La porticina laterale di Palazzo Citterio che conduceva da mia madre era di un rosso rugginoso e malconcio. Vi arrivai trafelato e titubante.
Palazzo Citterio… non ero ancora abituato, nonostante ci vivessi da anni, a chiamare casa quel luogo. Tanto meno ora che erano cinque giornate che non vi facevo ritorno. Cinque giorni di moti e di combattimenti sulle barricate in cui non avevo visto né un letto né un bagno come si deve.
Un’ombra oscurò il vicolo. La porzione di cielo che si intravedeva tra i tubi fumanti e i panni stesi fu oscurata da un’aeronave austriaca irta di spingarde e bandiere e aquile bicefali. Brutto segno, quei bastardi imperiali avevano cominciato a muovere le forze aree.
Mentre aprivo la porta, la testa corazzata di una giraffa della cavalleria reale eritrea fece capolino da dietro un muro e poi scomparve. Il rombo di un’esplosione increspò il fango putrido della stradina e mi scosse: dovevo sbrigarmi, la Patria e la Libertà mi stavano chiamando e la mia anima fremette.
Entrai nelle viscere del palazzo. Seguii i corridoi e gli anfratti familiari stando attento a non sbattere porte né a urtare alcunché con lo spadone giapponese che mi pendeva dalla schiena. Fin dall’infanzia avevo un’attenzione ossessiva a non far rumore per non disturbare il riposo della contessa Rosa Acerboni Cini, colei che ci aveva accolti a palazzo dopo l’incidente con gli ussari e la morte di mio padre. Ora che la nobildonna era di fatto sorda, quest’attenzione non aveva più molto senso, ma l’abitudine era ancora forte. Oltretutto i fragori della rivolta che imperversava per Milano credo che stessero risvegliando perfino gli scheletri di San Bernardino alle Ossa.
Dopo corridoi e cantine e dispense giunsi all’entrata della cucina. Mi fermai per riprendere fiato e preparami alla vista di mia madre.
Non ero pronto, non ero mai pronto. Il suo corpo e il suo spirito martoriati dalla furia degli invasori imperiali, la sua espressione indecifrabile e spaventosa mi dilaniavano ogni volta. Ma ero qui per dirle addio e l’incontro esigeva la sua necessaria solennità.
Mi sistemai la lente dell’oculo incastonato sotto il sopracciglio, lisciai il corpetto di cuoio e oricalco anneriti dalla lotta, raddrizzai la katana che mi pendeva dalla schiena. Respirai a fondo ed entrai.
Lei si trovava lì, come sempre, in mezzo alla grande cucina.
Quel luogo mi affascinava e mi ripugnava. I soffitti incrostati di fuliggine e le finestre opache per l’unto possedevano una loro decadente bellezza, per quanto non piacevole da ammirare. Gli Alambicchi, i condotti e i sifoni di ottone e zinco, usati da mia madre nella preparazione dei cibi serviti alla contessa, gemevano e a tratti sbuffavano. Le sfumature dei colori delle pareti, così come la pelle di mia madre, erano spente e torbide per la mancanza di aria fresca e di sole. Le finestre sbarrate da anni avevano stratificato nell’aria odori e vapori foschi che bruciavano gli occhi.
Il fedele Lucio, il corvo bianco che fu di mio padre, con una gemma incastonata sulla fronte, era sul suo trespolo e mi guardava. Muoveva lentamente le ali rafforzate da giunti metallici, densi di ingranaggi e pulegge, che gli penetravano tra le piume e gli entravano nella coda, alimentati da un dispositivo a molla sul dorso. Ogni mattina, puntuale da anni, mia madre caricava il congegno, uno dei suoi pochi gesti amorevoli di cui mi ricordi.
Lei era lì. La parte inferiore del suo viso ricoperta dall’innesto di acciaio e stagno che le proteggeva le carni dopo l’incidente. I lunghi capelli bianchi che le ricadevano dritti sulle spalle. Gli occhi del colore assente della pioggia che non mi guardavano. Non si girò per salutarmi. Non si mosse quando la chiamai. Apatia, alessitimia, distanza siderale da tutto e da tutti, fuga nel suo mondo. Non so cosa fosse, sta di fatto che, da quando gli ussari imperiali le avevano ucciso il marito mio padre e sfigurato il volto, non aveva più detto una parola e non aveva più reagito a nulla. Preparava solo il cibo per la contessa e accudiva Lucio. In segreto speravo che la rivolta di Milano potesse scuoterla, che l’odio per gli occupanti austriaci potesse risvegliarla da quella maledetta catatonia. Forse, pensai, era per questo che stavo andando a combattere e probabilmente a morire. Per Milano, ma soprattutto per lei.
“Madre”, le dissi. “Mamma,”, ripetei di fronte alla sua immobilità. “L’Arciduca Ranieri, il viceré, è fuggito da Milano. A Vienna, Metternich è scappato sotto la furia degli insorti. L’alleanza degli Asburgo Lorena con l’imperatore giapponese Osahito e il re eritreo Uollo Zaguè è disfatta. Le forze africane e asiatiche hanno abbandonato Milano. Gli austriaci sono sguarniti e disorienti. Il trono imperiale vacilla, madre, e Milano è insorta.” Mi fermai per attendere una sua reazione. Si mosse! Ma solo per avvicinarsi alla cucina e girare lentamente la manopola di una serpentina.
“Il feldmaresciallo Radetzky,” continuai, “è sotto assedio nel Castello e le strade della città sono gremite di gente con armi e bastoni pronta a sacrificarsi. Il 1848 sarà ricordato come l’anno della libertà di Milano e dell’Italia.”
Il fischio di una valvola di sfiato mi interruppe.
“Vieni anche tu, madre,” ripresi, piano. Avevo le lacrime agli occhi, non solo per l’aria ammorbata di quella cucina malsana. “Apri le finestre. Esci. Ci siamo tutti. Cesare Correnti, i fratelli Morosini, Luciano Manara. Persino il grande Alessandro Manzoni ci ha salutato e spronato dal suo balcone. Vieni! Ci sono fucili, forche, bastoni. Ci sono messaggi da portare, feriti da soccorrere, barricate da rinforzare. Esci da questo buco in cui ti sei reclusa. Vendicati! Combatti anche tu contro quei maledetti austriaci che ti hanno ridotto in questo stato.”
L’assenza di reazioni mi feriva più di un colpo di moschetto.
“Almeno porta qualcosa da mangiare”, dissi ancora. “La gente ha fame. Anche i martinitt stanno combattendo. Sono ragazzini, magrissimi, e hanno bisogno di mettere continuamente qualcosa sotto i denti.”
Girò lentamente la testa verso Lucio, e forse tese i muscoli delle spalle. Forse. Forse invece era stata solo una mia impressione.
Un boato fece tremare i vetri e mi scosse le viscere e lo spirito. Mi avvicinai per abbracciarla poi, bloccato dalla sua immobilità, cambiai idea. Presi dei contenitori da uno scaffale, aprii un rubinetto collegato all’intrico di tubi e spillai un alimento denso, color del sangue, dall’odore speziato. Era il cibo della contessa. Ne mangiai in quantità, era buono e nutriente e mi diede energia. Poi riempii i contenitori e li riposi nella bisaccia.
“Per i compagni,” dissi, rivolto a mia madre, alzando la sacca, come un saluto. Lei era sempre lì, immobile, lo sguardo rivolto al nulla e le mani sul bancone.
Prima che le lacrime offuscassero completamente l’ultima immagine di lei, mi gira. “Addio, mamma” dissi, più a me stesso. Poi mi misi a correre a ritroso per i corridoi e gli stanzoni finché giunsi all’esterno.
La luce fuori era abbagliante e l’aria intrisa di fumo e grida. Respirai a fondo fino a inebriarmi. Mi sembrava di essere un’entità risorta alla vita dopo un giro nell’ade.
Mi diressi verso il Broletto, smanioso di combattere.
Fui presto accontentato. Una piccola guarnigione di ulani ungheresi e dragoni croati stava attaccando una barricata dove donne, ragazzi e bottegai si difendevano a sassate e con colpi di vecchi moschetti recuperati dal museo diocesano. Estrassi dal fodero sulla schiena la mia katana nera, di cui ero tanto orgoglioso, sottratta a un soldato giapponese dopo un duello. L’avevo chiamata Akimizu.
Colsi i soldati nemici alle spalle. Combattevo con la foga di chi non cerca di sopravvivere, con l’energia del martire e la violenza del disperato. Con rapidi fendenti, Akimuzi seminò il panico tra gli imperiali presi di sorpresa da dietro. Gli insorti, visto il disorientamento dei nemici, contrattaccarono e rapidamente ottennero una insperata vittoria.
Rapide ombre oscurarono il sole. Alzai gli occhi, ancora ansimante per la lotta, mentre i gemiti dei feriti e le urla di esultanza dei milanesi saturavano l’aria. Nel cielo, le enormi aeronavi austriache erano attorniate dai veloci aquiloni corazzati milanesi, come elefanti attaccati da nugoli di insetti voraci. Era impossibile capire chi stesse vincendo.
“Ehi!”, mi urlò un ragazzino che legava le mani a un soldato croato agonizzante. “Ehi, tu, con quell’oculo! Non perderti a guardare le nuvole. Dicono che di fronte alla Chiesa di San Babila i nostri abbiano urgente bisogno di rinforzi.”
Sorrisi alla sua giusta insolenza.
San Babila non era vicina. Avevo bisogno di un mezzo veloce. Intravidi la giraffa corazzata che prima aveva fatto capolino da un muro, abbandonata dalle forze africane in ritirata. Era un animale robusto e docile, abituata alle zone di guerra. In un attimo riuscii ad arrampicarmi sui complessi finimenti eritrei e a mettermi in sella.
Il galoppo tra macerie fumanti, corpi straziati e persone in lacrime fu insieme fantastico e terribile. La battaglia non è vero che anestetizza, anzi porta all’estremo ogni emozione e ogni sensazione. L’esaltazione per la lotta e l’antica disperazione per mia madre convivevano in me, due estremi che si toccavano e combattevano nel mio cuore. Non sapevo quale delle due stesse vincendo.
In un attimo giunsi a San Babila, questa volta dal lato degli insorti. Qui la situazione era drammatica. Non potevo intervenire con la mia spada ma ero in grado di portar conforto con il cibo che avevo con me.
Persone di ogni età giacevano prostrate dopo cinque giornate di lotta. Con le poche forze rimaste, chi riusciva dava il cambio ai combattenti che si trovavano in cima alla barricata, ma senza energie nuove gli insorti non avrebbero resistito alle continue cariche austriache.
“Hai da mangiare?” mi chiese un ragazzino tutto pelle e ossa con una mano sanguinante e l’altra che reggeva una pistola. “Devo tornare a combattere,” farfugliò. A stento riusciva a stare seduto.
Estrassi uno dei contenitori che avevo nella bisaccia e glielo porsi. Guardò dubbioso il recipiente che gli offrivo. Dopo un mio gesto d’incoraggiamento assaggiò il contenuto, poi ne mangiò abbondanti bocconi al punto che dovetti portargli via il vasetto perché non lo finisse.
In pochi istanti il giovane si rialzò e ritornò a combattere. “Grazie!”, mi urlò dalla cima della barricata. Girai mentalmente il ringraziamento a mio padre. Era stato lui a elaborare quell’alimento e a costruire l’attrezzatura per produrlo. Sospetto anche che fosse stato ucciso per aver rifiutato di condividerne il segreto con l’Imperatore.
Incominciai a distribuire il cibo a ogni combattente ferito o esausto, ma i contenitori si svuotarono troppo in fretta.
Gli imperiali continuavano ad assaltare e, nonostante il bombardamento di sassi, tegole e stoviglie che subivano dalle finestre, dai tetti e dai campanili, presto avrebbero avuto la meglio. Il mio intervento non stava cambiando le sorti di quella battaglia. La furia e lo sconforto stavano vincendo nel mio cuore.
Non sapevo se quello in San Babila fosse un combattimento marginale, o se sarebbe stato il momento cruciale di tutta la rivolta. Non importava. Dovevo lottare, uccidere, sterminare gli austriaci. Per Milano, per mia madre, per mio padre. Per la libertà. Per me.
Mi sistemai l’oculo, estrassi la katana e incominciai ad arrampicarmi sull’ammasso di panche, letti, armadi, carrozze che formava la barricata, pronto a buttarmi dall’altra parte. L’immagine di mia madre immobile tra i fumi continuava a tormentarmi. Non ero stato in grado di salvarla, non ero riuscito ad aiutare quella gente. L’unico modo per dare un senso alla mia vita era sacrificarla in quell’istante.
Pochi passi mi separavano dalla linea del fuoco e dal mio martirio, quando un bagliore fugace attirò il mio sguardo al cielo.
“Guardate! Cos’è?” urlarono i ragazzi dalla barricata.
“Sembra un aquilone da combattimento.”
“No, è troppo basso.”
“È velocissimo, troppo per essere un piccione.”
Il lampo si muoveva rapido tra le case e i palazzi, passando in mezzo ai fumi della battaglia.
Riconobbi in quel bagliore la pietra preziosa incastonata tra gli occhi di Lucio. Messo a fuoco l’oculo, potei distinguere le ali bianche rinforzate del corvo muoversi agili tra le barricate e raggiungere il campo degli insorti. La mia anima ebbe un sussulto e parve staccarsi dal mio corpo. Mi chiesi quale portento avesse spinto quell’uccello a uscire dal luogo in cui era chiuso da anni e a volare fino a qui. Quale tragedia o miracolo lo aveva spinto?
Mi fermai, le mie smanie suicide in un attimo placate. Madre, cosa ti è successo? pensai.
Il corvo potenziato era riuscito a trasportare al campo una sporta con contenitori colmi di quel cibo scarlatto. Gli insorti si affollarono per mangiarne e tanti ne trassero giovamento. Le fila dei milanesi si stavano rinfrancando.
L’animale mi guardò con i suoi occhi profondi come pozzi dei desideri.
Tornai in sella e galoppai verso palazzo Citterio. Mamma... Arrivai in un baleno e abbandonai la giraffa nel vicolo. Aprii la porticina rossa e mi infilai nuovamente nelle viscere di quel mio personale inferno.
Corsi tra le stanze e i corridoi, corsi nell’aria stantia e nella luce fioca, questa volta incurante dei rumori e del riposo della contessa.
Arrivai di fronte alla cucina e mi fermai, pronto a qualsiasi cosa.
Aprii la porta.
Mia madre era lì. La finestra era aperta e un raggio di sole si rifletteva sul metallo che le ricopriva parte del viso.
“Mamma,” dissi.
Lei si girò verso di me. Quel movimento fece entrare il sole anche nel mio cuore.
Mi avvicinai. Lentamente, con tutta la cautela di cui ero capace, come ci si avvicina a un gattino che non si vuole far fuggire. Lei continuava a guardarmi, la sua espressione ancora indecifrabile, gli occhi ancora da un’altra parte.
Nell’aria c’era un odore nuovo, non so se migliore.
L’abbracciai. Sentii il suo corpo irrigidirsi.
Io continuavo ad abbracciarla, non osavo smettere. Poi percepii i suoi muscoli rilassarsi. Alzò la testa verso di me e mi guardò. Finalmente, dopo tanti anni, vidi il vero colore dei suoi occhi.
“Lucio,” disse sottovoce, quasi non si sentiva. “Ho mandato Lucio”.
“Lo so,” provai a dire. Ma non venne fuori nulla, ogni parola bloccata dal groviglio di lacrime e spezzoni di frasi che mi si accumulavano in gola.
“Per i martinitt”, disse.
La strinsi ancora più forte.
“E per te”.
Avevamo vinto.