I corvi si alzarono in volo quando Davide iniziò a correre. Rimasero per un po’ a volteggiare, neri sul grigio del cielo di Roma, e si posarono ordinati sul campanile di Santa Maria in Trastevere.
Davide non li degnò di uno sguardo, attraversò la piazza schivando due gendarmi pontifici protetti dalle loro armature meccaniche e si infilò in un vicolo del quartiere cinese. Le lanterne rosse dei negozi erano già accese, nonostante fosse pomeriggio.
Davide si fermò davanti alla sala da tè e cercò di sistemarsi i capelli. Ansimava. Si morse il labbro mentre si specchiava nella vetrina decorata con tigri e fiori di loto. Quando aprì la porta suonò un piccolo drago che sbuffava fumo dalle corna gli si fece incontro. Davide lo saltò e si mosse veloce per la sala, ignorando le grida della signora dietro al bancone, fino alle scale che scendevano nel seminterrato. Sentì il drago che fischiava, mormorò due imprecazioni a bassa voce e allungò il passo. Alcune persone stavano fumando oppio, erano come circondati dalla nebbia, i tratti del volto indistinti; ne evitò una che dormiva in terra e scostò la tenda di perline colorate che stava in fondo alla stanza.
Trovò due macchine occupate e una terza libera, con la poltrona di pelle rossa scucita e un corvo con un occhio cieco posato sul bracciolo. Si mise seduto, cacciò il corvo, svuotò le tasche sul tavolino e impilò le monete. Si asciugò gli occhi che si erano irritati per il fumo e si mise il casco collegato alla macchina sulla testa. L’uomo che occupava la macchina accanto gemette e l’ago che segnava la sua attività cerebrale graffiò la carta disegnando due lunghe linee orizzontali.
Davide si mise sdraiato sulla poltrona.
Chiuse gli occhi.
«Potrebbe, di grazia, chiedere quantomeno il permesso?» chiese l’uomo che era appena entrato nella stanza. Teneva la tenda scostata e le perline colorate gli cadevano sulla spalla come una treccia. Il corvo gli zampettava tra i piedi, frullando le ali, un occhio bianco e l’altro nero.
Davide provò a sorridere per sembrare disinvolto.
«In realtà non ero sicuro di volerla provare» mormorò, «così mi sono detto: fai tutto d'un botto, veloce, senza pensarci troppo… ecco, mi scusi.»
«Capisco» disse l’uomo, aveva un forte accento francese. Mentre avanzava per la stanza si lisciava i baffi impomatati. Era vestito di nero, con un fiore appassito nel taschino. Davide provò una strana sensazione guardando quei petali secchi, una malinconia sottile che scacciò sbattendo le palpebre.
«Le avevo comunque lasciato il denaro qua» disse Davide, indicando le monete.
«I soldi non sono importanti» sbuffò l’uomo, «mi servono solo per pagare la signora Chang per l’affitto e per acquistare il carbone per far funzionare le macchine. Io faccio un’opera di bene qua, sono un filantropo, capisce?»
Davide scosse la testa, non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire filantropo.
«Lasciamo perdere» disse l’uomo, «piuttosto, mi dica chi è e come ha fatto a trovare questo posto.»
«Mi chiamo Davide Amati, lavoro ai depositi di carbone, giù al porto. Sa, nel molo dell’isola Tiberina, ecco, e là c’è questa vecchia locanda dove ho sentito parlare di sfuggita di quello che fa qui e che ci volevano parecchi soldi e io avevo da parte qualcosa, così mi sono informato e…»
«Va bene, va bene» lo interruppe l’uomo, «se è stato così facile trovarmi ne deduco che sia arrivata l’ora di cambiare aria.»
Fece qualche passo e si piazzò davanti alla poltrona. Il corvo si alzò in volo e gli si posò sulla spalla.
«Può chiamarmi Monsieur A» disse, «ora però ho un ulteriore curiosità, mi dica, cosa le hanno detto che faccio qua?»
Davide si guardò le mani.
«Che riesce a rendere reali i desideri» bofonchiò.
«Mon Dieu» sbottò Monsieur A, «direi che non è esattamente corretto. E come dovrei riuscirci?»
Sembrava divertito, sorrideva e si lisciava i baffi.
«Con la macchina analitica» disse Davide, indicando il grosso cilindro di bronzo che stava dietro la poltrona. Di questo era abbastanza sicuro, glielo avevano confermato in tre.
«Questo è il con cosa, non il come. Vede, è necessario che chiunque voglia utilizzare la macchina sia bene informato. Ci sono anche dei rischi.»
Mentre parlava si era tolto dal taschino del panciotto un monocolo. Dopo averlo indossato si era messo a controllare i fogli con le attività cerebrali degli uomini collegati alle altre macchine e a uno dei due pulì la saliva che gli era colata da un angolo della bocca.
«Sa» proseguì, «chi ha inventato quelle macchine?»
Davide scosse la testa e il casco di cuoio si piegò di lato.
«Ada Lovelace» disse Monsieur A, «la figlia di Lord Byron. Prese i progetti del suo maestro, Charles Babbage, perfezionò i suoi studi, ampliò le possibilità con gli studi sul cervello umano e sull’elettricità… mi segue?»
Davide tenne fermo il casco con la mano prima di scuotere nuovamente il capo.
«La farò semplice» disse Monsieur A, «ciò che scoprì è lo stesso principio che permette alle armature meccaniche di acciaio e legno della gendarmeria pontificia di essere una cosa sola con chi le indossa. Riuscì a connettere macchine e pensiero umano. Sa come la chiamava Babbage? L’incantatrice dei numeri.»
Monsieur A annuì soddisfatto e riprese a spiegare:
«Ada dimostrò fin da piccola le sue innate doti di genio, tant’è vero che Lord Byron lasciò i suoi viaggi in giro per l’Europa e tornò in Inghilterra, così da starle vicino.»
Davide si grattò il mento, dove la cinghia di cuoio del casco sfregava sulla pelle.
«Non vedo cosa questo possa…» iniziò a dire, ma Monsieur A lo zittì alzando una mano.
«Ci sto arrivando, mon dieu, che impazienza. Quindi, mentre gli studi sulle intelligenze artificiali e le connessioni tra umani e macchine andavano avanti, Ada e suo padre si dedicarono a qualcosa di più astratto, diciamo, e progettarono queste macchine, che sono in grado di creare una sorta di nuova realtà. Cioè, è il nostro cervello che la crea, dà vita ai nostri desideri inconsci, usa ricordi, esperienze, speranze… ma è la macchina che riesce a potenziare la capacità di creazione, a rendere tutto tangibile, vivido. In una maniera tale che chi la prova non distingue realtà e finzione, non si rende conto neppure di aver iniziato a sognare. La regina Vittoria stessa la usò, ma si spaventò, perché sì, delle volte i nostri desideri inconsci sono terribili, e decise di metterle fuori legge. Ada e Lord Byron scapparono in Francia, dove… sì, mi scusi, la faccio breve, dopo varie vicissitudine io ne sono venuto in possesso.»
Davide intanto si era tolto il casco, le cose andavano per le lunghe e quell’aggeggio era scomodo.
«Lei conosce il mito di Sisifo?» chiese Monsieur A, «No, come non detto, certo che non lo conosce. La farò breve: Sisifo fu condannato da Zeus a portare su per una collina un enorme masso, ma appena raggiunta la cima questo sarebbe rotolato impietosamente giù. E così via, per l’eternità, su e giù.»
Il corvo gracchiò e Monsieur A gli accarezzò le piume.
«Ebbene» continuò, «Lord Byron battezzò questi cilindri macchine di Sisifo, perché, diceva lui, ti portano in cima e poi, inesorabilmente, ti svegli e precipiti.»
«Non capisco però» disse Davide, «perché mi ha detto che devo sapere tutto per decidere se usarle.»
«Perché c’è il pericolo che raggiunta la cima il masso non rotoli giù e lei rimanga per sempre nel mondo che ha creato. Che non si svegli più.»
«Si può morire?»
«Purtroppo sì.»
«Ma se si muore, perché ha detto che si rimane per sempre nel mondo immaginario?»
«Perché la mente può dilatare il tempo. Meglio, qua le cose andrebbero avanti, ma lei rimarrebbe fermo a un singolo istante, che durerà in eterno.»
«Ma sarebbe un istante di felicità, perché è ciò che ho desiderato.»
Monsieur A annuì.
«Perdere tutto ciò che abbiamo per quell'attimo eterno. Io non saprei scegliere. E lei, cosa sceglie?»
Davide parve titubare per un attimo. Poi raccolse il denaro dal tavolino e lo rimise in tasca.
«Magari ci penso ancora» disse.
«In qualunque momento, almeno fino a quando non avrò trovato un altro posto, sarò qua ad aspettarla» disse Monsieur A.
Davide lo salutò con un inchino e lasciò la stanza e la sala da tè.
Raggiunse Porta Portese in qualche minuto, fumando una sigaretta e ascoltando il rombo sommesso delle fabbriche sorte ai piedi del Gianicolo. Abitava in un casermone sulla Portuense, dietro le rimesse per i vaporetti. Una brutta costruzione in mattoni grigi con il tetto a volta puntellato di comignoli sottili, gemella di decine di altri palazzi tutti uguali. La gente che ci viveva li chiamava le “spazzole”, ma a Davide parevano più delle teste con i capelli rizzati. Erano sorti in fretta, quando la fame di alloggi per gli operai era cresciuta nel giro di qualche anno, anonimi e indistinguibili l’uno dall’altro.
Davide si fermò a fumare nei posteggi per i velocipedi. Ogni tanto faceva suonare le monete nella tasca. Non sapeva davvero cosa decidere, quella che Monsieur gli aveva proposto era un’esperienza che avrebbe voluto provare, certo, voleva rompere la noia, la monotonia della sua insulsa esistenza, ma il rischio era davvero troppo alto.
Sentì i trilli dei campanelli, puntuali, segnavano l’ora meglio delle campane. Una marea di operai usciti dalle fabbriche tornavano a casa, pedalando, con i cappelli di feltro calcati in testa e le sciarpe come code. Davide salutò qualcuno che conosceva ed entrò nel palazzo. L’ascensore pneumatico ci mise poco a portarlo al settimo piano. Percorse il corridoio fino alla porta di casa, concentrato sulle decorazioni liberty del tappeto rosso, l’unica macchia di colore concessa dai proprietari degli alloggi. Sospirò prima di entrare.
«Elena» chiamò appena fu dentro, «Sono tornato.»
Tutti i giorni, sempre la stessa frase. Nell’aria c’era l’odore della zuppa di cavolo e una musica tenue, che proveniva dal grammofono a schede forate che tenevano in cucina. Ti preparo il caffè? Pensò Davide.
«Ti preparo il caffè?» urlò sua moglie.
Davide non rispose. buttò il cappotto sul letto ed entrò in cucina.
Elena aggiunse della legna nella stufa e mise sul fornello la caffettiera. La luce rosata del tramonto entrava di sbieco dalla finestra socchiusa, illuminando il tavolino. Davide guardò la moglie che preparava il caffè, i fianchi larghi, i capelli raccolti in una treccia disordinata. Infilò la mano in tasca, per accertarsi che le monete fossero ancora là.
«Ho pensato che quelle avrebbero fatto un po’ di colore» disse Elena.
Davide diede un’occhiata in giro.
«Quelle» insistette Elena, indicando un vaso di petunie con un cucchiaino. Versò il caffè in due tazzine e le portò al tavolo. Davide si concentrò sul liquido scuro, il vapore gli scaldò il naso. Elena sorrise e gli spostò una ciocca di capelli che gli aveva coperto un occhio.
«Com’è andata a lavoro?» chiese.
Davide alzò le spalle, non era mai stato bravo a mentire e il silenzio era un’ottima alternativa.
«Le ho raccolte sulle sponde del fiume» continuò lei, voltandosi verso il vaso di petunie, «mi hanno ricordato il colore dei muri di quella taverna dove andavamo a bere qualche anno fa. Te la ricordi?»
«Non erano di quel colore» disse Davide.
Elena sembrò rifletterci, prese una petunia e se la mise tra i capelli.
«E se ci facessimo una birra?» propose.
«Una che?»
«Dai, una birra, andiamo in centro…»
Per poco Davide non scoppiò a ridere. Quello era il massimo che potevano permettersi, dopotutto.
Elena arricciò il naso, lo faceva sempre quando qualcosa non andava come lei aveva previsto. Anche i suoi occhi, a guardarli bene, erano dello stesso indaco delle petunie. E Davide li guardò bene e li trovò ancora belli. Certo, non gli fecero tremare le gambe o battere più veloce il cuore come da ragazzini, ma gli trasmisero serenità.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Elena, «se non ne hai voglia rimaniamo a casa.»
Davide scosse la testa. Non gli andava né di uscire, né di rimanere a casa. La cucina, la sua cucina, dove insieme avevano vissuto e discusso, dove si erano amati e avevano riso e a volte odiati e riconciliati, gli sembrò d’improvviso soffocante. Eppure tutto quello che c’era fuori lo spaventava a morte. Avrebbe dovuto provare la macchina di Sisifo, perché da solo non riusciva proprio a capire che cosa desiderasse.
«Non sono andato a lavoro» si sentì dire.
Elena si accigliò.
«E dove sei andato?» chiese.
«Be’, qua e là» mormorò Davide, «non avevo voglia, ho passeggiato…»
«Hai passeggiato.»
«Te l’ho detto.»
«Di qua e di là.»
Ecco, questo atteggiamento lo irritava. Questo farlo sentire sempre debole.
«Comunque sono cose che non ti interessano» disse.
«Bella questa. Non mi interessano.»
«No, il fatto è… che non è facile immaginare cosa voglia dire stare nei panni di qualcun altro, insomma.»
«Non ho capito.»
«Non puoi capire cosa sia essere me.»
Davide abbassò lo sguardo. Quando lo risollevò per un secondo sembrò che tutto cambiasse colore, che diventasse più scuro. E che Elena non ci fosse. Provò una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come di una forte nostalgia, ma per cosa, se lui era là con lei, nella loro cucina, nella loro casa. Ma fu solo per poco. Elena sbatté i pugni sul tavolo e Davide sobbalzò.
«Va bene» disse lei, «vuol dire che a bere quella dannata birra ci vado da sola.»
Si alzò e prese il cappotto dall'ingresso. Davide si morse il labbro. Le monete pesavano nella tasca, ed erano il segno tangibile, la prova certa, che dalla parte del torto fosse lui, qualunque cosa lo avesse mosso ad agire come aveva fatto.
Quando sentì la porta di casa chiudersi, gli sembrò che il mondo perdesse di calore. La stufa era in effetti spenta. Dalla finestra non entrava più la luce del tramonto, ma una d'un crepuscolo scuro, filtrato dai fumi delle fabbriche. La musica era muta.
Sul tavolo il vaso di petunie era vuoto. Qualche fiore secco sparso sul pavimento, gli steli, gialli, abbandonati sul ripiano.
Un corvo con un occhio cieco lo osservava dal davanzale della finestra.
Davide scattò in piedi e la sedia cadde, corse alla porta e la spalancò. Elena aveva fatto solo pochi passi.
«Amore mio!» urlò, «torna indietro, ti prego, io…» cercò qualcosa da dire, ma era un povero ignorante, le parole non erano mai state il suo forte. Sentì le lacrime rigargli il viso, aprì la bocca e ne uscì un borbottio indistinto, il lamento di un animale ferito e impotente.
Elena si girò, anche la petunia che aveva nei capelli si era seccata. Si sistemò la borsetta sulla spalla, pareva assorta in qualcosa di molto distante. Fece un passo, abbozzò un sorriso, un altro passo verso Davide e il fiore riprese colore. Davide udì il grammofono riprendere a suonare. Elena fece ancora un passo.
«Ho proprio voglia di una birra» singhiozzò Davide.
Il sorriso di Elena si allargò. Giù in strada si udì chiaro lo sferragliare del passaggio del tram e il fischio della sua vaporiera. Davide provò un sollievo a quel rumore che non riuscì a spiegare. Protese la mano verso Elena che aprì le braccia e
Monsieur A si avvicinò alla poltrona e controllò l’attività cerebrale di Davide. Vide che si era svegliato e lo aiutò a bere un poco d’acqua. Ogni volta il ragazzo rimaneva addormentato più a lungo. Portava su il masso, sempre più in alto, e ogni volta, come Sisifo, com’era inevitabile, il masso rotolava e tornava giù.
Ormai Monsieur A conosceva bene questo ragazzo. Viveva da solo perché la moglie era morta un anno prima, travolta da un tram poco distante da casa. Nell’ultimo periodo arrivava di corsa, metteva il denaro sul tavolino e si attaccava da solo alla macchina. E anche quel giorno, quando aveva sentito fischiare il drago da guardia, era corso nella sala delle macchine di Sisifo, già certo di trovarlo là, addormentato.
«Stavolta ci stavo per riuscire» bisbigliò Davide, «stavo per raggiungere la cima…»
Un rivoletto di sangue gli colava dal naso sulla guancia, fino all’orecchio. Monsieur A glielo asciugò e sorrise.
«Non si sforzi» disse, «si riposi ancora un po’.»
«Il tram era passato» biascicò Davide, «sono sicuro che se riuscissi a non svegliarmi più starei con lei per sempre. La mente può dilatare il tempo all’infinito, me lo ha promesso…»
«Certo, ma qua, nella realtà, morirebbe… se lo ricordi» disse Monsieur A. Era un’ovvietà, ma era anche suo dovere ripeterla.
«Non importa, se lei… se io… e quei fiori sarebbero ancora vivi.»
Monsieur A scosse la testa, il ragazzo stava vaneggiando. Doveva lasciarlo riposare in pace.
Uscì dalla stanza scostando la tendina e attraversò lo stanzone saturo dei fumi d’oppio. Osservò distratto gli uomini abbandonati sui cuscini e sdraiati per terra. Non li giudicava, era un modo come un altro per fuggire, per dimenticarsi del mondo che li opprimeva. Ciò che offriva lui non era poi così diverso.
Aveva bisogno di un po’ d’aria. Indossò il cappotto e il cilindro e uscì. Il corvo lo seguiva volando basso, invisibile nel buio della notte. Sul lungotevere alcuni uomini stavano finendo di accendere i lampioni. Con i lunghi bastoni davano fuoco agli stoppini delle lampade e poi richiudevano le scatole di vetro. Presto tutta la via sarebbe stata illuminata, cancellando le stelle.
Si fermò vicino agli argini del Tevere. Il fiume era nero come olio vecchio. Sullo sfondo i nuovi ponti di ferro e tiranti d’acciaio sembravano ragni. L’aria puzzava di carbone e segatura bagnata. Un aereonave passò sopra la città, ne distinse chiaramente il ronzio delle eliche. Le finestre dei palazzi erano tutte buie. Sentì un cane abbaiare, lontano, e il trillare della campanella di una pattuglia che compiva una ronda. Il vento sporco gli faceva schioccare il cappotto sulla schiena. Strinse i pugni. No, non si sarebbe arreso. Avrebbe spostato di nuovo le macchine, avrebbe continuato a regalare un po’ di speranza, anche se finta, alle persone prigioniere di questo mondo morente. Lo aveva deciso quando aveva portato via da Parigi le ultime tre macchine di Sisifo, dopo aver trovato morti sia Ada che Lord Byron, uccisi dalle loro stesse creazioni. Sì, avrebbe continuato.
Fischiò per richiamare il suo corvo e si nascose tra le ombre di Trastevere.