«Questa è l’ultima settimana, tienilo a mente!»
Sir Richard Worley uscì sbattendo la porta, senza aspettare una replica che Frederick comunque non avrebbe avuto il coraggio di fare.
Dall’alto dei suoi tre metri, la giraffa che accoglieva gli avventori all’ingresso della sala soffiò un getto di vapore dalle narici, in segno di disapprovazione.
Frederick si abbandonò sulla sedia della cucina, guardando quella serie di ingranaggi, di leve, di valvole e di tubi lucidi che si intersecavano in ogni direzione. La luce del sole, filtrata dai vivaci colori dalla grande vetrata, si rifletteva in mille stelline su quegli accrocchi lucidi come specchi. La speranza che quell’opera di ingegno potesse inviargli qualche idea su come fare cambiare idea a quell’arrogante personaggio durò solo qualche minuto. Poi gli occhi si chiusero, spossati e amareggiati.
«Dobbiamo pensare a qualcosa: una soluzione dovrà pur esserci!»
La voce di Dafne lo risvegliò da quell’insano torpore. Non l’aveva sentita entrare: doveva essere lì da un pezzo e avere assistito alla scena di nascosto.
La ragazza si mosse con insospettata leggerezza tra pulegge e nastri trasportatori, fino a raggiungere Frederick.
«Come prima cosa mi devi ricaricare la bombola», gli disse sorridendo «… e magari oliare un po’ il perno al ginocchio: non me lo sento a posto ultimamente.»
L’uomo la guardò con affetto: «Ah, se non ci fossi tu?»
Prese il piccolo serbatoio in rame che la ragazza teneva a tracolla, avvitò un tubo flessibile per collegare il bocchello alla caldaia e aprì la valvola finché il manometro non indicò che la ricarica era terminata.
«Da quanto lavori con me?»
«Sono quasi due anni… qui in cucina! Ma in fabbrica ho iniziato che avevo appena quattordici anni, subito dopo che sono morti i miei». Un pensiero di tristezza le era comparso negli occhi: non poteva dimenticare quanto le era successo. Anche l’uomo se ne accorse ma preferì far finta di niente: Dafne non aveva voluto parlare con nessuno dell’incidente.
«Siediti qui e lasciami lavorare». Le staccò le protesi, una alla volta. Rame, legno, ferro: pesavano parecchio e se non fosse stato per la bombola a vapore sarebbe stato impossibile camminare con naturalezza. Iniziò a muovere le articolazioni tendendo l’orecchio per capire da dove arrivasse quello strano cigolio. Prese la cassetta con gli attrezzi, quelli per i lavori di fino: «Fai silenzio, ci vorrà un po’.»
La ragazza continuò, incurante della raccomandazione. «Ma è vero che tutto questo l’ha costruito tuo nonno?»
«No, era il mio bisnonno, Federico Chiesa, da cui ho ereditato il nome. Lord Byron l’aveva incontrato in uno dei suoi viaggi in Italia ed era rimasto affascinato dagli automi che il mio bisnonno aveva costruito. Nel suo laboratorio si potevano ammirare manichini a dimensioni naturali che si muovevano con equilibri di pesi, carrucole e cariche a molla. Utilizzava ogni genere di materiale, dal ferro fino al cristallo, per creare effetti sorprendenti. Aveva voluto tornasse con lui in Inghilterra, per fargli conoscere un suo amico, Sir Charles Babbage. Era sicuro i due, insieme avrebbero potuto fare cose strabilianti. Oltretutto qui in Inghilterra si cominciava a utilizzare vapore ad alta pressione anziché le sole molle, che andavano continuamente ricaricate.»
«E com’è entrata in gioco la Worley Cotton Enterprise?»
«Sai, Babbage era un autentico genio della matematica e aveva ideato una macchina differenziale, un marchingegno di meccanismi e ingranaggi che permetteva di fare calcoli complessi. Ma aveva bisogno di un mastro meccanico per realizzarla e il mio bisnonno era la persona giusta. I due però non potevano permettersi di investire grosse somme di denaro in questi progetti, per cui Byron li presentò a Sir Richard Worley.»
«… il nonno del Richard Worley di oggi?»
«Esatto, ma con due caratteri da far dubitare possa scorrere una goccia dello stesso sangue nelle loro vene! Oggi ci rimane solo un giovane presuntuoso e impertinente… se solo penso che mia nonna è stata la sua madrina di battesimo e quando era piccolo lo teneva a giocare sulle ginocchia!»
Dopo un profondo sospiro proseguì: «Sir Worley costruì la fabbrica qui, dove l’Irwell sfocia nel Mersey. Non c’era nulla tra Manchester e Liverpool prima che nascessi tu: fu lui a edificare il villaggio per i lavoratori, la chiesa, la scuola. Ma la meccanica era la sua passione e voleva fare costruire qualcosa di innovativo e sorprendente. Così diede al mio bisnonno l’incarico di creare una mensa, con una cucina automatizzata, che desse ogni giorno a ciascuno i cibi di cui aveva necessità. Si avvalse del suo amico Charles Babbage e di molti altri, esperti nei campi più disparati. Ci vollero quasi cinque anni di lavoro, ma alla fine… ecco il risultato!»
«E tuo nonno?»
«Mio nonno non era un meccanico così raffinato come suo padre ma, a parte cambiare in inglese il nostro cognome, ebbe il merito di realizzare la giraffa, l’automa più originale che mente umana potesse immaginare.»
«Vero! Non riesco a capire come possa ogni giorno sapere cosa vorrei mangiare per pranzo, ma in realtà devo riconoscere che indovina sempre.»
«Questo è merito di mia nonna, da sempre appassionata di pietre e di gemme. Aveva capito che alcuni materiali possiedono un proprio campo energetico. Qualsiasi fenomeno naturale è accompagnato dall’emissione o dall’assorbimento di energia sotto forma di luce, calore o radiazioni, che possono essere incanalati dagli straordinari poteri delle gemme.»
«Guarda gli occhi della giraffa,» proseguì Frederick armeggiando ancora con le protesi, «sono due pietre di acquamarina: attivano il Chakra della Gola facilitando così una perfetta comunicazione con propria interiorità. In mezzo alla fronte, in quello che viene chiamato il Terzo Occhio, ha incastonato un cristallo di selenite: è una porta per l’universo, la sorgente della fede e della spiritualità. Nel corpo della giraffa è stata collocata la nuova macchina analitica progettata da Sir Charles Babbage, molto più sofisticata della precedente, che è in grado di interpretare le interazioni tra la luce che filtra attraverso le pietre e le vibrazioni del corpo umano.»
«E io, credevo fosse solo un gioco, un divertente intrattenimento, senza comprendere la complessità nascosta dietro quel simpatico automa.»
In effetti ogni giorno il rituale, per Dafne e le altre centinaia di lavoratori, durava solo qualche secondo. Si appoggiava la mano sopra un oblò posto sul fianco dell’animale e si premeva leggermente: la giraffa apriva gli occhi filtrando i raggi di luce che, riflessi da un articolato gioco di specchi interni, raggiungevano il recettore ottico della macchina di Babbage, facendolo vibrare in sintonia con le pulsazioni della mano appoggiata al vetro. A questo punto la giraffa, con un inchino, abbassava il collo e apriva la bocca, restituendo una piccola scheda di rame sottile, con una miriade di minuscoli puntini in rilievo.
Fatti pochi passi verso la cucina, si inseriva la scheda in una fessura: ruote dentate iniziavano a girare, carrellini con vassoi, in piena autonomia, si spostavano da un lato all’altro della cucina trasportando, ortaggi, uova, latte, patate e ogni altro genere di alimenti, pronti ad essere amalgamati, tagliati o sminuzzati da lame affilatissime. Pentole e padelle volteggiavano all’apparenza incontrollate sopra fuochi e getti di vapore. La grossa caldaia al centro regolava ogni movimento, inviando l’energia fino nei punti più remoti dell’enorme cucina.
«Ecco: finito! Tirati su e dimmi un po’ come le senti.»
Dafne iniziò a muoversi, prima con circospezione poi via via più sciolta e rapida. «Come nuove. Frederick Church, lo sai che non potrò mai ringraziarti abbastanza.»
«Il sorriso i tuoi occhi è il più bel ringraziamento che posso avere. Quando ti ho vista sulla sedia a rotelle, con quella malinconia sul tuo viso ho deciso che…” una lacrima gli scese a inumidire la barba. «Vederti muovere così leggera su quelle pesanti gambe è un vero miracolo.»
Dopo un attimo di imbarazzo, Dafne riprese: «E perché vuole chiudere la cucina?»
«La caldaia sottrae troppo vapore ed energia ai telai nell’opificio riducendone la produttività. Il cibo costa parecchie sterline al mese, e oltretutto crede che gli operai perderebbero meno tempo se si portassero un pasto frugale da casa, da consumare vicino ai telai. Anche se io sospetto ci sia sotto dell’altro.»
«Senti, ma Sir Worley è mai venuto a mangiare qui?»
«Ma figurati! Suo nonno, e anche suo padre venivano qui spesso, ma lui… non si vuole mischiare con gli operai.»
«Forse un’idea ce l’ho», disse Dafne con un lampo nello sguardo.
Stupida e arrogante quella ragazza, pensava Sir Worley sorseggiando un whisky nel suo studio.
Era venuta fin dentro casa sua, camminando su quelle gambe posticce, per farlo sentire in colpa?
«Io e lei sappiamo quello che è successo, Sir Worley», aveva detto. «La aspettiamo per pranzo, prima che prenda la decisione definitiva: almeno questo me lo deve!»
Cosa doveva lui? Cos’era quella, una minaccia? Ma sì, ci sarebbe andato: non per un senso di colpa, non per paura che la ragazza svelasse la sua verità, non per pietà, ma perché alla fine, chiudere quelle stupida cucina dopo aver esaudito la sua richiesta sarebbe stato ancora più gustoso. Distruggere definitivamente la vita di Dafne, ecco quello che avrebbe fatto.
Da quando Frederick le aveva ridato la possibilità di muoversi in libertà con quelle stupide protesi, era tornata più bella che mai. Le era tornato quel sorriso radioso che l’incidente e la sedia a rotella sembravano averle tolto per sempre.
E quel sorriso lo infastidiva, gli rodeva da dentro, ricordandogli che quella ragazza lo aveva respinto.
L’aveva notata mentre lavorava sui telai tra le altre operaie: Dafne aveva appena sedici anni, lui una decina di più. Era di una bellezza semplice, pulita, una di quelle bellezze che riflettono una virtù interiore: questo lo affascinava e allo stesso tempo lo infastidiva. Le aveva promesso una promozione, se fosse stata carina con lui. Gliel’aveva ripetuto più volte finché, stufo di non ricevere una risposta che lo aggradasse, una sera l’aveva raggiunta, approfittando del fatto che si era attardata al lavoro, per prendersi quello che riteneva suo.
L’aveva afferrata per i polsi, le aveva strappato il camice da lavoro. Ma quella ragazzina aveva mostrato una forza inaspettata. Si era divincolata, aveva indietreggiato: i lembi lacerati del vestito si erano impigliati tra gli ingranaggi del telaio, senza darle via di scampo. Quel macchinario le aveva maciullato le gambe prima che qualcuno fosse riuscito a intervenire.
Ma tutto ciò era colpa sua? No, e se anche lo fosse stata?
Quando entrò nella sala, qualche giorno dopo, il silenzio calò improvviso.
«Mr. Church, mi spieghi un po’ come funziona questo marchingegno», disse con sarcasmo avvicinandosi a quell’esotico animale in ferro ed ottone.
Premette l’oblò. La prima volta la giraffa non abbassò neppure il collo, la seconda aprì la bocca ma non ne uscì niente. Frederick, imbarazzato, diede una bella carica alla molla, armeggiando con la grossa chiave a farfalla che spuntava all’altezza della coda. Dopo un’attesa più lunga del solito, l’animale si appoggiò sulle ginocchia, chinò il collo e sputò la tessera in rame dalla bocca: poi però non fu più in grado di rialzarsi, torcendo malinconica la testa a destra e sinistra, prima che rimanesse bloccata in una posizione innaturale.
Gli operai guardavano di sottecchi, evitando per paura commenti o atteggiamenti che potessero essere fraintesi dal loro padrone.
«Sir Worley, mi scusi, deve essersi rotto qualcosa all’interno.»
Quest’ultimo non rispose neppure, limitando il suo disappunto a uno sguardo sprezzante.
«Ecco, ora deve inserire la tessera in questa fessura e…»
Non dovette spiegare altro. L’ago del manometro della caldaia ruotò rapido ad indicare che la pressione aumentava. Un fischio acuto seguito da un getto di vapore bollente diede inizio alle danze.
Sir Worley era rimasto impietrito di fronte al movimento di quella quantità di oggetti luccicanti, spinti da una forza oscura ma nella quale si intuiva un ordine ben stabilito.
Dafne, nascosta in cucina, osservava i frenetici movimenti che ben conosceva, sapendo perfettamente quale piatto il mostruoso meccanismo avrebbe preparato quel giorno.
Così, quando le lame iniziarono a tagliare i funghi per la zuppa, non le fu difficile far scivolare sul tagliere, tra gli ovuli e i porcini, due grosse amanite phalloides.
«Zuppa di funghi!» esclamò Sir Worley, «… ne avevo proprio voglia.»
Gli operai erano tornati ai propri posti di lavoro e la sala era ora completamente vuota. Si sedette a un tavolo, portando lentamente il cucchiaio alle labbra. «Ed è anche squisita», disse guardando verso Church con aria di sfida.
Finito, con un poco di mollica di pane raccolse dal piatto gli ultimi pezzetti di funghi.
Un flebile lamento, una mano allo stomaco, una smorfia di dolore gli impedirono di alzarsi.
Si versò dell’acqua e la bevve d’un fiato. Poi ancora. Poi ancora.
Strizzò gli occhi per il dolore: un crampo gli rimescolava le budella.
Perle di sudore colavano dalla fronte. Chiuse gli occhi, la testa riversa all’indietro: un sottile rivolo di bava bianca scorreva da un angolo della bocca.
«Dafne, chiama qualcuno. Penso stia male.»
«Penso sia tardi ormai, a me sembra morto». Lo disse stando in disparte, con tranquillità, come fosse preparata a questa incresciosa situazione. E lì, Frederick capì.
Si avvicinò con cautela al corpo, sollevò un braccio dell’uomo, lo lasciò ricadere con un tonfo sordo: era morto.
Che fare ora? Si diresse verso Dafne, quando la ragazza lo sorprese con un urlo di terrore: «Ma come… come è possibile… come ha fatto?».
Frederick si voltò giunto in tempo per vedere Sir Richard Worley, estrarre il fazzoletto dal taschino e ripulirsi il mento. Poi, appoggiate le mani al tavolo, si rimise in piedi: un ghigno sinistro aveva sostituito la maschera di dolore.
«Stupida smorfiosetta, non sai che anche la Regina Vittoria si avvale dei poteri di smeraldi e zaffiri per evitare eventuali tentativi di avvelenamento? Ridotti in polvere e mescolati con un po’ di latte, sono un antidoto efficacissimo.»
«Tutto merito di tua nonna», aggiunse voltandosi verso Frederick. «Dopotutto, ha insegnato qualcosa anche a me!»
Si diresse verso l’uscita, lasciando scivolare al suolo una piccola boccetta di vetro.
«Ah, dimenticavo, domani i miei uomini iniziano a sbaraccare tutto.»
Sir Richard Worley uscì sbattendo la porta, senza aspettare una replica che Frederick comunque non avrebbe avuto il coraggio di fare.
Dall’alto dei suoi tre metri, la giraffa che accoglieva gli avventori all’ingresso della sala soffiò un getto di vapore dalle narici, in segno di disapprovazione.
Frederick si abbandonò sulla sedia della cucina, guardando quella serie di ingranaggi, di leve, di valvole e di tubi lucidi che si intersecavano in ogni direzione. La luce del sole, filtrata dai vivaci colori dalla grande vetrata, si rifletteva in mille stelline su quegli accrocchi lucidi come specchi. La speranza che quell’opera di ingegno potesse inviargli qualche idea su come fare cambiare idea a quell’arrogante personaggio durò solo qualche minuto. Poi gli occhi si chiusero, spossati e amareggiati.
«Dobbiamo pensare a qualcosa: una soluzione dovrà pur esserci!»
La voce di Dafne lo risvegliò da quell’insano torpore. Non l’aveva sentita entrare: doveva essere lì da un pezzo e avere assistito alla scena di nascosto.
La ragazza si mosse con insospettata leggerezza tra pulegge e nastri trasportatori, fino a raggiungere Frederick.
«Come prima cosa mi devi ricaricare la bombola», gli disse sorridendo «… e magari oliare un po’ il perno al ginocchio: non me lo sento a posto ultimamente.»
L’uomo la guardò con affetto: «Ah, se non ci fossi tu?»
Prese il piccolo serbatoio in rame che la ragazza teneva a tracolla, avvitò un tubo flessibile per collegare il bocchello alla caldaia e aprì la valvola finché il manometro non indicò che la ricarica era terminata.
«Da quanto lavori con me?»
«Sono quasi due anni… qui in cucina! Ma in fabbrica ho iniziato che avevo appena quattordici anni, subito dopo che sono morti i miei». Un pensiero di tristezza le era comparso negli occhi: non poteva dimenticare quanto le era successo. Anche l’uomo se ne accorse ma preferì far finta di niente: Dafne non aveva voluto parlare con nessuno dell’incidente.
«Siediti qui e lasciami lavorare». Le staccò le protesi, una alla volta. Rame, legno, ferro: pesavano parecchio e se non fosse stato per la bombola a vapore sarebbe stato impossibile camminare con naturalezza. Iniziò a muovere le articolazioni tendendo l’orecchio per capire da dove arrivasse quello strano cigolio. Prese la cassetta con gli attrezzi, quelli per i lavori di fino: «Fai silenzio, ci vorrà un po’.»
La ragazza continuò, incurante della raccomandazione. «Ma è vero che tutto questo l’ha costruito tuo nonno?»
«No, era il mio bisnonno, Federico Chiesa, da cui ho ereditato il nome. Lord Byron l’aveva incontrato in uno dei suoi viaggi in Italia ed era rimasto affascinato dagli automi che il mio bisnonno aveva costruito. Nel suo laboratorio si potevano ammirare manichini a dimensioni naturali che si muovevano con equilibri di pesi, carrucole e cariche a molla. Utilizzava ogni genere di materiale, dal ferro fino al cristallo, per creare effetti sorprendenti. Aveva voluto tornasse con lui in Inghilterra, per fargli conoscere un suo amico, Sir Charles Babbage. Era sicuro i due, insieme avrebbero potuto fare cose strabilianti. Oltretutto qui in Inghilterra si cominciava a utilizzare vapore ad alta pressione anziché le sole molle, che andavano continuamente ricaricate.»
«E com’è entrata in gioco la Worley Cotton Enterprise?»
«Sai, Babbage era un autentico genio della matematica e aveva ideato una macchina differenziale, un marchingegno di meccanismi e ingranaggi che permetteva di fare calcoli complessi. Ma aveva bisogno di un mastro meccanico per realizzarla e il mio bisnonno era la persona giusta. I due però non potevano permettersi di investire grosse somme di denaro in questi progetti, per cui Byron li presentò a Sir Richard Worley.»
«… il nonno del Richard Worley di oggi?»
«Esatto, ma con due caratteri da far dubitare possa scorrere una goccia dello stesso sangue nelle loro vene! Oggi ci rimane solo un giovane presuntuoso e impertinente… se solo penso che mia nonna è stata la sua madrina di battesimo e quando era piccolo lo teneva a giocare sulle ginocchia!»
Dopo un profondo sospiro proseguì: «Sir Worley costruì la fabbrica qui, dove l’Irwell sfocia nel Mersey. Non c’era nulla tra Manchester e Liverpool prima che nascessi tu: fu lui a edificare il villaggio per i lavoratori, la chiesa, la scuola. Ma la meccanica era la sua passione e voleva fare costruire qualcosa di innovativo e sorprendente. Così diede al mio bisnonno l’incarico di creare una mensa, con una cucina automatizzata, che desse ogni giorno a ciascuno i cibi di cui aveva necessità. Si avvalse del suo amico Charles Babbage e di molti altri, esperti nei campi più disparati. Ci vollero quasi cinque anni di lavoro, ma alla fine… ecco il risultato!»
«E tuo nonno?»
«Mio nonno non era un meccanico così raffinato come suo padre ma, a parte cambiare in inglese il nostro cognome, ebbe il merito di realizzare la giraffa, l’automa più originale che mente umana potesse immaginare.»
«Vero! Non riesco a capire come possa ogni giorno sapere cosa vorrei mangiare per pranzo, ma in realtà devo riconoscere che indovina sempre.»
«Questo è merito di mia nonna, da sempre appassionata di pietre e di gemme. Aveva capito che alcuni materiali possiedono un proprio campo energetico. Qualsiasi fenomeno naturale è accompagnato dall’emissione o dall’assorbimento di energia sotto forma di luce, calore o radiazioni, che possono essere incanalati dagli straordinari poteri delle gemme.»
«Guarda gli occhi della giraffa,» proseguì Frederick armeggiando ancora con le protesi, «sono due pietre di acquamarina: attivano il Chakra della Gola facilitando così una perfetta comunicazione con propria interiorità. In mezzo alla fronte, in quello che viene chiamato il Terzo Occhio, ha incastonato un cristallo di selenite: è una porta per l’universo, la sorgente della fede e della spiritualità. Nel corpo della giraffa è stata collocata la nuova macchina analitica progettata da Sir Charles Babbage, molto più sofisticata della precedente, che è in grado di interpretare le interazioni tra la luce che filtra attraverso le pietre e le vibrazioni del corpo umano.»
«E io, credevo fosse solo un gioco, un divertente intrattenimento, senza comprendere la complessità nascosta dietro quel simpatico automa.»
In effetti ogni giorno il rituale, per Dafne e le altre centinaia di lavoratori, durava solo qualche secondo. Si appoggiava la mano sopra un oblò posto sul fianco dell’animale e si premeva leggermente: la giraffa apriva gli occhi filtrando i raggi di luce che, riflessi da un articolato gioco di specchi interni, raggiungevano il recettore ottico della macchina di Babbage, facendolo vibrare in sintonia con le pulsazioni della mano appoggiata al vetro. A questo punto la giraffa, con un inchino, abbassava il collo e apriva la bocca, restituendo una piccola scheda di rame sottile, con una miriade di minuscoli puntini in rilievo.
Fatti pochi passi verso la cucina, si inseriva la scheda in una fessura: ruote dentate iniziavano a girare, carrellini con vassoi, in piena autonomia, si spostavano da un lato all’altro della cucina trasportando, ortaggi, uova, latte, patate e ogni altro genere di alimenti, pronti ad essere amalgamati, tagliati o sminuzzati da lame affilatissime. Pentole e padelle volteggiavano all’apparenza incontrollate sopra fuochi e getti di vapore. La grossa caldaia al centro regolava ogni movimento, inviando l’energia fino nei punti più remoti dell’enorme cucina.
«Ecco: finito! Tirati su e dimmi un po’ come le senti.»
Dafne iniziò a muoversi, prima con circospezione poi via via più sciolta e rapida. «Come nuove. Frederick Church, lo sai che non potrò mai ringraziarti abbastanza.»
«Il sorriso i tuoi occhi è il più bel ringraziamento che posso avere. Quando ti ho vista sulla sedia a rotelle, con quella malinconia sul tuo viso ho deciso che…” una lacrima gli scese a inumidire la barba. «Vederti muovere così leggera su quelle pesanti gambe è un vero miracolo.»
Dopo un attimo di imbarazzo, Dafne riprese: «E perché vuole chiudere la cucina?»
«La caldaia sottrae troppo vapore ed energia ai telai nell’opificio riducendone la produttività. Il cibo costa parecchie sterline al mese, e oltretutto crede che gli operai perderebbero meno tempo se si portassero un pasto frugale da casa, da consumare vicino ai telai. Anche se io sospetto ci sia sotto dell’altro.»
«Senti, ma Sir Worley è mai venuto a mangiare qui?»
«Ma figurati! Suo nonno, e anche suo padre venivano qui spesso, ma lui… non si vuole mischiare con gli operai.»
«Forse un’idea ce l’ho», disse Dafne con un lampo nello sguardo.
Stupida e arrogante quella ragazza, pensava Sir Worley sorseggiando un whisky nel suo studio.
Era venuta fin dentro casa sua, camminando su quelle gambe posticce, per farlo sentire in colpa?
«Io e lei sappiamo quello che è successo, Sir Worley», aveva detto. «La aspettiamo per pranzo, prima che prenda la decisione definitiva: almeno questo me lo deve!»
Cosa doveva lui? Cos’era quella, una minaccia? Ma sì, ci sarebbe andato: non per un senso di colpa, non per paura che la ragazza svelasse la sua verità, non per pietà, ma perché alla fine, chiudere quelle stupida cucina dopo aver esaudito la sua richiesta sarebbe stato ancora più gustoso. Distruggere definitivamente la vita di Dafne, ecco quello che avrebbe fatto.
Da quando Frederick le aveva ridato la possibilità di muoversi in libertà con quelle stupide protesi, era tornata più bella che mai. Le era tornato quel sorriso radioso che l’incidente e la sedia a rotella sembravano averle tolto per sempre.
E quel sorriso lo infastidiva, gli rodeva da dentro, ricordandogli che quella ragazza lo aveva respinto.
L’aveva notata mentre lavorava sui telai tra le altre operaie: Dafne aveva appena sedici anni, lui una decina di più. Era di una bellezza semplice, pulita, una di quelle bellezze che riflettono una virtù interiore: questo lo affascinava e allo stesso tempo lo infastidiva. Le aveva promesso una promozione, se fosse stata carina con lui. Gliel’aveva ripetuto più volte finché, stufo di non ricevere una risposta che lo aggradasse, una sera l’aveva raggiunta, approfittando del fatto che si era attardata al lavoro, per prendersi quello che riteneva suo.
L’aveva afferrata per i polsi, le aveva strappato il camice da lavoro. Ma quella ragazzina aveva mostrato una forza inaspettata. Si era divincolata, aveva indietreggiato: i lembi lacerati del vestito si erano impigliati tra gli ingranaggi del telaio, senza darle via di scampo. Quel macchinario le aveva maciullato le gambe prima che qualcuno fosse riuscito a intervenire.
Ma tutto ciò era colpa sua? No, e se anche lo fosse stata?
Quando entrò nella sala, qualche giorno dopo, il silenzio calò improvviso.
«Mr. Church, mi spieghi un po’ come funziona questo marchingegno», disse con sarcasmo avvicinandosi a quell’esotico animale in ferro ed ottone.
Premette l’oblò. La prima volta la giraffa non abbassò neppure il collo, la seconda aprì la bocca ma non ne uscì niente. Frederick, imbarazzato, diede una bella carica alla molla, armeggiando con la grossa chiave a farfalla che spuntava all’altezza della coda. Dopo un’attesa più lunga del solito, l’animale si appoggiò sulle ginocchia, chinò il collo e sputò la tessera in rame dalla bocca: poi però non fu più in grado di rialzarsi, torcendo malinconica la testa a destra e sinistra, prima che rimanesse bloccata in una posizione innaturale.
Gli operai guardavano di sottecchi, evitando per paura commenti o atteggiamenti che potessero essere fraintesi dal loro padrone.
«Sir Worley, mi scusi, deve essersi rotto qualcosa all’interno.»
Quest’ultimo non rispose neppure, limitando il suo disappunto a uno sguardo sprezzante.
«Ecco, ora deve inserire la tessera in questa fessura e…»
Non dovette spiegare altro. L’ago del manometro della caldaia ruotò rapido ad indicare che la pressione aumentava. Un fischio acuto seguito da un getto di vapore bollente diede inizio alle danze.
Sir Worley era rimasto impietrito di fronte al movimento di quella quantità di oggetti luccicanti, spinti da una forza oscura ma nella quale si intuiva un ordine ben stabilito.
Dafne, nascosta in cucina, osservava i frenetici movimenti che ben conosceva, sapendo perfettamente quale piatto il mostruoso meccanismo avrebbe preparato quel giorno.
Così, quando le lame iniziarono a tagliare i funghi per la zuppa, non le fu difficile far scivolare sul tagliere, tra gli ovuli e i porcini, due grosse amanite phalloides.
«Zuppa di funghi!» esclamò Sir Worley, «… ne avevo proprio voglia.»
Gli operai erano tornati ai propri posti di lavoro e la sala era ora completamente vuota. Si sedette a un tavolo, portando lentamente il cucchiaio alle labbra. «Ed è anche squisita», disse guardando verso Church con aria di sfida.
Finito, con un poco di mollica di pane raccolse dal piatto gli ultimi pezzetti di funghi.
Un flebile lamento, una mano allo stomaco, una smorfia di dolore gli impedirono di alzarsi.
Si versò dell’acqua e la bevve d’un fiato. Poi ancora. Poi ancora.
Strizzò gli occhi per il dolore: un crampo gli rimescolava le budella.
Perle di sudore colavano dalla fronte. Chiuse gli occhi, la testa riversa all’indietro: un sottile rivolo di bava bianca scorreva da un angolo della bocca.
«Dafne, chiama qualcuno. Penso stia male.»
«Penso sia tardi ormai, a me sembra morto». Lo disse stando in disparte, con tranquillità, come fosse preparata a questa incresciosa situazione. E lì, Frederick capì.
Si avvicinò con cautela al corpo, sollevò un braccio dell’uomo, lo lasciò ricadere con un tonfo sordo: era morto.
Che fare ora? Si diresse verso Dafne, quando la ragazza lo sorprese con un urlo di terrore: «Ma come… come è possibile… come ha fatto?».
Frederick si voltò giunto in tempo per vedere Sir Richard Worley, estrarre il fazzoletto dal taschino e ripulirsi il mento. Poi, appoggiate le mani al tavolo, si rimise in piedi: un ghigno sinistro aveva sostituito la maschera di dolore.
«Stupida smorfiosetta, non sai che anche la Regina Vittoria si avvale dei poteri di smeraldi e zaffiri per evitare eventuali tentativi di avvelenamento? Ridotti in polvere e mescolati con un po’ di latte, sono un antidoto efficacissimo.»
«Tutto merito di tua nonna», aggiunse voltandosi verso Frederick. «Dopotutto, ha insegnato qualcosa anche a me!»
Si diresse verso l’uscita, lasciando scivolare al suolo una piccola boccetta di vetro.
«Ah, dimenticavo, domani i miei uomini iniziano a sbaraccare tutto.»