Un uomo, in Boulevard Barbes 12, a due passi dal lungo Senna, alzò il bavero, dopo aver suonato al citofono di un palazzo storico. Aveva circa cinquant’anni, vestito con disinvolta eleganza, ben rasato, dava l’idea di una persona estremamente curata.
Lo scatto della serratura non tardò ad arrivare. Con entrambe le mani aprì il portone ed entrò. L’ingresso, di marmi bianchi e neri, era poco illuminato ma accogliente, come la bellissima scalinata. Quattro piani, in ascensore, gli sembrarono interminabili.
Con un sussulto di ingranaggi, lo stesso che fece il suo cuore, arrivò al piano.
La porta dell’appartamento si aprì, prima che potesse leggere la targhetta sotto il campanello.
– Sono Kristoffer Pettersen.
– Venga, la stavamo aspettando.
Una giovane donna, vestita in modo troppo serio per la sua età, lo fece accomodare, dopo averlo aiutato a togliere il trench.
I lunghi capelli biondi le coprivano una parte del viso, lasciando comunque intravedere una genuina e semplice bellezza.
Dall’ingresso, una porta a doppie ante dava su un salone grande e luminoso.
La luce entrava dalle alte vetrate che occupavano quasi per intero le pareti, le tende erano scostate lungo i muri, così da fornire una visione panoramica di Parigi.
– Si accomodi pure! – l’incoraggiò la ragazza, mentre si allontanava accompagnata dal ticchettio delle scarpe.
L’uomo percorse, a passi leggeri, la sala.
Un cassettone tardo Ottocento era sovrastato da un grande specchio con una bella cornice. Fotografie ingiallite, alcune a colori, altre in bianco e nero, si sovrapponevano senza seguire un apparente ordine cronologico. Solo affetti e ricordi che si alternavano liberi dagli inganni del tempo.
Kristoffer diede un’occhiata veloce, con il pudore di chi non vuole intromettersi nelle cose intime di uno sconosciuto.
Del resto, la stanza era molto ricca di oggetti, una sorta di bazar, piena di richiami di una vita intera che una mano femminile aveva saputo disporre con armonia.
Alle pareti erano appesi quadri di epoche diverse, una laguna di Venezia tra la piramide di Cleope e un quadro a olio con la testa del Battista. Una stampa di fine Settecento stava sopra il pianoforte a parete. Due vetrine mettevano in bella mostra argenti e trofei, ai lati di un tavolo allungabile, con quattro sedie intorno.
Un divano e tre poltroncine, in velluto punzonato color rosso bordò, circondavano un tavolinetto, creando uno spazio intimo e accogliente.
L’imponente libreria era stracolma di libri, mentre sulla scrivania era poggiata una scacchiera antica, prudentemente chiusa in una bacheca di noce.
L'uomo, dopo una occhiata discreta agli oggetti, si avvicinò alla finestra.
Il panorama era spettacolare: i tetti della città passavano dal cobalto all’antracite, mentre si intravedeva la torre Eiffel illuminata che diventava, del crepuscolo autunnale, l’incontrastata protagonista.
Più che una voce, fu lo strusciare dei passi sul parquet ad annunciare l’arrivo del padrone di casa.
– Scusi se l’ho fatta aspettare. Albert Dumont, – disse, porgendogli la mano.
Era un vecchio avanti negli anni, ma con ancora un bel timbro di voce. Indossava una giacca da camera a scacchi rossi e blu, sopra pantaloni morbidi che lasciavano intuire una certa magrezza. Per il naso appuntito sotto le folte sopracciglia e le labbra sottili, sembrava uno spiritello dei boschi.
– Kristoffer Pettersen.
– E lei era Karim, la ragazza che le ha aperto. Non le ha fatto compagnia, in mia assenza!? Benedetta figliola! È brava, ma tanto timida. Mia moglie è morta, sa, e non abbiamo avuto figli. Si occupa di me. Del resto, non potrei fare diversamente… vista la mia giovane età! – e rise.
A piccoli passi, si diresse verso quella che doveva essere, a giudicare dall’affossamento della seduta, la sua poltrona abituale e non quella delle grandi occasioni. Lo testimoniava un plaid a fiori, perfettamente piegato sopra un bracciolo.
– Non importa. Stavo godendo del panorama stupendo che si ammira dalla sua casa. I cappelli, li chiamate così i tetti di Parigi, cangianti a ogni ora del giorno…
– L’abbiamo comprata proprio per questo, io e mia moglie, secoli fa, – disse con un lungo sospiro che solo i vecchi sanno fare.
– Ma si accomodi, la prego, – e indicò una delle poltrone a pozzetto. – A cosa debbo la sua visita? Non è di queste parti, vero?
– No, infatti. Sono norvegese, esattamente di Stavanger, ma ci siamo conosciuti tanto tempo fa, in un altro posto.
– Ah sì? Per lavoro ho girato molto...
Il signor Dumont si guardò le unghie ingiallite di una mano deformata dall’artrosi. Gli doveva essere affiorato il tempo di una vita passata di cui al momento serbava solo un vago sentore.
– No, non era per lavoro. Era durante il torneo internazionale di scacchi, a Bienne.
– Ah sì? Ho arbitrato diverse volte in Svizzera, tra gli anni Ottanta e Novanta, se non ricordo male…
Gli occhi avevano, sulla pupilla, un velo di incertezza, la stessa che si era posata sulla memoria e faceva vedere sfocati anche i ricordi.
– Invece ricorda perfettamente. Era il 1989. Quella partita per me era molto importante.
– Ah, sì? Era una finale? Il torneo era prestigioso e…
– No, no! Era la classificazione dopo il primo girone.
– Sono passati troppi anni… non posso ricordare tutte le partite che ho arbitrato!
– Certo, certo! Ma quella, per me, era troppo importante. Io e il mio avversario non ci giocavamo il titolo o un premio… ma l'amore di una donna.
– Davvero? A una partita a scacchi? E perché mai?
– Se ha pazienza le racconto dall'inizio non ci vorrà molto, è una storia breve.
– Abbiamo tutto il pomeriggio davanti, non ho più gli impegni di una volta. – fece un sorriso che sembrava una smorfia. – Karim ci servirà del tè o se lei gradisce qualcos'altro da bere, non faccia complimenti.
– Il tè va benissimo anche per me.
Dalla porta la ragazza fece capolino, come se avesse previsto che, considerata l’ora, sarebbe stata chiamata.
– Non sono inglese ma ho vissuto diversi anni a Londra.
– Di cosa si occupava? Se non sono indiscreto…
– Ma si figuri! Lavoravo in uno studio legale. Ero avvocato, diritto internazionale.
– Un uomo di legge! Dovevo immaginarlo!
– Ah sì? E da cosa? – domandò accavallando le gambe come se potesse sentire meglio la risposta.
– Non so, dal senso di giustizia che forse, anche come arbitro, ha dovuto far valere.
– Questo è vero! – disse – ma mi parli di lei.
– La mia è una storia di amicizia, come tante. Eravamo inseparabili, io e Adrian. Adrian Anker, anche lui norvegese. Frequentavamo lo stesso campus, l’Aiglon, a una sessantina di chilometri da Losanna, ed eravamo innamorati della stessa ragazza, Regin. Lei era di origini lituane, di Klaipeda, esattamente.
– Non ci crederà, ma ci sono stato. Ricorda un paesino scandinavo. Avevo molti amici lituani. Hanno un carattere gentile e generoso. A volte sono ottusi e possono sembrare persino scontrosi.
– Lei, invece, era eternamente indecisa su chi dei due amare, un'assurdità per tutti ma lei poteva permetterselo. Non ho mai conosciuto una donna con più fascino, bellezza ed eleganza. Aveva un corpo slanciato, la pelle chiarissima un portamento regale, degno del nome.
– Capita spesso che due amici fraterni si contendano la stessa ragazza! Ma continui, la prego.
– Al campus imparammo a giocare a scacchi. Io e Adrian ci appassionammo talmente tanto che diventò quasi un'ossessione. Giocavamo tra noi e poi abbiamo iniziato a partecipare a tornei sempre più importanti e impegnativi. Dopo l’università le nostre strade si sono separate ma non le nostre vite. Adrian studiava architettura, Regin pianoforte al conservatorio e io medicina.
– Storia interessante. È grazie a una donna che è nata la vostra passione per gli scacchi?
– Può darsi o anche no. Ci piaceva come ci guardava giocare.
– Capisco.
– Lei era così, si muoveva ora verso uno ora verso l'altro, senza mai metterci contro! Era lei a decidere le nostre giornate, i nostri umori, le sconfitte o le vittorie…Le nostre vite, la mia e quella di Adrian, erano diventate difficili da spiegare, impossibili da comprendere.
– Da giovani capita di essere totalmente dipendenti, quando si è innamorati…
– Finché un giorno lei, signor Dumont, arbitrando quella nostra partita, ha rotto l’equilibrio, spezzato il folle incantesimo e ha deciso delle nostre sorti.
– Io? E come avrei potuto fare una cosa del genere? Non credo di aver mai avuto così tanto potere.
– Il mio amico era molto nervoso quella mattina, proprio perché la posta era alta, lo sa bene lei, lo stress per la competizione fa fare errori anche assurdi e infantili.
– Lo so, eccome! Sa cosa diceva Garri Kasparov? Sicuramente lo ricorderà, era campione del mondo a metà degli anni Ottanta.
– Certo che lo ricordo!
– “Gli scacchi sono uno sport estremamente violento”, e aveva ragione!
– Io non lo aiutai, la competizione era forte. Dopo ogni mossa facevo lunghe pause proprio per innervosirlo, quel giorno eravamo solo avversari.
– Chi perse la partita?
– Adrian. Lei lo ammonì quando dimenticò di annotare la mossa che aveva fatto, e poi quando non dichiarò un j’adoube. Allora ebbe un moto di stizza tale da rifiutare la sua decisione arbitraria e perse. Ho vinto per la sua rabbia…e per il suo arbitraggio da alcuni ritenuto scorretto o quanto meno eccessivo.
– Addirittura! Adesso che me la racconta, mi sembra di vedere la scena…
– Poteva succedere a me di perdere, sarebbe stato meglio! Adrian è sempre stato più debole, aveva colori troppo chiari, gli occhi, i capelli, la pelle, il carattere fragile, a ogni imprevisto sembrava si spezzasse. Eravamo noi, io e Regin, la sua forza. Un re arroccato incapace di muoversi, di agire, di vivere. Quella sconfitta per lui significava perdere entrambi.
– Non bisogna scommettere, allora, se non si ha la capacità di accettare la sconfitta. Il suo amico non aveva capito nulla degli scacchi.
Karim, annunciata dal ticchettio delle scarpe, fece il suo ingresso portando il vassoio.
Lo poggiò sul tavolino basso, davanti al divano, dove un volume della Divina Commedia illustrata da Gustave Dorè era aperta alla pagina di Paolo e Francesca, persi nel loro eterno vortice.
Versò l’acqua in preziose tazze dal bordo dorato e ricordò al signor Dumont di prendere la medicina.
– Non ci fai compagnia?
– No, oggi la mia presenza non è necessaria, – e si allontanò senza fare nessun rumore.
– La prego, signor Pettersen, continui, – disse, mandando giù con un sorso la pasticca.
– Dopo la sconfitta Adrian era distrutto. Non potevo vederlo così. Ero disposto a tutto, anche a farla finita con lui. Una sbandata in curva con la macchina, e via, fine dei giochi! Ma, poi, mentre guidavo, e lui mi stava accanto, non ce l’ho fatta! Da vigliacco, quale sono, all’ultimo secondo ho sterzato, finendo la corsa contro un albero. Adrian è morto sul colpo, io solo qualche graffio. Illeso e scagionato, perché c'erano segni di frenata sull'asfalto. Ma l’ho ucciso io, capisce! Sono stato io a provocare la sua morte!
Senza pensarci troppo continuò: – In fondo non era quello che voleva? Liberarsi del suo rivale e avere la sua donna tutta per sé?!
– Pensavo anch’io, ma non è stato così! Ho vissuto malissimo i giorni che seguirono. Regin era mia ma, senza Adrian, il suo amore per lei non aveva più senso. Non perché avessi sensi di colpa ma perché era finita la competizione e l'amicizia che ci aveva legati tutti quegli anni.
– Cosa ne è stato della ragazza?
– Non ho saputo più niente di lei, non l’ho mai più cercata, come se anche lei fosse responsabile di quanto era successo.
Lo scatto della serratura non tardò ad arrivare. Con entrambe le mani aprì il portone ed entrò. L’ingresso, di marmi bianchi e neri, era poco illuminato ma accogliente, come la bellissima scalinata. Quattro piani, in ascensore, gli sembrarono interminabili.
Con un sussulto di ingranaggi, lo stesso che fece il suo cuore, arrivò al piano.
La porta dell’appartamento si aprì, prima che potesse leggere la targhetta sotto il campanello.
– Sono Kristoffer Pettersen.
– Venga, la stavamo aspettando.
Una giovane donna, vestita in modo troppo serio per la sua età, lo fece accomodare, dopo averlo aiutato a togliere il trench.
I lunghi capelli biondi le coprivano una parte del viso, lasciando comunque intravedere una genuina e semplice bellezza.
Dall’ingresso, una porta a doppie ante dava su un salone grande e luminoso.
La luce entrava dalle alte vetrate che occupavano quasi per intero le pareti, le tende erano scostate lungo i muri, così da fornire una visione panoramica di Parigi.
– Si accomodi pure! – l’incoraggiò la ragazza, mentre si allontanava accompagnata dal ticchettio delle scarpe.
L’uomo percorse, a passi leggeri, la sala.
Un cassettone tardo Ottocento era sovrastato da un grande specchio con una bella cornice. Fotografie ingiallite, alcune a colori, altre in bianco e nero, si sovrapponevano senza seguire un apparente ordine cronologico. Solo affetti e ricordi che si alternavano liberi dagli inganni del tempo.
Kristoffer diede un’occhiata veloce, con il pudore di chi non vuole intromettersi nelle cose intime di uno sconosciuto.
Del resto, la stanza era molto ricca di oggetti, una sorta di bazar, piena di richiami di una vita intera che una mano femminile aveva saputo disporre con armonia.
Alle pareti erano appesi quadri di epoche diverse, una laguna di Venezia tra la piramide di Cleope e un quadro a olio con la testa del Battista. Una stampa di fine Settecento stava sopra il pianoforte a parete. Due vetrine mettevano in bella mostra argenti e trofei, ai lati di un tavolo allungabile, con quattro sedie intorno.
Un divano e tre poltroncine, in velluto punzonato color rosso bordò, circondavano un tavolinetto, creando uno spazio intimo e accogliente.
L’imponente libreria era stracolma di libri, mentre sulla scrivania era poggiata una scacchiera antica, prudentemente chiusa in una bacheca di noce.
L'uomo, dopo una occhiata discreta agli oggetti, si avvicinò alla finestra.
Il panorama era spettacolare: i tetti della città passavano dal cobalto all’antracite, mentre si intravedeva la torre Eiffel illuminata che diventava, del crepuscolo autunnale, l’incontrastata protagonista.
Più che una voce, fu lo strusciare dei passi sul parquet ad annunciare l’arrivo del padrone di casa.
– Scusi se l’ho fatta aspettare. Albert Dumont, – disse, porgendogli la mano.
Era un vecchio avanti negli anni, ma con ancora un bel timbro di voce. Indossava una giacca da camera a scacchi rossi e blu, sopra pantaloni morbidi che lasciavano intuire una certa magrezza. Per il naso appuntito sotto le folte sopracciglia e le labbra sottili, sembrava uno spiritello dei boschi.
– Kristoffer Pettersen.
– E lei era Karim, la ragazza che le ha aperto. Non le ha fatto compagnia, in mia assenza!? Benedetta figliola! È brava, ma tanto timida. Mia moglie è morta, sa, e non abbiamo avuto figli. Si occupa di me. Del resto, non potrei fare diversamente… vista la mia giovane età! – e rise.
A piccoli passi, si diresse verso quella che doveva essere, a giudicare dall’affossamento della seduta, la sua poltrona abituale e non quella delle grandi occasioni. Lo testimoniava un plaid a fiori, perfettamente piegato sopra un bracciolo.
– Non importa. Stavo godendo del panorama stupendo che si ammira dalla sua casa. I cappelli, li chiamate così i tetti di Parigi, cangianti a ogni ora del giorno…
– L’abbiamo comprata proprio per questo, io e mia moglie, secoli fa, – disse con un lungo sospiro che solo i vecchi sanno fare.
– Ma si accomodi, la prego, – e indicò una delle poltrone a pozzetto. – A cosa debbo la sua visita? Non è di queste parti, vero?
– No, infatti. Sono norvegese, esattamente di Stavanger, ma ci siamo conosciuti tanto tempo fa, in un altro posto.
– Ah sì? Per lavoro ho girato molto...
Il signor Dumont si guardò le unghie ingiallite di una mano deformata dall’artrosi. Gli doveva essere affiorato il tempo di una vita passata di cui al momento serbava solo un vago sentore.
– No, non era per lavoro. Era durante il torneo internazionale di scacchi, a Bienne.
– Ah sì? Ho arbitrato diverse volte in Svizzera, tra gli anni Ottanta e Novanta, se non ricordo male…
Gli occhi avevano, sulla pupilla, un velo di incertezza, la stessa che si era posata sulla memoria e faceva vedere sfocati anche i ricordi.
– Invece ricorda perfettamente. Era il 1989. Quella partita per me era molto importante.
– Ah, sì? Era una finale? Il torneo era prestigioso e…
– No, no! Era la classificazione dopo il primo girone.
– Sono passati troppi anni… non posso ricordare tutte le partite che ho arbitrato!
– Certo, certo! Ma quella, per me, era troppo importante. Io e il mio avversario non ci giocavamo il titolo o un premio… ma l'amore di una donna.
– Davvero? A una partita a scacchi? E perché mai?
– Se ha pazienza le racconto dall'inizio non ci vorrà molto, è una storia breve.
– Abbiamo tutto il pomeriggio davanti, non ho più gli impegni di una volta. – fece un sorriso che sembrava una smorfia. – Karim ci servirà del tè o se lei gradisce qualcos'altro da bere, non faccia complimenti.
– Il tè va benissimo anche per me.
Dalla porta la ragazza fece capolino, come se avesse previsto che, considerata l’ora, sarebbe stata chiamata.
– Non sono inglese ma ho vissuto diversi anni a Londra.
– Di cosa si occupava? Se non sono indiscreto…
– Ma si figuri! Lavoravo in uno studio legale. Ero avvocato, diritto internazionale.
– Un uomo di legge! Dovevo immaginarlo!
– Ah sì? E da cosa? – domandò accavallando le gambe come se potesse sentire meglio la risposta.
– Non so, dal senso di giustizia che forse, anche come arbitro, ha dovuto far valere.
– Questo è vero! – disse – ma mi parli di lei.
– La mia è una storia di amicizia, come tante. Eravamo inseparabili, io e Adrian. Adrian Anker, anche lui norvegese. Frequentavamo lo stesso campus, l’Aiglon, a una sessantina di chilometri da Losanna, ed eravamo innamorati della stessa ragazza, Regin. Lei era di origini lituane, di Klaipeda, esattamente.
– Non ci crederà, ma ci sono stato. Ricorda un paesino scandinavo. Avevo molti amici lituani. Hanno un carattere gentile e generoso. A volte sono ottusi e possono sembrare persino scontrosi.
– Lei, invece, era eternamente indecisa su chi dei due amare, un'assurdità per tutti ma lei poteva permetterselo. Non ho mai conosciuto una donna con più fascino, bellezza ed eleganza. Aveva un corpo slanciato, la pelle chiarissima un portamento regale, degno del nome.
– Capita spesso che due amici fraterni si contendano la stessa ragazza! Ma continui, la prego.
– Al campus imparammo a giocare a scacchi. Io e Adrian ci appassionammo talmente tanto che diventò quasi un'ossessione. Giocavamo tra noi e poi abbiamo iniziato a partecipare a tornei sempre più importanti e impegnativi. Dopo l’università le nostre strade si sono separate ma non le nostre vite. Adrian studiava architettura, Regin pianoforte al conservatorio e io medicina.
– Storia interessante. È grazie a una donna che è nata la vostra passione per gli scacchi?
– Può darsi o anche no. Ci piaceva come ci guardava giocare.
– Capisco.
– Lei era così, si muoveva ora verso uno ora verso l'altro, senza mai metterci contro! Era lei a decidere le nostre giornate, i nostri umori, le sconfitte o le vittorie…Le nostre vite, la mia e quella di Adrian, erano diventate difficili da spiegare, impossibili da comprendere.
– Da giovani capita di essere totalmente dipendenti, quando si è innamorati…
– Finché un giorno lei, signor Dumont, arbitrando quella nostra partita, ha rotto l’equilibrio, spezzato il folle incantesimo e ha deciso delle nostre sorti.
– Io? E come avrei potuto fare una cosa del genere? Non credo di aver mai avuto così tanto potere.
– Il mio amico era molto nervoso quella mattina, proprio perché la posta era alta, lo sa bene lei, lo stress per la competizione fa fare errori anche assurdi e infantili.
– Lo so, eccome! Sa cosa diceva Garri Kasparov? Sicuramente lo ricorderà, era campione del mondo a metà degli anni Ottanta.
– Certo che lo ricordo!
– “Gli scacchi sono uno sport estremamente violento”, e aveva ragione!
– Io non lo aiutai, la competizione era forte. Dopo ogni mossa facevo lunghe pause proprio per innervosirlo, quel giorno eravamo solo avversari.
– Chi perse la partita?
– Adrian. Lei lo ammonì quando dimenticò di annotare la mossa che aveva fatto, e poi quando non dichiarò un j’adoube. Allora ebbe un moto di stizza tale da rifiutare la sua decisione arbitraria e perse. Ho vinto per la sua rabbia…e per il suo arbitraggio da alcuni ritenuto scorretto o quanto meno eccessivo.
– Addirittura! Adesso che me la racconta, mi sembra di vedere la scena…
– Poteva succedere a me di perdere, sarebbe stato meglio! Adrian è sempre stato più debole, aveva colori troppo chiari, gli occhi, i capelli, la pelle, il carattere fragile, a ogni imprevisto sembrava si spezzasse. Eravamo noi, io e Regin, la sua forza. Un re arroccato incapace di muoversi, di agire, di vivere. Quella sconfitta per lui significava perdere entrambi.
– Non bisogna scommettere, allora, se non si ha la capacità di accettare la sconfitta. Il suo amico non aveva capito nulla degli scacchi.
Karim, annunciata dal ticchettio delle scarpe, fece il suo ingresso portando il vassoio.
Lo poggiò sul tavolino basso, davanti al divano, dove un volume della Divina Commedia illustrata da Gustave Dorè era aperta alla pagina di Paolo e Francesca, persi nel loro eterno vortice.
Versò l’acqua in preziose tazze dal bordo dorato e ricordò al signor Dumont di prendere la medicina.
– Non ci fai compagnia?
– No, oggi la mia presenza non è necessaria, – e si allontanò senza fare nessun rumore.
– La prego, signor Pettersen, continui, – disse, mandando giù con un sorso la pasticca.
– Dopo la sconfitta Adrian era distrutto. Non potevo vederlo così. Ero disposto a tutto, anche a farla finita con lui. Una sbandata in curva con la macchina, e via, fine dei giochi! Ma, poi, mentre guidavo, e lui mi stava accanto, non ce l’ho fatta! Da vigliacco, quale sono, all’ultimo secondo ho sterzato, finendo la corsa contro un albero. Adrian è morto sul colpo, io solo qualche graffio. Illeso e scagionato, perché c'erano segni di frenata sull'asfalto. Ma l’ho ucciso io, capisce! Sono stato io a provocare la sua morte!
– Perché viene a raccontare proprio a me questa storia? E dopo vent’anni…
– Prima non ero pronto! L’ho cercata negli annali, non è stato difficile trovarla. Solo lei poteva capire. Come ogni nostra scelta o decisione determini le scelte e le mosse degli altri. Perché noi siamo arbitri del destino di quanti incontriamo e della sorte di altre persone a noi sconosciute. Volevo che lei conoscesse la sofferenza che aveva generato e di questo se ne dolesse.
– Solo parole, caro signore! Lei era giovane, la morte del suo amico è stato solo un'incidente, l’hanno scagionata, che c’entro io? Senza pensarci troppo continuò: – In fondo non era quello che voleva? Liberarsi del suo rivale e avere la sua donna tutta per sé?!
– Pensavo anch’io, ma non è stato così! Ho vissuto malissimo i giorni che seguirono. Regin era mia ma, senza Adrian, il suo amore per lei non aveva più senso. Non perché avessi sensi di colpa ma perché era finita la competizione e l'amicizia che ci aveva legati tutti quegli anni.
– Cosa ne è stato della ragazza?
– Non ho saputo più niente di lei, non l’ho mai più cercata, come se anche lei fosse responsabile di quanto era successo.
Il salotto si fece più buio e cupo, come se le due lampade accese, poste agli angoli della stanza, non facessero abbastanza luce.
– Penso che sia così per tutti, – ammise amaramente l'avvocato, – ma che io possa aver determinato la sorte di voi tre ragazzi, questo non lo credo possibile.
Il lampadario di murano si illuminò all’improvviso, facendo strizzare gli occhi ai due uomini, abituati alla penombra.
Era Karim. Indossava un cappottino leggero, verde oliva. In mano stringeva una foto sgualcita e consumata negli angoli.
– Esci, cara?
– Sì, ma prima voglio mostrarvi una cosa.
Passò prima da uno e poi dall’altro, senza fretta. Dopo chiese:
– Conoscete questo posto? È la Collina delle Croci, Kryžių Kalnas, in Lituania. Una piccola altura, su cui sorgono più di cinquantamila croci, una cifra incredibile! Sono di ogni dimensione e materia, da piccole a enormi.
Neppure i sovietici sono riusciti ad annientarla. Ci hanno provato tre volte e altrettante è risorta.
Li guardò in volto come se aspettasse una loro reazione e, non ottenendola, riprese:
– Voi non sapete cosa significhi tutto questo dolore, il peso che ogni croce porta non è solo materiale, per sostenere quello basta la terra. Ma il peso interiore, quello che gli altri non vedono, che non si legge sul viso, il dolore completo, dell’abbandono, dell’ultimo respiro esalato in solitudine, senza la certezza di un Dio, chi lo sostiene?
Mentre parlava sembrava che somigliasse a Regin, sempre di più. Di lei aveva l’atteggiamento di sfida, la finta timidezza. Aveva la stessa fossetta alla base del mento, uguale modo di muovere le mani e di contrarre leggermente la mandibola, come faceva Regin quando era nervosa.
– Cosa significa questo? Di tutti i posti dove sono stato, questo non lo conoscevo, è forse una colpa? – chiese quasi risentito il signor Dumont.
– La lasci parlare, è la figlia di Regin!
– Ma com’è possibile? Non può essere! – scattò in piedi, mostrando un’imprevedibile agilità.
–Mia madre era sempre in giro per concerti, ho vissuto con mio nonno fino a quando, maggiorenne, ho deciso di cercare il mio passato. Non ha voluto che conoscessi il nome di mio padre, diceva che poteva essere morto o che non voleva sapere niente di me, che poi è la stessa cosa.
– Non è così, ti assicuro! Non sapevo che Regin aspettasse un bambino, mi sarei occupato di te anche se tu non fossi stata figlia mia!
Come se non avesse ascoltato, Karim continuò: – Mia madre, poco prima di morire, ha deposto tre croci sulla collina con i vostri nomi e così le ho chiesto chi foste e cosa era successo. Quando è morta, per un male incurabile, ho pianto meditando vendetta.
È stato semplice farmi assumere dall’uomo che aveva arbitrato la partita. Lo so, è assurdo, ma a distanza di tre anni non mi sbagliavo!
Un sorriso compiaciuto le illuminò il viso, quando continuò:
– Avrei potuto aspettare tutta la vita il vostro incontro, ho giocato contro l'assurdo, l'imprevedibile, l'inaspettato e incredibilmente ho vinto. Ho imparato, dal gioco degli scacchi, ad avere pazienza, a prevedere la mossa dell’avversario con freddezza, distacco, superiorità. Perché con gli errori degli altri si vince, non è vero, signor Pettersen?
Sentir pronunciare il suo nome dalla ragazza gli procurò un brivido lungo la schiena.
– Siamo tutte pedine della stessa partita, ma nessuno considera mai i pezzi insignificanti. Anche un pedone può essere promosso e dare scacco matto al re, se c'è la regina che gli copre le spalle, – rise, ma di una risata amara, piena di rancore.
Senza aspettare repliche si avvicinò alla scrivania. In una mano teneva la foto. Nell' altra stringeva una chiave con cui aprì la bacheca. Alzando il vetro, contrasse appena la mandibola. Sollevò con delicatezza la scacchiera in legno e i piccoli pezzi in avorio.
Era un esemplare unico. Si fermò a guardarlo, con gentilezza quasi avesse timore di sciuparlo. Dalla libreria prese la valigetta, che sembrava fatta apposta per contenerla, e dispose ogni cosa con cura.– Ma cosa fai?
Voltandosi e inchiodandoli entrambi con lo sguardo disse: – È appartenuta a Dante Alighieri, il poeta! Spolverare fa venire alla luce molte sorprese. Anche lui giocava a scacchi, con il suo amico Cavalcanti. Dicevano fosse perduta, smarrita chi sa dove, ma la certificazione che l’accompagna non mente. Non so come lei, signor Dumont, sia entrato in possesso e non mi interessa. Ho deciso che mi appartiene! Un risarcimento per le mie sofferenze? Chiamiamolo così!
– Non ti permetto di…
– La lasci fare, – lo bloccò Pettersen, tenendolo per un braccio, – non ha sentito quello che ha detto? Il giusto risarcimento a tutta la sofferenza subita. Accetti anche lei, come me, la sconfitta.
Karim chiuse con uno scatto metallico la valigetta. Senza voltarsi uscì dal salotto e, accompagnata dal ticchettio delle scarpe, chiuse dietro di sé la porta di casa.