Arina, dall’età ben nascosta da rughe profonde, sospirò sconsolata: la cesta dei gomitoli era quasi vuota; ne erano rimasti solo di piccoli, colorati ma inservibili nella loro pochezza, ricordi di quando le affidavano maglioni e golfini da riportare con pazienza a nuova vita. Da tempo non accadeva più: brutto segno scordarsi dei giorni in cui il poco, ora buttato con noncuranza, era tanto.
Si sedette accanto alla finestra e, un nodo dopo l’altro, ne ricavò un bel gomitolo.
Aspettando.
Aspettando che il marito, Nikolas, tornasse dal giro solitario da cui era stata bruscamente esclusa; che il gomitolo le suggerisse uno spunto per quell’arcobaleno di colori. Che il calendario appeso alla parete le prevedesse un futuro che non somigliasse troppo al passato.
Nikolas tornò dopo un paio d’ore, molto stanco e si appisolò sul divano, senza dire una parola.
Brutto segno.
Il pomeriggio si fece sera. Arina coprì il suo uomo con un plaid e una carezza, poi rimase per lunghi minuti alla finestra: un tramonto dai colori intensi faceva da sfondo a una collinetta scura e inquietante, cenni di pendii bordati non da chiome di alberi rigogliosi ma dalle sagome di migliaia di croci.
Il rosso del tramonto e il nero delle croci la fecero rabbrividire.
Le venne in aiuto il gomitolo, con l’idea di una copertina per le ginocchia di Olga che, incurante delle stagioni, vendeva rosari e croci di plastica ai piedi della collina.
La sera si fece notte: il buio si riempì del bisbigliare di mille croci portato dal vento. Brutto segno.
Quella stessa notte, a Roma, monsignor Damien Adelmi, fresco di nomina presso uno dei dicasteri vaticani, venne convocato con urgenza dal cardinal Bortsky, il cardinale segreto creato dal Papa poche settimane prima. Per tutti solo una delle tante eminenze cui inchinarsi.
La perplessità per quell’incontro notturno si trasformò ben presto in ansia:
«Il cardinale è molto irritato quindi sarà di poche parole. Lei ascolti, non replichi e obbedisca.»
Suor Enza aveva preparato con cura il salotto blu: a dispetto della raffinatezza dell’ambiente aveva sentore che per Adelmi non sarebbe stato un incontro gradevole.
La stanza era calda e un intenso profumo di gigli non bastava a coprire l’odore di vecchiaia che emanava da una figura seduta su una poltrona, davanti al camino. Un paio di lampade accese affidavano all’ombra il viso dell’uomo. Gli arredi erano lussuosi: tendaggi e tappezzerie di seta, una coppia di tansu custodiva figurine d’avorio di fattura giapponese e volumetti finemente rilegati, mentre ciotole di fine porcellana erano allineate su mensole di cristallo. Opulenza che trasmetteva distanza.
Il cardinale fu davvero di poche e taglienti parole.
«Come ha devotamente suggerito l’amico Sladkevičius, il Papa l’anno prossimo deve andare in Lituania. Di questa faccenda» un foglio passò di mano, «si occuperà il Saggio. Non importa chi sia: lui parlerà, lei ascolterà e ci riferirà. Nient’altro. Quanto tutto sarà finito, niente sarà accaduto. Legga e poi lo bruci.»
Damien passò venti minuti sotto la doccia cercando di togliersi di dosso l’odore del vecchio.
La valigia gli era già stata preparata.
Anche al maggiore Iskra Rybalko, nelle stesse ore, assieme ai dettagli di un incarico per lei molto insolito, fu consigliato di non porre domande che non avrebbero avuto risposta. Non importava chi fosse l’uomo, di certo uso al comando, che la ricevette in una dacia nascosta nella foresta, a più di due ore da Mosca.
Ebbe la certezza che di quel colloquio non sarebbe rimasta traccia:
«Penso che le sia chiara la delicatezza della questione, ma quale che sia la decisione del Saggio, verrà accettata da tutti. Questo», le allungò un paio di fogli, «è quanto ci è dato sapere su quest’uomo: troppo poco per avere sentore del suo reale potere. Preferisco non sapere altro, e le consiglio di fare altrettanto. Al suo ritorno, scorderemo tutto.»
Ogni cosa era già stata organizzata per consentirle di partire subito: come sempre un rifiuto non era contemplato.
«Arina, sarà l’ultima volta. Promesso.»
«Come le altre ultime volte? Quando i tuoi amici si decideranno a lasciarti in pace? Hai ottant’anni e… ah, fiato sprecato! Vecchio testardo!»
Arina pulì da cima a fondo una casa già pulita: Nikolas pensò fosse meglio occuparsi dell’orto e dei suoi libri.
Arina però aveva ragione: perché un vecchio professore avrebbe dovuto occuparsi di una faccenda così spinosa, quando c’era chi di dovere? Solo perché era stato buon amico e consigliere di Sladkevičius nei difficili anni del suo arresto? O forse per quella storia che lo legava al Movimento dei Combattenti e alla Dichiarazione del destino della Lituania? O per tutto il resto?
Ma Nikolas era stanco di avere una doppia vita: il Saggio, ora, doveva essere saggio per sé stesso.
Iskra e Damien si incontrarono ai piedi di Kryžių Kalnas: fu per entrambi una grande sorpresa che nascosero tra le pieghe di fredde presentazioni ufficiali.
La loro storia, breve ma intensa, era lontana nel tempo.
Si avviarono sul sentiero principale, assieme a pellegrini che bisbigliavano preghiere e turisti che scattavano foto, parlando sottovoce. Nonostante la bella giornata di fine settembre, l’atmosfera era tetra.
«Da due giorni mi sto chiedendo quali siano le vere ragioni di questo incontro. Davvero, Damien, un vecchio professore avrà l’ultima parola su una questione così grave? Ah, mi suona irrazionale. Tu cosa sai?» Iskra era abituata ad andare oltre le apparenze.
«Troppo poco per averne un’idea chiara. Forse tu ne sai di più su chi è il Saggio.»
«Solo a grandi linee, è una figura molto nebulosa. Insegnava all’università, in alcune occasioni deve essere intervenuto in fatti rilevanti, ma a che livello è top secret. Ritengo sia una sorta di mediatore, molto in gamba e che goda di parecchia stima.»
«Stima è dir poco. Quello che mi sto chiedendo è perché io? Tu magari, nella tua posizione, ma io? Fino a due mesi fa ero dall’altra parte del mondo.» Adelmi era ancora più perplesso.
«E ci stavi bene, in Australia?»
Che lei sapesse non lo sorprese
«Molto. È un mondo semplice e al contempo complesso. Gli aborigeni… penso che la loro fede, quale che sia il Dio in cui credono, sia più forte della mia. Sai dove mi hanno portato? Su Uluru, la roccia sacra: sono rimasto lassù diversi giorni, da solo, e soprattutto di notte, sotto cieli che non ti puoi immaginare, mi sentivo forte, più sereno. È stato pazzesco. Quello che c’è stato tra di noi, adesso è ben riposto nel cuore. Scusa…»
«Tranquillo, ho avuto anch’io la mia roccia.»
Proseguirono in silenzio fino alla casa del Saggio: modesta, orto e giardino mescolati tra loro, un gatto sulla porta. Nikolas li accolse con semplicità, Arina sospettosa e vigile.
Entrarono in una stanza dalla cui finestra si poteva vedere la collina. Per Damine fu un déjà-vu: il salotto di zia Irma! Un divano e due poltrone dalle fodere a fiori, un tavolino col ripiano di finto marmo, una vetrinetta per ninnoli e foto. Le stampe di nature morte erano simili a quelle che suo zio incorniciava con cura. In un angolo un mobile con un vecchio televisore, sotto la finestra una panca e un cesto con un gomitolo. C’era profumo di cera e di lavanda, di ospitalità.
Per Iskra era solo una stanza, forse la più presentabile.
«Accomodatevi, prego: giusto in tempo per la partita!»
«Noi saremmo qui per ben altro.»
«Oh, c’è tempo! Sapete come si dice: c’è più tempo che vita! Capisco la vostra fretta, ma gioca la Polonia e non la voglio perdere: magari anche il Papa sarà davanti alla tivù, in ritiro spirituale.»
Nikolas, ridendo di gusto, accese la tivù poi si sistemò su una poltrona: mentre gli inni nazionali riempivano lo stadio, accese la pipa, con calma:
«Sapete, mi piace seguire una partita dal punto di vista dell’arbitro: calcio, hockey, rugby… mi va bene tutto. Mi sono sempre piaciuti i regolamenti. Più numerose, piccole e arbitrarie sono le regole, più mi piace sguazzarci.»
«Quindi lei sarebbe un arbitro?» Damien si stava facendo un’idea. Pazzesca.
«Sì, direi di sì, nel significato meno sportivo del termine.»
Col lancio della monetina Arina iniziò a sferruzzare, velocemente.
«Polonia contro Turchia, ma più delle squadre mi interessa quello che corre come un dannato con orologio, fischietto, cartellini… forse la persona più in ansia in campo, colui che spera sempre di non prendere la peggiore delle decisioni: quella sbagliata. Per i tifosi, ovviamente! Oggi arbitra Merk, uno dei migliori.»
Damien diede voce a uno sguardo di Iskra:
«Quindi noi saremmo le squadre?»
Nikolas non li degnò di una risposta: aveva abbassato al minimo il volume e commentava a modo suo il gioco, a mezza voce, gesticolando; il gomitolo calava.
«Almeno può dirci perché noi?» Iskra voleva togliersi dei dubbi.
«Destino.» Li ricordava giovani e alle prese con una storia senza futuro che era ancora lì, tra loro. Per i due era invece uno sconosciuto: l’innata capacità di passare inosservato lo aveva sempre aiutato.
Con un gesto brusco, il vecchio li zittì: in campo il gioco era fermo e Merk stava discutendo con due giocatori.
La situazione era imbarazzante: Iskra detestava il calcio, a Damien piaceva ma non riusciva a concentrarsi. Improvvisamente Nikolas si girò, prendendoli alla sprovvista con una voce vibrante e profonda:
«Avete visto quante croci grandi, di ferro lavorato ad arte? Ma è altrettanto grande la fede di chi le ha portate? Una minuscola croce di legno, due legnetti legati con un po’ di spago vale meno, per Dio?»
Istintivamente i due si girarono verso la finestra, interdetti.
Il tempo di un fuorigioco, e li mise alla prova, come studenti:
«Maggiore, cosa sa di Kryžių Kalnas? Se l’hanno resa edotta. E lei, Adelmi?»
Le croci come simbolo di fertilità o per ricordare i tanti morti delle guerre che avevano insanguinato quelle terre: Iskra si sentì messa all’angolo quando si arrivò ai tentativi sovietici di spianare la collina, con ruspe e bulldozer. Ma le croci tornavano, sempre: la notizia, falsa, di un’epidemia di tifo o la minaccia di un arresto non scoraggiavano i credenti. I sovietici avevano perfino progettato di provocare inondazioni nella zona per impedirne l’accesso.
Merk era padrone del campo e Nikolas restò in silenzio.
Lui c’era nel ’61 e nel ’72, quando le ruspe abbatterono migliaia di croci: quelle di legno e plastica bruciate lì sul posto, quelle di ferro inviate in fonderia. Inutile: di lì a qualche giorno, la terra smossa ne aveva accolte altre.
Era ancora molto vivo in lui il ricordo degli estenuanti confronti con i popi ortodossi, che pressavano Mosca per la distruzione di quel luogo di preghiera.
Sperò, adesso, in parole giuste.
«Dai Iskra, lo sai bene che non è certo spianando una collina, o abbattendo chiese o simboli che la gente smette di credere, quale che sia il credo!»
Damien si era alzato, ma il salotto era troppo piccolo per i passi di cui aveva bisogno.
«Le croci tornerebbero.»
La serata continuò così, in modo surreale, assurdo: il Saggio faceva il tifo per Merk e come Arina temeva, appena gli ospiti si rilassavano un po’, tornava alla carica. Un gioco che funzionava sempre, lo aveva visto fare tante volte, ma in questo caso non aveva senso.
“Basta, finiscila! Dì loro la verità e lasciali soli.”
«E voi, monsignore, pensate che le migliaia di croci rappresentino una forza per il Vaticano?»
«Non sta a me dirlo: chi crede prega ovunque, ma un luogo che raccolga il dolore o la serenità di una preghiera va rispettato. Mi sto chiedendo perché riprovarci adesso?»
Anche Iskra era perplessa: «Anche per me resta un mistero. Non è trapelato nulla finora, ma è un periodo così caotico che, mi spiace dirlo, anche i pazzi paiono savi.»
«Voi siete destinati ad andarvene dalla Lituania, lo so io e lo sa anche lei, ma prima volete colpire il nostro popolo nel profondo.» Poche parole e tanta amarezza.
Damien recuperò il gomitolo, sfuggito ad Arina:
«Servirebbe? No. Sarebbe un autogol clamoroso, oltre che estremamente dannoso, con la visita del Papa ormai decisa. Troppo scalpore, lì sotto gli occhi del mondo.»
La Polonia segnò, e Nikolas, indifferente al silenzio imbarazzato che era sceso, continuò la sua telecronaca arbitrale e li ignorò.
Il tempo passava e Iskra e Damien erano sempre più sulle spine.
Quando mancavano pochi minuti alla fine della partita, Iskra perse la poca pazienza che le era rimasta:
«Senta, saggio o non saggio, che ne direbbe se la chiudessimo ‘sta commedia? Un militare di basso rango, un monsignore tra tanti, scusami Damien, ma non un diplomatico, vengono qui per ritirare una missiva che poteva inviare in mille altri modi e ci guardiamo una partita? Che poi non gioca neanche la Lituania! Scusi, ma faccio molta fatica a comprendere. E la cosa non mi piace.»
«Concordo, magari si è pure divertito ad ascoltare le nostre frasi fatte, gli scampoli di storia annotati su foglietti, come studentelli. Ma siamo adulti e non sprovveduti. Io penso che la decisione, nel bene o nel male, sia già stata presa, da lei, e già comunicata. E non do per scontato che non sia la peggiore: mi spiace dirlo, ma di intrighi alle spalle della povera gente è piena la storia. E, prima che lo dica lei, Nikolas, so bene che anche la Chiesa ha avuto i suoi momenti oscuri, inutile negarlo. Quindi…»
«Quindi cosa ci facciamo qui? In questo salotto cui mancano solo le foderine di plastica. Scusi Arina, non intendevo offendere ma mia madre non le ha mai tolte e le detestavo.»
Nikolas spense la tivù e ascoltò con attenzione i ragionamenti di Iskra.
«Semplifico troppo se dico che lei aveva bisogno di far credere che si fossero colloqui in corso, qui, oggi? Belli i due sprovveduti venduti come eminenze grigie! E chi è lei, realmente?»
«Avete ragione, è ora di chiudere. Quanto al chi sono, non è poi importante: vi basti sapere che non è la prima volta che devo fare da mediatore in affari… spinosi, nell’ombra ovviamente. Spero sia l’ultimo, il mio pezzetto di eternità è agli sgoccioli.»
Arina nel frattempo aveva servito bevande e panini e Iskra, forse per farsi perdonare la frase di prima, l’aiutò.
«Maggiore, Iskra, lei ha colto la sottigliezza della questione. Cosa direbbe il mondo se invece che ai tavoli ufficiali, la questione l’avesse risolta un vecchio professore, nel salotto di casa? Che poi Roma difficilmente avrebbe potuto sedersi a quei tavoli. Quindi hanno riesumato il vecchio Nikolaus, il Saggio. E i saggi usano del semplice buon senso, quando le regole sono troppo complicate e nessuno vuol cedere.»
Il gomitolo era finito, e Arina ripose il lavoro nel cesto.
«Quale che sia la mia conclusione, non è né una vittoria né una sconfitta e, sottilmente, neanche un pareggio. Rinunciare ad abbattere le croci non è una sconfitta, vederne sempre di nuove non è una vittoria, anche se qualcuno asservito al potere ci vedrà esattamente il contrario. Ma a chi prega un morto non interessa chi ha vinto o chi ha perso: soffre. Qualcuno maledice un nemico mostrando una croce, ma la croce non porta sollievo nella vendetta.»
«È questo è quanto dovremo riferire? Del semplice buon senso? Accipicchia!» Damien già si immaginava al cospetto di Bortsky.
«Quanto a voi, non prendetela su personale, anzi. È vero, c’era bisogno di persone che mi incontrassero, due se vogliamo simboli che rappresentino le parti più direttamente interessate, con la capacità di confrontarsi, ma non certamente di poter mettere in discussione una scelta già effettuata. Lo so, è una farsa che non è piaciuto neanche a me accettare.
Voi siete una semplice garanzia: che quello che ho già detto ai vostri referenti sia da voi confermata: la fiducia non era contemplata. Siete la garanzia che nessuno barerà e vi ho scelti espressamente, perché vi ho conosciuti in passato, e la vostra onestà intellettuale era quello di cui avevo bisogno.»
L’ultima frase passò inosservata.
«Cioè due pedine che, se le cose non girano bene, possono sparire senza clamore, come lei d’altronde. Sempre per via degli intrighi.» C’era amarezza in Iskra, che sapeva come erano pericolosi certi ambienti.
«No, non sarete mai in pericolo: ve lo posso garantire. Ci sono segreti che rimangono tali. Come la vostra storia.»
Altro da dire non c’era. Uscirono in giardino: la notte era luminosa e ricca, il plenilunio profumava di fieno, da qualche parte risuonò, limpido, il rintocco di una campana che fece da contrappunto al coro di grilli.
Le candele sulla collina parevano lucciole impazienti di spiccare il volo.
Il Saggio osservò con tristezza le due figure percorrere il viottolo che li avrebbe portati sulla collina, oltre la quale, nell’ombra, c’erano persone in attesa.
Irina e Damien ripercorsero silenziosamente il sentiero di poche ore prima, illuminato dalla luna piena. Una piccola croce, due legnetti legati con uno spago, passò di mano. Fingendo, per occhi curiosi, di raccoglierla da terra, l’uomo la baciò e l’appese con cura a una delle tante croci.
Arina e Nikolas si ritrovarono in salotto, stanchi ma sollevati.
Nessuno avrebbe spianato Kryžių Kalnas: altre croci si sarebbero aggiunte. Il Papa, l’anno dopo, ne avrebbe donata di certo una grande, monumentale, magari sistemata all’inizio dei sentieri, dove tutti potessero ammirarla.
“Ma sarebbe stata più potente di una croce semplice, magari da poco?” si chiese mestamente Nikolas.
Niente coperta per Olga: il gomitolo non era bastato. Il giorno dopo Arina disfece il lavoro e avviò i punti per una sciarpa, ultima vita per il gomitolo.
Non avrebbe comprato lana nuova né rimesso a nuovo golfini.
Il Saggio si ripromise di non aprire più la porta del suo salotto ai potenti.