Il senso del provvisorio
Conobbi Sasha in quinta elementare.
La mattina del primo giorno di scuola persi tempo a convincere il mio fratellino Luigi, perché lui non aveva la minima voglia di rinchiudersi in un’aula, dopo tre mesi di assoluta libertà.
Come temevo, quando entrai, buon ultimo, nella mia classe, il banco che era stato mio per quattro anni era già occupato.
Sistemai la cartella e mi presentai al nuovo compagno:
– Ciao, io mi chiamo Simone, e tu?
– Io sono Sasha, e vengo da Ucraina. – Rispose sorridendo.
– Ucraina?
– Ucraina è grande paese, – aggiunse, – laggiù scoppiano fuochi terribili!
La maestra aveva iniziato l’appello, e dovetti rimandare le mie curiosità.
Il giorno seguente la maestra mi chiese:
– Sei contento d’aver cambiato compagno di banco?
– Si! – affermai, – è divertente ascoltare la sua buffa parlata!
– A proposito, – proseguì lei, – ti andrebbe di aiutarlo a migliorare il suo italiano?
– Si! – annuii arrossendo, – ma...
– Bravo Simone, sapevo di poter contare su di te.
Fu così che, nei pomeriggi liberi da lezioni, Sasha arrivava su una vecchia bicicletta e saliva le scale fischiettando. Per un po’ si giocava a scarabeo o a monopoli, poi leggevamo una storia da un libro d’avventure, o facevamo a gara nel risolvere problemini di matematica.
Alle cinque entrava mamma Linda con i biscotti e la cioccolata, che consumavamo in un lampo, impazienti di unirci ai ragazzini che giocavano a calcio già da un paio d’ore.
Sasha aveva il viso pieno di lentiggini e un ciuffo ribelle di capelli rossicci, ma la sua corsa era potente e generosa. Con il piede mancino batteva punizioni memorabili e diventò da subito l’ala sinistra titolare della nostra squadra.
Quando, alla fine delle lezioni, lo accompagnavo verso casa, regolarmente sua madre m’invitava a salire.
– Come stai Simone? E dimmi: Sasha studia? – mi chiedeva premurosa, porgendomi un vassoio di caramelle e pasticcini. Sasha era figlio unico, ed era contenta che avesse trovato un amichetto, quasi si sentisse in colpa per la mancanza di un fratellino a tenergli compagnia.
Un giorno la mamma di Sasha mi informò sul perché era emigrata in Italia. Poco prima che Sasha nascesse, nella centrale nucleare era accaduto un tremendo incidente con molti morti. Suo marito, che là vi lavorava, non aveva subito conseguenze, ma le radiazioni sono un nemico inesorabile e presto apparvero i sintomi di un tumore maligno. Condannato a morte certa, aveva strappato alla moglie la promessa d’abbandonare l’Ucraina appena possibile, portando con sé il loro bambino. Un’associazione le aveva offerto di trasferirsi in Italia. Prima a Vicenza e poi a Varese, sempre lavorando come domestica.
Non so quanto Sasha fosse felice lontano dal suo paese. Solo da adulto ho capito, mio malgrado, quanto il senso del provvisorio sia parte indissolubile delle nostre vite.
Gli anni volarono veloci e il mondo spensierato della scuola era alle spalle.
Sasha si era fatto più serio, ma sempre mi salutava con un pugno poderoso sulla spalla.
– Ciao Simone, vecchia roccia! – e scoppiava in una risata fragorosa.
Alle porte dell’età adulta faticavamo sempre più a riconoscerci.
Sasha era il mio migliore amico, e lo sarebbe sempre stato, ma affrontavamo responsabilità ignote e impegnative, lungo sentieri insidiosi. Anche i nostri discorsi non erano più gli stessi: io parlavo di motori, lui di una comunità nel suo lontano paese. Perfino l’argomento ragazze era diventato un tabù. A stento riuscivamo a commentare i mutamenti di qualche ex compagna:
– Hai visto Daniela, com’è cambiata?
– Già, ma se la incroci per strada, fa finta di non conoscerti!
Appassionato di meccanica, trovai lavoro nella locale officina Fiat. Ero a mio agio solo con le mani affondate nei motori o sdraiato sotto le viscere di un’automobile, a indagarne segreti e guasti misteriosi.
Nel frattempo anche Sasha aveva preso la patente, e conoscendo le sue difficoltà economiche, gli avevo suggerito un’Alfetta usata, rimessa a nuovo da me: un’opera d’arte che mi riempiva di soddisfazione.
Altri anni erano volati.
Quella sera mi ero attardato in officina, quando arrivò una telefonata.
– È successa una cosa, Simone... – la voce rotta dall’emozione era di mio fratello Luigi.
– Ma che cosa, me lo vuoi dire?
– Forse è m...meglio che torni a casa, p...prima.
– No, me lo devi dire subito, hai capito?
– Si tratta di Sasha. Era sceso in garage e...
– E?
– L’hanno trovato lì, col motore ancora acceso.
Non ci credevo. Non poteva essere vero. Così pensavo, correndo a casa di Sasha. Era morto per sbaglio, per una futilità, per leggerezza; forse per quel suo modo di ridere e di dire:
– Ma sì, cosa vuoi che succeda?
Purtroppo l’orribile dubbio che avesse deciso quel folle gesto dopo aver saputo d’essere malato di cancro, come suo padre, non mi ha mai lasciato.
Rivedo la madre affranta: le sue lacrime inarrestabili e il tremore incontrollato delle mie mani, mentre tentavo invano di consolarla.
Penso spesso a Sasha, alla sua morte assurda, ai suoi progetti ambiziosi, alle speranze che la madre riponeva nell’unica ragione della sua vita.
Una parte della mia giovinezza ha terminato di respirare insieme con lui, di colpo, tra quelle esalazioni maledette.
Sasha voleva vivere, è questo che non mi darà mai pace.
Ogni tanto lo vado a trovare. D’inverno scosto la neve per scoprire il suo sorriso. Allora ricordo le sue risa sguaiate, i capelli eternamente arruffati, e rido con lui, anche se amaro.
Per un lungo istante odo la sua voce allegra, trasportata da uno sbuffo di tramontana che solleva dalle lapidi gli ultimi fiocchi caduti; il mazzo di fiori si agita nella mia mano e mi affretto a sistemarlo nel vaso davanti alla foto. Sasha è sempre lì, ha vent’anni come allora, ne avrà sempre venti, e nessuno potrà mai cancellare quel sorriso... quei capelli al vento.
Mentre mi allontano, si fa più acuto il tormento per essere rimasto qui tra i vivi, dove lui non è più, e mi pare di sentirlo ripetere, ancora una volta:
– Non te la prendere, Simone, non è stata colpa tua.
Ultima modifica di almarc il Sab Mar 18, 2023 8:53 pm - modificato 1 volta.