diresse verso il mobile grande. Spalancò le ante della vetrinetta e prese una bottiglia di brandy piena per tre quarti. Mostrò il liquore a Verena e al suo assenso prese anche due snifter e li riempì per metà.
Assaporò il primo sorso, poi lo sguardo raggiunse il ritratto della moglie che occupava la porzione di parete sopra il televisore. Nella foto Alina aveva circa vent’anni. Cazzo, com’era bella! In quel periodo faceva la modella e si erano appena conosciuti. Era bellissima e lo era stata fino all’ultimo, prima che la leucemia gliela portasse via. Quel pensiero lo fece vacillare, nel corpo e nella mente. Bevve ancora e svuotò il bicchiere tutto d’un fiato. Nonostante la scia infuocata che scendeva giù nello stomaco avvertì un gran gelo. Gli occhi gli bruciavano come non mai, se li sentiva stanchi. Pesanti. Una miriade di ombre nere gli vorticavano attorno.
«Ho deciso, torno ad arbitrare» disse versandosi altre due dita di liquore.
«Ho bisogno di fare qualcosa, di tenermi occupato, altrimenti finisce che mi sparo un colpo in testa.»
Verena annuì. «Hai chiamato la Federazione?»
«Sì, ho già dato la disponibilità per questo fine settimana. Puoi occuparti tu di Nikas?»
«Certo. Non preoccuparti.»
Sarunas la ringraziò, facendo oscillare il liquido nel calice.
Avvicinò il bicchiere alla bocca, poi si fermò.
«Sarà meglio portarlo a letto finché sono ancora in grado» disse avvicinandosi a Nikas. Gli diede un bacio sulla testolina ricolma di riccioli biondi, poi lo prese in braccio e abbandonò il salotto.
La sera prima della partita non riuscì a chiudere occhio. Le gambe continuavano a litigare con le coperte, il cervello che provava a immaginare il rientro sul parquet. Sarebbe riuscito a tenere testa ai giocatori? Si sarebbero dimostrati comprensivi con lui? E i due allenatori? E gli spettatori sugli spalti della Siauliu Arena?
Si alzò verso le 2.00, sfiancato dall’angoscia, con tanti dubbi e nessuna certezza. Lo preoccupava dover gestire così tante persone in una volta sola, lui che ancora non riusciva a gestire la sua vita, tenere a bada le emozioni, trovare gli stimoli giusti per reagire alla perdita.
Nella cameretta Nikas dormiva sereno, l’immancabile orsetto turchese stretto al cuore.
Raggiunse il salotto al buio, la mente schiacciata in una morsa, il corpo pesante a farsi largo tra le familiari ombre scure che continuavano a circondarlo e a gravitargli attorno. Accese la tv e fissò lo schermo, senza guardare veramente le immagini che si susseguivano al ritmo dello zapping: vecchi film in bianco e nero, televendite di quadri e gioielli, spettacoli di spogliarello e lap dance, notiziari vari.
Sopra il plasma Alina sorrideva e lo fissava dalla penombra.
La fissò anche lui e per la prima volta da oltre un mese, da quando si era spenta in solitudine nel letto della clinica, la avvertì come una nemica. La penombra, la paura, l’angoscia: Sarunas si sentiva come prigioniero di una bolla dai colori sbiaditi che rotolava lungo i piani inclinati di altre dimensioni, seguendo regole a lui sconosciute.
Si avvicinò al televisore che nel frattempo si era riempito con la mappa colorata delle previsioni del tempo. Allungò le braccia sopra di esso e prese la fotografia.
Fece passare le mani sulla cornice di legno, poi sul vetro.
Il groppo nel fondo della gola diventò opprimente.
«Perché sei andata via? Perché mi hai lasciato solo?»
Le domande uscirono impetuose, provando a sciogliere quel nodo che cercava di togliergli il respiro.
«E Nikas? Come crescerà senza di te? Senza la tua presenza? Che ne sarà di lui?»
Contemplò l’immagine, aspettandosi davvero che potesse rispondere, dargli dei suggerimenti su come affrontare il futuro.
Fu un attimo, un pensiero fugace, ma quel sorriso dolce impresso sulla carta lucida, il sorriso che aveva sempre adorato e che lo aveva fatto innamorare, gli parve all’improvviso un gesto si scherno, un atteggiamento derisorio verso ciò che stava provando.
Strinse con rabbia la cornice, poi la gettò in terra con tutta la forza che aveva in corpo. Al contatto col pavimento del salotto il legno si spezzò, lasciando fuoriuscire dall’intelaiatura un pezzo di fotografia. Nell’impeto del furore calpestò col piede scalzo il vetro, ferendosi al tallone. Il sangue cominciò a colare sul pavimento bianco di ceramica e sull’immagine di Alina.
Qualche scheggia di vetro si conficcò nella carne e il dolore sgonfiò la collera, ricollegandolo con la realtà.
«Alina, scusami. Ma che ho fatto? Amore, perdonami.»
Sfilò la foto dalla cornice spezzata, i frammenti di vetro che cascavano sul pavimento come coriandoli trasparenti in un carnevale alieno.
La baciò.
Poi la portò al petto e si accucciò sul pavimento fresco, in posizione fetale, cullandola come un neonato.
Si sentiva perso.
Così perso che non fece caso neppure a Nikas che lo chiamava piangendo dalla sua cameretta.
Partì dalla stazione di Vilnius prima delle 10.00 e giunse nella città di Siauliai verso la mezza. La partita sarebbe cominciata nel tardo pomeriggio, quindi aveva tutto il tempo per cercare di rilassarsi un po'.
Voleva starsene da solo ancora un paio d’ore, prima d’incontrarsi con gli altri due colleghi della terna arbitrale.
Entrò nel bar della stazione e ordinò un panino e una coca. Non aveva molta fame ma si sforzò di mangiare tutto; l’ultima cosa che desiderava era stramazzare sul parquet per un calo glicemico.
Due avventori seduti al tavolino davanti al suo discutevano del conflitto tra russi e ucraini. Erano mesi che non si parlava d’altro.
Il più vecchio dei due, un tizio calvo e tarchiato col naso rosso per la troppa vodka bevuta, sosteneva le ragioni di Putin, il suo diritto a difendersi ed espandersi. L’accento tradiva un’origine lituana, ciò che diceva una certa nostalgia per l’epoca del regime sovietico.
L’altro, più magro e con una distesa di capelli biondi che gli arrivavano alle spalle, teneva la posizione opposta.
A parte il naso rosso i due visi si assomigliavano. Non fosse stato per lo scorrere del tempo sarebbero stati identici.
Padre e figlio, pensò Sarunas.
A lui francamente non fregava un cazzo né di Putin né di Zelensky.
Non gli fregava più un cazzo di niente.
Il mondo sarebbe potuto scoppiare in una grossa palla atomica quel giorno stesso. L’unico di cui gli importava era Nikas, ma anche così, poteva avere un senso andare avanti? Come aveva detto Verena? “Ha solo cinque anni e per lui la vita è già in salita.”
Già, aveva detto quelle parole precise e aveva ragione.
Dannatamente ragione.
La Siauliu Arena, il salotto buono del basket della città di Siauliai, una bomboniera d’acciaio, cemento e vetri colorati. Aveva già arbitrato lì: pubblico caloroso ma corretto. Era raro che si trascendesse.
Gli avversari del KK Siauliai erano gli atleti dello Zalgiris Kaunas, la squadra più titolata della Lituania. Sembrava una partita facile da arbitrare, senza grandi difficoltà. Le squadre non si giocavano il titolo, ma solo un piazzamento.
Lo Zalgiris conduceva la serie per tre a zero e vincendo il match si sarebbe aggiudicato il terzo posto nella lega.
Una partita segnata, semplice da arbitrare. La Federazione aveva scelto la partita più comoda per il suo rientro.
Alla fine però, la direzione di gara fu un disastro. Riuscì nell’impresa di scontentare tutte e due le compagini, fischiando falli assurdi ai giocatori in campo e alle panchine. Gli atleti protestarono in modo plateale, così come i coach a bordo campo, che saltarono su e giù come scimmiette impazzite. Anche il pubblico perse la pazienza: fischiò, protestò, imprecò come mai aveva fatto fino ad allora.
A fine partita non ebbe la forza di fare ciò che si era prefissato. Si sentiva stanco, pensieri scuri gli annebbiavano l’anima e il cervello. Aveva bisogno di riposare.
Bloccò una camera in un alberghetto nei pressi della stazione e chiamò sua cognata.
«Ciao Verena, sono io.»
«Ciao. Come è andata la partita?»
«Male. Ho arbitrato da schifo…senti, puoi occuparti ancora un po' di Nikas? Pensavo di tornare a casa domani.»
«Lo sai, non ci sono problemi. Ma è successo qualcosa?»
«No, sono solo stanco. Poi domani devo passare in un posto.»
«Hai una voce strana. Stai bene?»
«No. Dai, passami Nikas che voglio fargli un saluto.»
«Nikas sta dormendo.»
«Di già?» Guardo l’orologio: erano le 20.14.
«L’ho portato al parco nel pomeriggio. Dovevi vederlo, ha corso come un dannato. Dopo mangiato è andato subito ko.»
«Ok, dagli un bacio da parte mia allora. Ciao.»
Chiuse la telefonata e si sdraiò sul letto. Non aveva ancora mangiato e non pensava di farlo. Aveva già tutto ciò che gli occorreva.
Prima di entrare in camera si era fatto dare una bottiglia di vodka al bar dell’albergo.
Spense la luce e passò la serata a bere e a fissare il soffitto.
La Collina delle Croci si trovava nel villaggio di Jurgaiciai, una decina di chilometri a nord di Siauliai. Si alzò dal letto che stava iniziando ad albeggiare, chiamò un taxi e si fece portare lì.
Alina era stata sulla collina con i nonni quando era ancora poco più che una bambina. Pareva fosse trascorsa un’intera era geologica da quando gliene aveva parlato. Quel posto all’inizio l’aveva terrorizzata, così tanto che si era dovuta stringere alla vita del nonno. Poi però la paura era scomparsa e aveva avvertito una sorta di benessere.
Si era sentita felice.
Sarunas s’incamminò lungo il vialetto e puntò la sommità della collina.
Davanti a lui si palesò un groviglio inestricabile formato da migliaia di croci tutte diverse, da quelle più piccole e modeste a quelle enormi, che cercavano di rivaleggiare in altezza con gli alberi sullo sfondo.
Inizialmente gli sembrò di trovarsi in uno strano e bizzarro cimitero, ma non era quella la definizione più calzante.
Piuttosto pareva di osservare una sorta di bosco artificiale, inquietante, ma allo stesso tempo affascinante.
Qua e là poche persone sparse, isolate, perlopiù anziani in contemplazione di quello strano santuario.
Nel procedere rimase impressionato dalla grande varietà dei materiali: il classico legno, semplice o intarsiato, metallo, plastica. Vide anche un crocifisso diverso da tutti gli altri, stilizzato, realizzato con la ceramica. E poi statue e sculture di Cristo e della Madonna. Anche piccoli angeli.
Quando imboccò la passerella in legno che portava al punto più alto avvertì un formicolio alla base della nuca.
«È solo suggestione» si disse e continuò ad avanzare.
Rallentò un po' l’andatura, soffermandosi davanti alle incisioni più strane e particolari. Quando il vento si alzò, incuneandosi tra gli stretti passaggi tra una croce e l’altra, i rosari che pendevano dalle strutture più grandi si mossero, vibrarono, danzarono nell’aria, recitando la loro personale e mistica preghiera.
Fu lì che la mente di Sarunas vacillò, convincendosi che il vivace tintinnio dei piccoli crocifissi fosse un modo di Alina per comunicare con lui. Si bloccò, in attesa di qualcosa, di un segno.
Riprese a camminare, ma ai piedi della scalinata che conduceva alla sommità del poggio si fermò di nuovo.
Gli mancava l’aria.
Si costrinse a salire i gradini, sperando di non essere sull’orlo di un attacco di panico. Pensò ad Alina, a Nikas. Si concentrò sulla nenia dei rosari pizzicati dal vento e senza accorgersene si ritrovò in cima.
Quando iniziò a scollinare il respiro tornò regolare.
S’inoltrò per un altro corridoio circondato da croci.
Croci e ancora croci.
Sempre nuove. Sempre diverse.
In fondo l’accolse una spianata erbosa, divisa in due da un sentiero in terra battuta. Percorse il sentiero finché non trovò un punto idoneo a piantare la sua. Non voleva lasciarla da sola, isolata da tutte le
altre e neppure inserirla in un fazzoletto di terra troppo affollato. Lo scovò tra una croce dipinta coi colori della bandiera lituana e una realizzata coi bastoncini del gelato. Aprì lo zaino, prese una paletta da giardinaggio e scavò una piccola buca, quindi afferrò il suo simbolo e lo piantò. I pezzi di legno erano stati ricavati dalla cornice rotta la notte precedente la partenza, assicelle spezzate tenute di nuovo insieme da due chiodi di ferro. Sul legnetto verticale aveva inciso il nome di Alina.
«Per chi è quella croce?»
Sarunas si girò. Una vecchia con un fazzoletto verde legato attorno alla testa lo stava fissando.
«Per mia moglie» rispose.
La donna annuì. Aveva gli occhi celesti e il viso rugoso, fiero, affascinante nonostante l’età avanzata. Un ciuffo ribelle di capelli candidi faceva capolino sotto la stoffa verde.
«Quella dipinta coi colori lituani è per mio figlio. Era un poliziotto. Gli hanno sparato.»
Tornò a guardare la sua croce. Non aveva tanta voglia di parlare con una sconosciuta, eppure qualcosa d’indefinibile lo spingeva a farlo.
«Non è facile sopravvivere a chi amiamo» disse con serenità.
La vecchia annuì ancora una volta. «Almeno tu hai un figlio a cui pensare. Io sono sola, non ho più nessuno.»
Sarunas la fissò colmo di stupore. «Come fa a saperlo?»
La vecchia indicò lo zaino abbandonato sull’erba: dall’apertura spuntava la testa turchese di un peluche. «Sei troppo cresciuto per dormire con quello, dico bene?»
«Mi sa di sì» rispose Sarunas, poi rise. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva sentito il suono della sua risata? Non lo ricordava. «È di Nikas. Gli ho detto che avrei voluto portarlo in un posto in cui la mamma era stata quando era piccola. Un posto particolare, dove si era sentita felice. Me l’ha consegnato senza fare storie.»
Tirò fuori l’orso dallo zaino e lo posizionò vicino alla croce.
«Alina adorava quest’orso. L’ha voluto comprare lei. Dove si è mai visto un orsacchiotto turchese? Così diceva.»
La vecchia fece un cenno con la mano e si allontanò.
Le ombre nere che assillavano Sarunas parvero dileguarsi con lei.
Non seppe dare una risposta logica a quella sensazione, ma si sentì più leggero. Quasi sereno.
Si sdraiò sul prato, gli occhi al cielo e alle poche nuvole che giocavano a rincorrersi. Pensò a tutte le piccole cose amorevoli che avevano fatto assieme: lei che gli tagliava i capelli, lui che le metteva lo smalto alle unghie dei piedi, loro che si insaponavano vicendevolmente la schiena nella vasca da bagno ascoltando musica anni ottanta. Pensò a queste cose e sorrise.
Poi finalmente pianse.