Kate aveva litigato a lungo con Kurtley, un ragazzo di origini aborigene che viveva vicino al suo albergo. Dava a lui e a tutti i nativi le responsabilità del suo tracollo economico: per colpa delle fandonie sul suolo sacro di Uluru e degli autoctoni, nessuno poteva più scalare il monte, e quindi nessuno più dormiva a Yulara.
Kurtley le aveva spiegato l’importanza di Uluru e delle conseguenze della sua profanazione, ma lei non sentiva, non lo ascoltava.
L’hotel Fabergè, a Yulara, era pieno di uova. Riproduzioni, naturalmente. La reception brulicava di quelli che Kate non esitava a definire “falsi d’autore”.
“L’uovo è la prova che la perfezione esiste, perché se parti da qui arrivi qui”, diceva tenendone in mano uno e seguendo la circonferenza con il dito indice della mano sinistra. La sua passione per la forma ovale si rispecchiava in ogni ambiente dell’hotel che gestiva. Nessuna stanza aveva spigoli, nessun letto aveva la classica forma rettangolare: tutto era smussato e riccamente decorato.
Ogni camera dell’albergo, oltre allo stile pomposo degli zar russi di fine Ottocento, possedeva il nome di un uovo Fabergè: la Gigli, la Mughetti, la Trifoglio, la Incoronazione, la Transiberiana, la Palazzi Danesi…
Una di quelle camere non era aperta al pubblico da ormai due anni: dall’inizio della pandemia, con le prime chiusure, James ci si era rifugiato e non ne era più uscito.
James viveva nella suite dell’Orologio blu con serpente.
Due stanze. La prima era un salotto, con due divani blu, due poltrone blu, la tv incastonata in una cornice anch’essa senza spigoli, e una gigantesca foto di Uluru, senza spigoli, riempiva la parete dietro a uno dei divani.
Nella seconda stanza, attigua, il letto ovale con le lenzuola di colore blu reale, lo specchio, tondo, con la cornice placcata in oro al posto del capezzale.
Per James quello era un posto sicuro: “It’s my safe place, mum”, diceva con la sua voce tremante e insicura.
I suoi attacchi d’ansia, dalla morte del padre quattro anni prima, erano peggiorati: aveva lasciato la scuola pubblica e si istruiva in autonomia in albergo; inoltre, aveva allontanato quelle poche persone con le quali era riuscito a fatica a instaurare un rapporto di amicizia. Aveva perfino chiuso le porte all’amore di Julie.
Quello con Julie era stato il tipico amore sedicenne: assoluto e violento. Sembrava dovesse durare in eterno. Invece era morto assieme a suo padre.
Lo trovarono senza vita, lui e sua madre tornando dal supermercato, mentre stava dipingendo di rosso una bicicletta in garage.
Kate, per provare in qualche modo a superare il proprio lutto, si era buttata a capofitto nel lavoro in hotel. Gli affari, prima delle chiusure per l’emidemia, andavano bene: erano tantissimi i turisti che visitavano quel luogo magico, mistico, caldo e rosso.
James, per provare in qualche modo a superare il lutto per la perdita del padre, si era buttato a capofitto in quella che era la sua passione: il calcio.
Non quello giocato, però: “It’s such an ordinary game”, diceva. Lui preferiva elevare il livello della competizione: preferiva dirigerle, le gare.
Era diventato arbitro. Stringeva fischietto e cartellini e si sentiva vivo. Aveva brillantemente superato l’esame e aveva ottenuto l’abilitazione.
La pandemia aveva però bloccato tutto e quindi James non era mai sceso in campo.
L’unica consolazione era quel videogioco per la playstation che sua madre gli aveva regalato per il sedicesimo compleanno: Referee Master. Era un videogioco particolare: per la prima volta non si giocava a calcio, ma lo si arbitrava.
Le sue giornate erano lì, ad arbitrare. Così come le sue nottate.
Tra una partita e l’altra, James passava il tempo di quarantena forzata navigando nell’internet. Era un ragazzo molto curioso, appassionato di occulto e attratto dall’illegale.
Aveva scoperto per caso, una notte, un blog che parlava di Lean, una nuova droga facile da preparare in casa: bastava dello sciroppo per la tosse e una bevanda gassata e il gioco era fatto.
Una di quelle notti, navigando sul Dark web sotto l’effetto di Lean, si era imbattuto nella Balena Blu. Il blu lo affascinava, quindi non poteva non provare quel gioco. E poi la violenza lo eccitava.
La Blue Whale lo aveva ormai trascinato in un tunnel senza uscita, complice l’effetto di Lean.
Le prime prove erano relativamente semplici. Qualche taglio sulle braccia e sulle gambe, ascoltare musica psichedelica e vedere filmati violenti: c’erano omicidi, suicidi, violenze sessuali, torture. Ogni video era amatoriale, la sofferenza delle vittime era reale.
James, di fronte a quei video, si masturbò.
Il suo atteggiamento nei confronti della vita era cambiato. La sua segregazione in camera era totale. Usciva solo di notte, di nascosto, per passeggiare sui cornicioni e sui tetti degli hotel di Yulara, come gli prescriveva il gioco.
Il resto del tempo lo passava nel salotto della suite dell’Orologio con serpente, giocando a Referee Master, a drogarsi e ad attendere le istruzioni della Balena Blu.
Era aggressivo nei confronti degli oggetti: aveva ormai distrutto ogni suppellettile presente in camera.
Era aggressivo nei confronti della madre: la insultava continuamente, per ogni inezia. Le attribuiva le responsabilità di ogni cosa, dalla morte del padre alla pandemia.
Il ragazzo non arrivò mai alla prova finale, quella di gettarsi dal tetto di un palazzo e di saltare giu.
Nella prova numero 34 la Balena Blu gli aveva chiesto di tagliarsi le vene con una lametta. Non era la prima volta che lo faceva, gli serviva per scaricare la tensione e tirare fuori il “sangue cattivo”. Ma quella volta il sangue cattivo da tirare fuori era troppo e James fece dei solchi eccessivamente profondi su quegli avambracci già segnati da numerose cicatrici.
Kate lo trovò senza vita, in una pozza di sangue, con gli occhi sbarrati nella direzione Uluru.
Da allora l’hotel Fabergè era passato in secondo piano, abbandonato a una decadenza che lo impolverava e lo spegneva.
Kate aveva licenziato tutti i propri collaboratori: nessuno preparava più le colazioni, nessuno puliva più le camere, nessuno passava le nottate in reception.
Nessuno chiedeva più una camera.
L’emergenza sanitaria era passata, ma neanche un cliente ormai alloggiava da lei: le recensioni al suo hotel erano diventate pessime e le orde di turisti che assaltavano la sacra montagna non c’erano più a causa del divieto di scalarla.
Era rimasta sola.
Sola e vuota.
Il suo ragazzo l’aveva lasciata sola con le sue uova.
Kate passava le giornate nella suite dell’Orologio blu con serpente, sul tappeto blu macchiato di sangue. Abbracciava il cuscino e giocava alla playstation a Referee Master. Le lacrime inondavano i suoi occhi a ogni cartellino, a ogni fischio di quel gioco che era lei ora a comandare. Era lei adesso l’arbitro: le regole erano sua responsabilità ed era lei a decidere se una cosa era giusta o sbagliata.
Fu alla fine di una partita a Referee Master che tutto le fu chiaro.
La sua vita aveva assunto una nuova consapevolezza.
La consapevolezza per riuscire a capire di chi era la colpa.
Non c’erano angoli o spigoli nella sua vita: tutto doveva chiudersi perfettamente, tutto era un cerchio e tutto doveva compiersi.
La colpa era di Uluru, che gli aveva sottratto il marito prima e il lavoro dopo.
La colpa era di uno stupido gioco di arbitri, che le aveva sottratto suo figlio.
La colpa era di quel posto: nel proprio delirio senza lucidità, era Uluru la causa di tutto.
La colpa era di quegli stupidi aborigeni che ritenevano sacra una semplice montagna.
La colpa era del governo che dava ascolto alle credenzesensa senso di un popolo rimasto primitivo pure in età contemporanea.
Su Uluru tutto doveva finire.
I 17 chilometri che separavano l’hotel dalla montagna venivano percorsi in cinque ore dai turisti. L’affanno del caldo di luglio costrinse Kate a camminare per circa otto ore prima di trovarsi ai piedi di Uluru. Le lacrime le rigavano il viso impolverato di ocra. La disidratazione le aveva spaccato il labbro superiore.
Il gigantesco masso era diventato di un rosso accecante e vivissimo. Kate non riusciva più a sostenerne lo sguardo: ogni volta che guardava Uluru rivedeva in esso il sangue di suo figlio e la morte del marito.
Non era più possibile andare sulla cima del sacro monte, ma lei ci andò lo stesso.
Sapeva esattamente come sfuggire ai controlli e arrivare in una delle pozze tanto sacre agli aborigeni.
Il sentiero delinato sul fianco nord del monte era coperto da pochi arbusti e segnato da simbologie aborigene che significavano morte e maledizioni per chiunque profanasse quel sacro luogo.
Si era fermata sul ciglio di una pozza.
Passarono delle ore prima che si decidesse a farlo. Non piangeva, non urlava, non si strappava i capelli, non si schiaffeggiava più.
Era lì, immobile.
Il suo corpo era lì, immobile.
Un guscio vuoto, un uovo senza più vita.
Fu lì, dove era nato il tempo del sogno, che Kate versò il proprio sangue tagliandosi la gola.
Il rosso dentro di sé era adesso il rosso di Uluru.