Se non morii con loro quella notte fu solo per un colpo di fortuna.
Sono le parole che usò il perito, consegnandomi l’assegno dell’assicurazione.
Un colpo di fortuna.
Gli dissi che non la pensavo allo stesso modo.
“Avrebbe preferito morire tra le fiamme?” mi chiese.
“No”, gli dissi, anche se la risposta più onesta sarebbe stata sì. Ma me la tenni per me. Mi misi in tasca trecentomila dollari, una cifra che a quell’età in tanti considererebbero una piccola fortuna, e non aggiunsi altro.
Eppure fu grazie a quel denaro se comprai un furgone e iniziai a viaggiare. Per tutta la California, in principio, poi nel resto dell’America. E se incontrai Matthew e scoprii chi fosse Guglielmo Marconi e cambiai idea sul mio futuro.
Ma prima che tutto questo accadesse, per diverso tempo quella risposta restò lì dov’era.
È come dimenticare qualcosa sul fuoco e farla bruciare. Puoi grattare la parte nera, ma l’odore non se ne andrà mai via.
Se non mi trovavo con loro quando le fiamme invasero la cucina fu perché mi diedero una sera libera. Non ne avevo avute molte da quando all’età di tredici anni avevo iniziato a lavorare nel ristorante di famiglia.
“È il mio compleanno”, dissi a mia madre. “Per una volta vorrei vedere un film al cinema invece che in televisione.”
Lei mi rispose “Vai. Posso cavarmela da sola”.
Le promisi che sarei tornata in tempo per darle una mano a riordinare la cucina. Lei mi abbracciò e mi augurò buon compleanno.
Quando tornai, non trovai più nulla. Le fiamme avevano distrutto tutto.
In quella cucina ero nata. Letteralmente. Nell’estate del ‘75 mia madre mi aveva partorito sul pavimento. Prima che diventasse un ristorante era stato il loro appartamento, un monolocale al piano terra di un palazzo di due piani al 10557 di Bolsa Avenue, a Garden Grove.
Quando andò a fuoco vivevamo al piano di sopra dalla metà degli Anni ‘80 e il Phoung Hoang era solo uno dei tanti ristoranti vietnamiti della zona: Little Saigon, un miglio quadrato tra le cittadine di Garden Grove e Westminster, la più grande comunità di vietnamiti fuori dal Vietnam.
A detta loro erano stati tra i primi a stabilirsi lì, tra i primi ad aprire un ristorante, a cullare il sogno di ricostruire una Saigon dalle ceneri di quella che avevano lasciato per venire in America.
“È per questo che abbiamo chiamato il ristorante Phuong Hoang”, mi spiegò mia madre non appena ebbi l’età per capirlo. “La Fenice appare solo in tempo di pace e prosperità.”
E l’immagine di una fenice era appesa alla porta del ristorante. Uno strano essere con il collo di un serpente, gli artigli di un'aquila, il corpo ricoperto di squame e la coda di un pavone.
“Rappresenta nobiltà e grazia”, ripeteva sempre mio padre. A me sembrava solo un miscuglio indigesto. Né carne, né pesce.
Al funerale dei miei venne tutta Little Saigon. Ero circondata da centinaia di persone ma non mi ero mai sentita così sola. Le ascoltavo ma era come se non riuscissi a sentirle. Ogni comunicazione, in entrata e in uscita, si era interrotta.
L’unica conversazione di cui ho memoria fu con Mei Mei Ngoun, una donna della stessa età di mia madre. Anche la sua famiglia aveva un ristorante.
“Cosa farai con quei soldi?” mi chiese.
“Non lo so.”
“Mentre ci pensi, prenderesti in considerazione l’idea di venire a lavorare da noi?”
“Lo escludo”, le risposi. “Non voglio più mettere piede in una cucina per il resto della mia vita.”
I miei avevano lasciato il Vietnam in cerca di un futuro. Non sapevo se ne avrei avuto uno, ma di certo non si trovava a Little Saigon. Dovevo andarmene da lì.
Comprai uno Chevrolet Express nuovo di zecca. Avevo bisogno di un mezzo di trasporto e avevo bisogno di un posto dove vivere. Il furgone fu la soluzione a entrambi i problemi.
Divenni una nomade, non c’è altro modo per dirlo.
I miei avevano attraversato l’oceano per trovare una nuova casa. Io iniziai a viaggiare perché non volevo più averne una.
Lasciai Garden Grove agli inizi di agosto.
Non ricordo molto di quel primo viaggio. Mi spostavo di notte per evitare il traffico. Guidavo con gli occhi incollati alla strada, terrorizzata all’idea di avere un incidente. Non che avessi molto da perdere, ma non ero intenzionata a sfidare la buona sorte due volte.
Percorsi gran parte della Statale 1, da Long Beach a San Francisco, poi tagliai verso l’interno, lasciandomi l’oceano alle spalle. A Lake Tahoe presi la 395, che scende parallela alla Sierra Nevada, e tornai verso Los Angeles.
Un anello di 1200 miglia che percorsi in poco più di una settimana, tra notti umide e senza stelle e giorni roventi in cui mi addormentavo piangendo, stesa sul retro del furgone, e mi risvegliavo madida di sudore dopo aver sognato di andare a fuoco nella cucina del Phoung Hoang.
Quando avvistai la periferia di L.A. mi dissi: “Così non va bene. Non è il modo giusto per farlo”.
Avevo suonato nella banda della scuola al liceo. Il professor Howard, il nostro insegnante, alla fine di ogni brano ci invitava a ricominciare da capo.
“Un'altra volta”, diceva. “Con sentimento.”
Suonavamo sempre allo stesso modo, con risultati scadenti, ma lui non si stancava mai di ripetere quella frase, di credere che, insistendo, il suo messaggio sarebbe finalmente giunto a destinazione, cambiando per sempre il nostro modo di suonare.
Fu ciò che mi dissi quel giorno. “Un'altra volta. Con sentimento.”
Ricominciai lo stesso giro, viaggiando di giorno, fermandomi ogni volta che la bellezza del paesaggio mi invitava a farlo. E accadeva spesso, tanto che alle volte non riuscivo a percorrere che poche miglia prima di dovermi accampare per la notte.
Il Big Sur fu una rivelazione. Ricordo una sera vicino a Molera Point: la spiaggia bianca, le colline colorate di rosso, il fiume scuro che si tuffava nell’oceano, le dita lattiginose della nebbia che accarezzavano la costa.
Pensai ai miei genitori, che dopo la fuga da Saigon non erano mai stati in nessun posto se non nella cucina del Phoung Hoang, a preparare Bánh Tôm e Bun Cha, e piansi una volta di più.
Raggiunta la 395 affrontai il Tioga Pass e scesi nella vallata di Yosemite. Trascorsi quasi un mese nel parco, passeggiando lungo il fiume, seguendo i branchi di cervi nelle foreste, esplorando ogni centimetro di quel paradiso come se fossi stato il primo essere umano a metterci piede.
Alla prima nevicata mi spostai verso sud. Trascorsi l’autunno tra i deserti del Mojave e dell’Anza Borrego.
Guidavo su strade vuote, il sole basso sull’orizzonte.
Il buio scendeva all’improvviso. Parcheggiavo il furgone in un’area di sosta, mi avvolgevo in una coperta e passavo ore a guardare le stelle.
Ogni tanto ne cadeva una, ma non avevo desideri da esprimere se non quello di andare avanti.
All’inizio dell’inverno superai il confine con l’Arizona. Trascorsi l’ultimo dell’anno tra i cactus del Saguaro, guardando i fuochi d’artificio nel cielo sopra Tucson.
Se fosse stata viva, mia madre avrebbe brindato a Little Saigon, a un nuovo anno di pace e prosperità. Io aspettai che le luci si spegnessero e mi rimisi in viaggio.
Restai sulla strada per quattro anni. Passavo i mesi freddi tra Arizona e New Mexico, la primavera in Utah e Nevada, l’estate tra Colorado e Montana.
Evitavo i grandi centri abitati. Per quanto possibile evitavo le interstatali e il traffico pesante, muovendomi lungo le statali.
C’erano giorni in cui percorrevo centinaia di miglia senza incontrare anima viva. Il bello di certe strade americane è che non portano in nessun posto: attraversano il territorio e basta.
Ho tanti ricordi di quegli anni. Il cielo viola e le sagome scure degli alberi di Joshua, simili a pellegrini con le braccia alzate in preghiera, le dune di gesso del White Sands sovrastate da un cielo nero come il carbone, l’arcobaleno sopra le rocce rosse del Capitol Reef, fulmini e rovesci di pioggia sul Grand Canyon.
Ricordo la prima volta che attraversai la vallata di Yellowstone, al tramonto. Le spirali di fumo bianco che uscivano dal terreno scuro e la sensazione di essere tornata indietro nel tempo, alle origini del mondo. O quando toccai la roccia del Delicate Arch, il simbolo dello Utah, chiedendomi come qualcosa di così fragile continuasse a sopravvivere al tempo senza andare in pezzi.
Nell’estate del 2000 tornai a Garden Grove. Fermai il furgone di fronte a dove una volta sorgeva il Phoung Hoang. Al suo posto avevano costruito un negozio della Apple.
Entrai. Lo slogan del loro nuovo portatile era “un iMac da asporto”. Pensai alla cucina dove ero cresciuta e me ne feci dare uno da portar via.
Il mattino dopo ripartii, decisa a visitare Oregon e Washington, ma non ci arrivai mai.
Il furgone mi lasciò a piedi sulla Limantour Road, una strada tra le scogliere di Point Reyes. Iniziò a strattonare e poi si spense. Provai in ogni modo a farlo ripartire, ma non ci fu verso.
Il centro abitato più vicino era a dieci miglia da lì, così mi misi in cammino.
Era pomeriggio inoltrato. Un’altra al posto mio avrebbe sperato di incrociare un’auto e rimediare un passaggio, ma per quanto possibile continuavo a tenermi alla larga dalle persone.
Passarono un paio di macchine. Nessuna accennò a fermarsi.
Poi accostò una Jeep del National Park Service. Un ranger, un ragazzo che poteva avere più o meno la mia età, si sporse dal finestrino.
“Si è persa?” mi chiese.
“Cosa glielo fa pensare?” gli risposi scocciata.
Ci restò male. Si scusò e fece per andarsene, ma lo fermai. Era quasi buio ed ero stanca.
“Aspetti. Sa dove posso trovare un’officina?”
Parlò tenendo gli occhi bassi. “Ce n’è una a Petaluma, a cinquanta minuti da qui, ma a quest’ora sarà chiusa. Posso accompagnarla domani mattina.”
“C’è un posto dove posso passare la notte?”
“Un Inn, a Point Reyes. Non è male, se si accontenta.”
“Può portarmici ora?”
Solo a quel punto riuscì a guardarmi. “Ora devo andare alla Stazione Radio, ma dopo la porto dove vuole”, disse.
“Alla Stazione Radio?”
Fece un gran sorriso e con un forte accento del sud sentenziò “È il 12 luglio, signorina. È la Notte delle Notti.”
Gli sorrisi sconsolata. “Non ho idea di cosa sia.”
“Salti su che glielo spiego.”
Scoprii che il ranger si chiamava Matthew Cole. Aveva intrapreso quella professione per girare il Paese.
“Non restiamo a lungo nello stesso posto. Ci spostano continuamente. Ma a me sta bene così.”
Scoprii che la Notte delle Notti era la celebrazione dell’ultima trasmissione radio in codice Morse avvenuta negli Stati Uniti l’estate precedente, il 12 Luglio del 1999.
“Questa è la prima”, mi disse. “La prima di una lunga serie, speriamo.”
E scoprii chi fosse Guglielmo Marconi, un uomo che non si era arreso alle distanze, grazie al quale le persone potevano comunicare da un capo all’altro del Paese e del mondo.
“Ha fatto costruire una stazione di trasmissione vicino a Bolinas e una di ricezione qui, nella Tomales Bay.”
Partecipai alla celebrazione con lui e poi mi accompagnò in hotel.
“Mi scusi, ho parlato solo io”, disse. “Non le ho chiesto nulla di lei.”
Gli risposi che non c’era molto da dire
“Ho perso la mia famiglia e la mia casa. Da allora vivo per strada.”
“Da quanto?”
“Quattro anni.”
“Ne avrà di storie da raccontare, non è così?”
Non risposi. Pensai alla domanda del perito dell’assicurazione. Alla risposta sincera che mi ero tenuta per me.
Era ancora lì. Nulla aveva preso il suo posto.
La notte non riuscii a chiudere occhio. Dopo anni stesa su un materasso nel retro di un furgone, all’improvviso un vero letto mi sembrava un posto troppo comodo per dormire.
Pensavo ai miei, alla cucina del Phoung Hoang, a quello strano essere che rappresentava nobiltà e grazia. Continuavo a non capire come le parti di cui era composto riuscissero a stare insieme, eppure qualcosa le teneva unite comunque.
Per la prima volta in tre anni fui io a sentirmi un miscuglio indigesto, né carne né pesce.
Nella cucina di un ristorante o alla guida di un furgone, per tutta la vita non avevo fatto altro che tenermi a distanza.
Il giorno dopo Matthew mi portò fino a Petaluma e scortò il carro attrezzi lungo Limantour Road fino al punto in cui avevo abbandonato il furgone.
Venne fuori che serviva un pezzo di ricambio per metterlo a posto.
“Ci vorranno un paio di settimane per averlo”, disse il meccanico.
Risposi che avrei aspettato. Guardai il carro attrezzi partire e mi chiesi se sarei riuscita a star ferma tanto a lungo. In passato l'avevo fatto, ma era sempre stata una mia scelta. In ogni momento avrei potuto mettere in moto e andarmene.
“Starà bene tutta sola all’hotel per due settimane?” mi chiese Matthew.
Gli risposi che ero abituata a stare per conto mio.
Continuava a parlare tenendo gli occhi bassi.
“Non è quello che volevo dire.”
Anche se la comunicazione non era il mio forte, capii dove voleva andare a parare. Guardai il ranger Matthew Cole e pensai Un'altra volta. Con sentimento.
“E cosa volevi dire?” gli chiesi.
Si offrì di portarmi a cena. Rifiutai.
“Il minimo che possa fare è cucinare io per te.”
Gli spiegai gli ingredienti di cui avevo bisogno e mi portò a Santa Rosa per comprarli. Poi andammo al suo appartamento a Point Reyes e, nonostante la promessa che mi ero fatta, misi di nuovo piede in una cucina.
Affettando le cipolle approfittai per piangere le ultime lacrime che mi erano rimaste, poi preparai per lui alcune delle ricette di mia madre.
Dopo aver mangiato, si offrì di accompagnarmi in hotel.
“Non ce n’è bisogno”, risposi.
Pensai alle due stazioni costruite da Marconi, una per trasmettere e l’altra per ricevere.
“Ti ricevo forte e chiaro”, aggiunsi.
A distanza di anni Matthew continua a dire che fu quella, la Notte delle Notti. Io gli rispondo che non fu poi così speciale. Eravamo due principianti.
E anche se fosse, non credo abbia importanza. Fu la prima di una lunga serie.
Trovai il letto di Matthew sorprendentemente comodo, anche se prima di arrivarci ebbi modo di scoprire che una cucina non è solo una stanza dove consumare i pasti.
Non ero mai stata con nessuno, e nemmeno lui. Non so se si potesse definire un colpo di fortuna, ma ci andava vicino.
Quella notte mentre lui dormiva mi alzai, presi il Mac dallo zaino e tornai in cucina. Nell’aria c’era ancora il profumo dei Bánh Tôm.
Lo accesi. Guardai il cursore nero lampeggiare sulla pagina bianca.
Ne avrà di storie da raccontare, mi aveva detto Matthew.
Pensai a tutti i posti che avevo visitato: spiagge, praterie, montagne, deserti. Ambienti così diversi tra loro che coesistevano dentro i confini dello stesso meraviglioso Paese. Come parti di una fenice. E iniziai a scrivere.
Nelle due settimane successive cucinai per Matthew ogni sera. Nessuna fu la Notte delle Notti, ma ci stavamo prendendo la mano.
Quando il furgone fu pronto, mi accompagnò a Petaluma.
Per tutto il viaggio non scambiammo una parola. Lui guidava, io pensavo a Gugliemo Marconi, ai fili invisibili che uniscono le persone, a come certi messaggi debbano viaggiare a lungo prima di arrivare a destinazione e non sempre c’è qualcuno dall’altra parte pronto a riceverli.
Quando mi restituirono le chiavi del furgone, fui io a rompere il ghiaccio.
“Pensavo mi avresti chiesto di restare”, gli dissi.
Per una volta mi guardò dritto negli occhi.
“Immagino che non si possa cambiare vita da un giorno all’altro”, rispose.
“Può succedere. Non sempre è per un colpo di fortuna.”
“Non resterò qui per sempre, comunque.”
“Lo so. Ci sono tanti posti dove posso raggiungerti.”
“Ormai so di che ingredienti hai bisogno.”
Lo abbracciai a lungo e me ne andai.
Risalii la costa del Pacifico fino a Vancouver, attraversando Oregon e Washington. Per un attimo pensai di tirare dritto e arrivare fino in Alaska, ma tornai indietro.
Passai qualche settimana con Matthew e poi ripartii di nuovo. Percorsi la Strada Madre fino a Chicago e ritorno.
Ogni volta che mi fermavo tiravo fuori il Mac dallo zaino e mi mettevo a scrivere. Era iniziato come un diario di viaggio, poi con il tempo era diventato qualcosa di più: la storia della mia famiglia, del loro viaggio per trovare una nuova casa, di tutte le piccole Saigon d’America, sogni che sopravvivono alla distruzione, raccolti dalle ceneri e portati dall’altra parte del Mondo.
Nell’estate successiva trasferirono Matthew al Petrified Forest e lo raggiunsi lì per un po’. In inverno andai in Louisiana, Mississippi, Alabama.
Avevo smesso di tenermi alla larga dalle grandi città. Vidi la parata del Mardi Gras a New Orleans. Era una celebrazione per famiglie e io avevo perso la mia, ma per la prima volta intravidi la possibilità di ricostruirne una.
Il furgone mi abbandonò di nuovo a Wichita Falls, Texas, nella primavera del 2002.
Il meccanico che lo guardò mi disse “Le costerebbe una fortuna aggiustarlo.”
Lo presi per un segno e lo lasciai lì. Salii su un volo per Denver e raggiunsi Matthew. Nel frattempo lo avevano trasferito al Mesa Verde.
“Cosa farai ora? Ne comprerai un altro?” mi domandò.
“Questa volta credevo davvero che mi avresti chiesto di restare.”
“Se continui a ripeterlo, prima o poi ti prenderò sul serio.”
Un’altra volta. Con sentimento, pensai e poi gli chiesi “Perché non ora?”.
“Ti ricevo forte e chiaro”, fu la sua risposta.
Spesi gli ultimi soldi dell'assicurazione per comprare un altro furgone. Lo attrezzai con una cucina mobile, trasformandolo in un Food Truck.
Ci sono sogni che sopravvivono alla distruzione. Li raccogliamo dalle ceneri e li portiamo via con noi. Costruiamo le nostre piccole Saigon. Era quello che avevo fatto con la cucina del Phoung Hoang.
Preparavo le ricette di mia madre, vendevo Bánh Tôm e Bun Cha per la strada. Seguivo Matthew nei suoi spostamenti. Alle volte mollavo tutto e mi facevo un giretto. Ma poi tornavo sempre indietro.
Sulla fiancata del furgone era dipinta una fenice, quello strano essere con il collo di un serpente, gli artigli di un'aquila, il corpo ricoperto di squame e la coda di un pavone.
Ormai lo vedevo per ciò che era: nobiltà e grazia.
Certi messaggi devono viaggiare a lungo prima di arrivare a destinazione. Non sempre siamo lì per riceverli.
Come in tante cose, ci vuole un po’ di fortuna.