Gunhild che tanta gloria ha meritato tra la sua gente com’anche l’onore, offerto dal padre Odino, di cavalcare nel cielo e decidere chi vive o chi muore in battaglia. Sotto l’egida di Freya ha rifiutato tale prestigio e, per tutti gli anni che visse, continuò a vagare per la terra con le sue sorelle e a portare, ove ci fosse bisogno, ristoro e scudo.
Venne alla luce con un velo sul viso, manifestazione del favore che gli dei ponevano su di lei. Nonostante il buon auspicio, però, la bimba non conobbe mai l’abbraccio materno perché la donna, dopo averla partorita, dapprima pronunciò oscure parole; poi, ancora insanguinata, scomparve tra i fiordi.
Per nove lunghi anni fu Gunnvor, il fratello maggiore, a occuparsi di lei. Era lui che in occasione del primo Blót della sorella, in cammino verso il grande tempio di Uppsala, le parlava solo di banchetti e danze.
Gunhild, tra le gonne delle donne, provò per la prima volta un calore che la fece ridere. La sollevavano e le indicavano le meraviglie di quel posto. Poi li vide, appesi agli alberi: gli animali agonizzanti che offrivano il loro sangue a Odino. Un’invisibile lama gelata le trapassò il cuore e le lacrime vennero giù come cascate. Il padre la strinse a sé. Le asciugò le lacrime e, con un sorriso amaro, tentò di allontanarla dalla scena.
Lei, che aveva percepito la mancanza del fratello, lo cercò tra la folla. Nel momento in cui lo scorse, vicino all’albero sacro, provò ad avvicinarsi, ma mani rudi e callose la spinsero indietro. Gunnvor indossava una lunga veste candida e non sorrideva; frattanto, un sacerdote gli stringeva una corda al collo.
La sorella urlò verso il cielo. La sua voce si spense solo quando la corda venne sollevata e il fratello salì a onorare gli dei, insieme ad altri otto uomini.
Tremava, la bimba, mentre ogni bel sogno del futuro andava in frantumi. Tetre visioni presero possesso del suo sonno e divorarono ogni cosa felice.
Fu quella notte che Freya, sotto forma di gatta, la scelse.
Si lisciò fino all’alba contro il suo corpo, non più di bambina. Le lasciava un grosso fardello, ma le prometteva grandezza.
Le razzie, pochi anni dopo, le portarono via anche il padre che, dal giorno del Blót, colmo di vergogna per come la figlia aveva oltraggiato gli dei con le sue lacrime, l’aveva allontanata dal cuore relegandola al ruolo di serva. Passò in tal maniera i suoi anni di crescita, tra visioni e solitudine.
Diventata una giovane donna solitaria, solo il sentimento per Borg la salvò dalla disperazione.
Guardava il mare in attesa delle barche. Il vento si era fatto più tagliente, ma lei sentiva un calore pervaderla da dentro all’idea di ritrovare Borg, partito mesi prima per i saccheggi al di là del mare.
Si sarebbero uniti durante il lungo inverno e lei non avrebbe sentito più freddo.
Aspettò insieme alle altre donne, erette come pire onorarie. Nel momento in cui la prima neve le ricoprì, seppero che le barche non sarebbero tornate. Il saccheggio era stato fatale e la città, indifesa, si trovava a dover affrontare l’inverno. Le donne, abituate a quelle mancanze, tornarono a radunarsi intorno al máleldr a preparare il cibo per i bambini e i vegliardi.
Gunhild non si unì a loro.
Tremava dal freddo e, nelle notti di gelo, non accendeva neanche il fuoco. Il focolare non era il suo futuro, non ancora: solo con Borg si sarebbe sentita pronta a raggiungere il posto che le spettava tra le donne: intorno al máleldr, tra le erbe, il grasso e l’orzo nelle ceste.
Attorno a quel focolare, le donne si confidavano segreti e organizzavano il lavoro come avrebbero fatto gli uomini se fossero tornati. Nessuna piangeva, nessuna si lamentava.
L’inverno fu rigido ma senza vittime. Anche Gunhild, in compagnia dei suoi terribili sogni, sopravvisse, come se una forza superiore volesse tenerla in vita. Quando i primi bucaneve comparvero sulla riva del fiume, ricordò di un antico rituale, legato a quei candidi fiori, in cui Freya le avrebbe svelato il destino del suo amore e lei sarebbe potuta tornare alla vita.
Raccolse i bucaneve ancora pregni di rugiada, come richiedeva il rito, lì chiuse in un mazzetto e poi, prima di lanciarli nel fiume, invocò la dea. Se il mazzetto fosse stato portato via dall’acqua il suo amore, Borg, sarebbe tornato; se, disgraziatamente, fosse stato spinto a riva, le speranze sarebbero state vane e l’amore perso per sempre.
Gunhild non ebbe il tempo di vedere il suo destino: un dolore al capo la costrinse a terra. La vista era appannata, ma le immagini nella sua testa si fecero più nitide. Era la prima volta che le capitava di avere le visioni da sveglia.
Sentì gracchiare e vide il corvo sul ramo. Questo era normale ma, quando un secondo corvo si posò di fianco al primo, la sua carne prese a sussultare. Huginn e Muninn, i messaggeri di Odino, la omaggiavano con quella visione. I corvi rimasero sul ramo finché il corpo della fanciulla non si quietò; poi, insieme, spiccarono il volo verso l’orizzonte.
Gunhild, febbricitante, corse verso il villaggio. Entrò nella casa lunga, si avvicinò al máleldr dove le donne cucinavano, e parlò.
«Sorelle, ho visto la sventura, sotto forma di uomini neri, calare su di noi, le colture d’orzo tingersi di sangue e le case in fiamme. Il padre celeste mi ha parlato attraverso i suoi messaggeri.»
Inga, la più anziana, smise di tagliare la carne, e con le mani ancora sporche di sangue accarezzò la fanciulla agitata. Le altre donne le si fecero intorno, ma nessun’altra la toccò. Avevano timore, perché molti dei sogni di Gunhild si erano rivelati veri. La consideravano a sua insaputa una potente Seidkona, ossia in grado di attingere al Seid, un potere così grande che perfino Odino se lo era fatto insegnare dalla dea Freia che lo padroneggiava con maestria. Un potere che portava premonizione.
Inga continuava a cullarla, mentre lacrime di terrore le bagnavano il viso. Gli uomini non erano tornati e il raccolto nei campi era scarso: quella visione era più che mai reale.
«Gunhild, dobbiamo parlare con Balder e gli altri vegliardi. Devi farti coraggio e accettare il tuo destino. Alzati, asciugati le lacrime e vieni con noi al fuoco. Prepareremo il pasto e poi parlerai.»
Ogni gesto sembrò durare un’era, ogni oggetto era pesantissimo e la sua vista non era del tutto ristabilita. Il presagio era lì e nelle orecchie sentiva ancora i corvi gracchiare.
Durante il pasto, gli uomini anziani risero delle parole di Gunhild.
«Cara fanciulla, è la mancanza di un uomo che ti fa fare certi sogni. Sei isterica, e solo una verga raddrizzerebbe la tua stortura. Nessun pericolo in vista, nessun messaggio del Padre Odino. I corvi sono solo corvi.»
«Balder, la fanciulla è una Seidkona. Anche lo Jarl Horik ne era a conoscenza e la teneva in grande considerazione. Non dobbiamo…»
«Basta così, donna!» Balder, aveva ritrovato la forza e, con un colpo, aveva rovesciato tutte le scodelle dalla tavola. «Due sono i posti che vi appartengono. Di giorno il máleldr, il fuoco dei pasti. La notte è il letto del vostro uomo. Vi abbiamo lasciato decidere durante l’inverno per necessità ma, ora che la bella stagione ritorna, tornerete anche voi al vostro dovere: cucinare e accudire i figli. Gli uomini torneranno, e da voi si aspettano solo caldi abbracci. Un messaggio è arrivato dal mare qualche giorno fa. Lo Jarl Horik e gli altri sono rimasti bloccati durante l’inverno, ma dovrebbero essere sulle nostre coste in pochi giorni.»
Le donne, cineree, trascinarono via Gunhild e tornarono al máleldr. Mentre rassettavano, le loro voci si sovrapposero l’una con l’altra. Furiose, non la smettevano di inveire contro i vegliardi. Solo Gunhild se ne stava in un angolo, muta e assente. Li sentiva ancora, Huginn e Muninn, che gracchiavano nelle sue orecchie. Il senso di paura si fece talmente intenso che cominciò a ondeggiare.
Riversa al suolo, come morta, con la bava alla bocca e gli arti rigidi, stava avendo un’altra visione. Era più chiara: vide uomini dalla foresta avventarsi sul villaggio e dare fuoco a un solo edificio. Rivide anche la gatta che, strusciandosi contro il suo corpo, la invitava a desumere l’ovvio.
«Attaccheranno il deposito di provviste. Sanno che questi sono i mesi più difficili per i villaggi. Le scorte invernali sono ormai scarse e le colture ancora nei campi.»
Le donne ascoltarono la fanciulla e poi, tornate salde, iniziarono a pensare alla difesa.
Se il loro dovere era quello di accudire, è quello che avrebbero fatto.
Per tutto il giorno i vegliardi le videro spostare i sacchi di scorte dalla dispensa e portare in giro le grosse giare colme di grasso per conservare il cibo. Non trascurarono i loro doveri e, all’ora del pasto, si misero intorno al máleldr come sempre.
Durante la notte gli invasori, che non trovarono resistenza, entrarono nel villaggio diretti verso il deposito. Dentro, però, non c’erano sacchi, ma solo un forte odore di grasso e una donna con una torcia. Gunhild e le altre spinsero le grandi porte e intrappolarono gli uomini dentro con Astel che si era proposta volontaria per il sacrificio. Ci fu una fiammata e poi le urla disperate degli uomini che bruciavano vivi. Accorse Balder con il viso terreo. La fanciulla era una Seidkona e i messaggi che riceveva erano veramente divini.
Il mattino seguente, il consiglio unito di donne e vegliardi si riunì al completo. Dovevano proteggere il villaggio o fuggire in attesa del ritorno degli uomini. Delle navi erano state avvistate all’orizzonte: entro due notti sarebbero state lì.
Gunhild tornò al fiume e attese l’arrivo dei corvi. Portò il viso a terra, per onorare meglio gli dei, e da quell’angolazione lo vide. Un raggio di luce che, flebile, dalla riva puntava all’altura. Era emanato da una gemma di un viola intenso che aveva inciso in oro il Vegvisir. Gli dei le indicavano la via.
«Dobbiamo fuggire sull’altura.»
Con la voce più ferma che mai, Gunhild teneva la pietra davanti a sé con il fascio di luce che indicava quella direzione.
«Il Vegvisir è un talismano che indica sempre la via ma, come vedi, il raggio passa per il villaggio. Non lasceremo al nemico le nostre case. Gli dei ci invitano alla battaglia, non possiamo fuggire. Dobbiamo barricarci e proteggere i più piccoli.»
Inga e le altre, attaccate al focolare domestico, non si sarebbero mosse. Immediatamente, come api, cominciarono a trasportare gli oggetti più pesanti per bloccare le vie d’accesso. Gunhild non poteva lasciare le altre da sole in quell’impresa: gli dei avrebbero capito. Depose la gemma e si unì alle altre.
Mani febbrili lavorarono tutto il giorno, come durante la preparazione dei pasti. Ognuna conosceva il suo ruolo e non ci furono inciampi. I bambini, infine, furono nascosti nella robusta casa dello Jarl, mentre ogni altra persona si mise in posizione pronta al sacrificio.
Attesero la notte intera immobili, ma non ci fu nessun attacco. Alle prime luci dell’alba, Gunhild estrasse la gemma: il fascio di luce puntava ancora verso l’altura. Guardò in quella direzione e vide due corvi sorvolare l’area.
Si voltò per annunciarlo alle altre, quando la massa nera si schiantò sulla casa dello Jarl. Una sola palla infuocata, un solo colpo.
Urla disumane si levarono verso il cielo, mentre l’eredità più preziosa del villaggio veniva cancellata per sempre.
Gli dei le avevano punite. Senza i figli da sfamare, ogni máleldr era ormai inutile.
Con l’anima in frantumi, vagarono tra gli alberi. Fu Gunhild a radunarle e portarle alla radura. Da quella posizione, le navi lontane sembravano ferme, come incantate. La gemma li aveva condotti lì dove erano più protetti, come volevano gli dei.
Gunhild, oppressa da quella tensione, decise, per la prima volta, di preparare il pasto. Accese un grande fuoco e iniziò a impastare delle focacce. Non sapeva se stesse facendo bene finché Inga non le si mise di fronte. Le afferrò le mani e le insegnò il metodo. Come risvegliate da quel profumo, le donne ricominciarono a cucinare su quel focolare improvvisato.
In silenzio, mentre piangevano per i figli.
La notte fu scaldata dal villaggio che veniva dato alle fiamme.
Assistettero alla devastazione senza versare più una lacrima. Gunhild si appartò come al solito, ma i corvi non gracchiarono e la gemma non indicò la via. Gli dei non avevano nulla da dirle, perché dentro di lei conosceva già il proprio destino: non un volere divino da seguire ciecamente, bensì una speranza umana e terrena per il futuro.
Passarono la notte a guardare le fiamme che consumavano il villaggio, mentre nei loro cuori divampava una nuova volontà.
Nell’attimo in cui il sole spuntò sul mare, il villaggio fumava ancora. Tutti i tesori e l’oro erano stati portati via: rimaneva solo carbone.
Gunhild procedeva tra i resti, quando scorse un grande piatto di legno in cui si serviva la carne. Era inutilizzabile come contenitore ma, tondo e robusto com’era, poteva essere usato come uno scudo.
La visione che ebbe in quell’istante designò la sua sorte. Afferrò il piatto scudo e invitò, chiunque lo volesse, a seguirla. Con lo scudo avrebbero protetto i più deboli e con il piatto li avrebbero sfamati affinché non si ripetesse più ciò che era successo al loro villaggio.
In molte si unirono a lei in quella missione. Combatterono al fianco degli uomini e morirono con onore, arricchendo le loro fila ovunque andassero.
Gunhild visse amori e tradimenti. Rinnegò più volte gli dei e altrettante tornò loro fedele. Visse una vita come ogni valoroso guerriero e morì quando decise lei, finalmente in pace.